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Ogni giorno attraversano i valichi e lasciano l’Italia per raggiungere la Svizzera, dove li attende il lavoro. Sono i frontalieri, un sostantivo questo, che contiene un’esperienza lavorativa ed esistenziale particolare, contornata a volte da un alone di leggenda metropolitana da sfatare perché non sempre corrispondente all’immaginario collettivo. La Svizzera è uno dei Paesi più prosperi del mondo, la nona nazione per livello di corruzione più basso a livello globale, uno dei posti più competitivi dove le tasse sui redditi sono notevolmente inferiori a quelle italiane. Offre un livello di benessere economico di alto livello e la disoccupazione è tra le più basse in Europa. I compensi professionali in franchi svizzeri sono superiori a quelli della maggioranza dei Paesi europei ed extraeuropei (un insegnante guadagna mensilmente intorno ai 5.000 franchi, un dipendente ospedaliero senza qualifica dai 3500 ai 4300 franchi, un muratore dai 3500 ai 4600 franchi…). E’ anche vero che il costo della vita è molto alto ma lavorare in Svizzera e continuare a risiedere in Italia, zona confine, risulta decisamente vantaggioso, dati i prezzi altissimi oltre confine per gli alloggi, la sanità e tutto ciò che serve quotidianamente.

Abbiamo sempre guardato alla Svizzera come una sorta di Eldorado, il Paese delle occasioni, opportunità, possibilità e riconoscimento economico, sorvolando su aspetti come il sacrificio,lo spirito di adattamento, i compromessi e la consapevolezza che gli immigrati, la forza lavoro che si riversa quotidianamente oltre le dogane è accolta senza essere particolarmente amata. Sono più di 60.000 i frontalieri che varcano la frontiera partendo dalle province di Varese, Como, Lecco o dall’Alto Piemonte, le regioni cioè con i maggiori tratti di confine con la Federazione Elvetica. Dieci anni fa erano solo 25.000. Secondo le stime del Ministero dell’Economia e Finanza, il 90% di essi si reca nel Canton Ticino, a Lugano e dintorni e, aggiungendo coloro che hanno trovato lavoro nel Canton Grigioni e nel Vallese, il dato raggiunge il 99% della presenza frontaliera in Svizzera.

I disagi che questa tipologia di lavoratore incontra sono spesso riferibili ai problemi di mobilità: treni spesso in ritardo, come riferiscono gli utenti, lunghe soste alla dogana nei periodi di punta o causa neve, per chi utilizza la propria auto. Alle 7 di mattina la fotografia che giunge dai valichi è quella di una lunga coda di macchine che lentamente si avvicinano alla zona controllo; se le condizioni metereologiche penalizzano con nevicate copiose, la coda sembra un lungo serpente apparentemente immobile, che procede a intermittenza dopo lunghe pause. Il tempo libero diventa una rarità e il trattamento sul posto di lavoro non è sempre paritario, rispetto ad un residente perché non esistono contratti collettivi e una piattaforma che aiuti nella regolamentazione del lavoro. Negli ultimi tempi, a cambiare la percezione di grande sicurezza e stabilità lavorativa del passato, sono intervenute nuove modalità contrattuali: ora sono frequentissimi i contratti tramite agenzia, attraverso i quali un lavoratore viene assunto al bisogno e licenziato quando la sua prestazione non è più richiesta, con un solo mese di preavviso.

Fino una decina di anni fa i lavoratori frontalieri erano occupati in massa nelle industrie siderurgiche e nell’edilizia; oggi, il profilo prevalente è costituito da funzionari nelle banche, informatici, impiegati e manager negli uffici commerciali delle multinazionali o aziende di punta che hanno fatto della Svizzera la loro sede permanente. Per questo, forse, i cittadini ticinesi hanno cominciato a vivere la presenza dei frontalieri come una minaccia concorrenziale. Che la presenza di lavoratori italiani sia una realtà molto più impattante di quanto si creda è dimostrato da un esempio: Stabio. E’ un piccolo comune ticinese ad una manciata di chilometri dal confine italiano nel varesotto, con poco più di 4000 abitanti e quasi 5000 frontalieri che ogni giorno lo raggiungono e contribuiscono a rendere quel territorio “azienda diffusa”. Le aziende italiane e internazionali hanno tutto l’interesse a locarsi in territorio svizzero e i motivi sono facilmente intuibili. Le imposte a carico delle aziende sono in Ticino il 25% circa degli utili mentre in Italia superano del doppio: uno scudo fiscale allettante per tutti, che contribuisce al trasferimento delle aziende italiane (e internazionali) in una realtà più favorevole.

Il volto della Svizzera è cambiato ed insieme ad esso è cambiata la richiesta di forza-lavoro. Si richiedono competenze più specifiche che ben si adattino all’esigenza contingente, e la tipologia di chi risponde è costituita da giovani che provengono da una formazione universitaria in Italia, con competenze settoriali o trasversali nel settore dell’Economia e Finanza ma anche dell’ambito sociale e socio-sanitario, una delle qualifiche molto richieste al momento nel campo ospedaliero e dell’assistenza al malato.

La Svizzera rimane quindi un Paese che offre lavoro e accoglie ma, dall’altro lato, solleva sempre più frequentemente il proprio timore e manifeste riserve sull’immigrazione, paure che hanno favorito il recente ‘Referendum contro l’immigrazione di massa‘ in seguito al quale si è giunti ad imporre un tetto massimo di permessi di ingresso e dimora per stranieri. Si sta lavorando attualmente e nei tempi utili ai trattati internazionali che dovranno regolamentare la questione poi, nel corso dell’anno, verrà applicata la nuova normativa.

Come cambierà il fenomeno dei frontalieri? La Svizzera ha necessità di attingere a risorse umane oltreconfine e molti giovani e meno giovani hanno bisogno di opportunità presenti fuori dall’Italia, ancora e nonostante la crisi travolgente. Attenderemo e nel frattempo osserviamo gli sviluppi internazionali, augurandoci che muri e rigide linee di demarcazione lascino il posto alla collaborazione e allo scambio ragionevole e proficuo per tutti. Ci auguriamo una frontiera permeabile che permetta questo.

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Liliana Cerqueni

Autrice, giornalista pubblicista, laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. E’ nata nel cuore delle Dolomiti, a Primiero San Martino di Castrozza (Trento), dove vive e dove ha insegnato tedesco e inglese. Ha una figlia, Daniela, il suo “tutto”. Ha pubblicato “Storie di vita e di carcere” (2014) e “Istantanee di fuga” (2015) con Sensibili alle Foglie e collabora con diverse testate. Appassionata di cinema, lettura, fotografia e … Coldplay, pratica nordic walking, una discreta arte culinaria e la scrittura a un nuovo romanzo che uscirà nel… (?).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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