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di Fausto Natali

Come in ogni fiera che si rispetti, anche i partecipanti ad Expo 2015 hanno ‘esposto la merce’ facendo ricorso a tutta la loro abilità per stupire i visitatori con effetti speciali. Alcuni ci sono riusciti, altri meno. Fatto sta che il risultato è una singolare sequenza di architetture avveniristiche, allestimenti bizzarri (alcuni decisamente kitsch) e austere ambientazioni al limite del monastico. I diversi budget, ovviamente, hanno inciso profondamente sulla progettualità dei singoli Paesi, ma la ridotta capienza del borsellino non sempre giustifica la piatta riproposizione di concetti scontati e banali. La verità è che i padiglioni rispecchiano la situazione politico-culturale del Paese che li ha ideati e costruiti. Emblematico, da questo punto di vista è la Thailandia: un maestoso spazio espositivo a forma di ngob, il tipico copricapo degli agricoltori locali, innalzato per la gloria del “grande Re agricoltore” Bhumibol Rama IX. A noi ricorda la battaglia del grano del Ventennio e ci fa sorridere, ai thailandesi non credo.

Non mancano, comunque, le nazioni che hanno inteso e sviluppato con coerenza lo spirito del messaggio “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”. A cominciare dalla Gran Bretagna, un padiglione all’insegna della natura, premiato all’unanimità dagli architetti come il migliore di Expo, che miscela in giuste dosi tecnologia, spettacolarità, concretezza e poetica. Altrettanto convincente per la perfetta combinazione fra design e natura è l’allestimento austriaco. Un autentico viaggio esperienziale in un bosco di dodici mila piante che fornisce 62 chilogrammi di ossigeno fresco ogni ora. “Respira Austria” è il significativo motto di uno degli spazi più efficaci di tutta la rassegna. Non meno interessanti da questo punto di vista sono i cluster, lontani dalla folla del decumano e a volte un po’ ingenui, ma densi di contenuti. Particolarmente apprezzato, e semplice da individuare grazie alla scia olfattiva, il cluster del caffè che riunisce una decina di Paesi coltivatori e che racconta la cultura e le tradizioni del prodotto dal chicco alla tazzina.

Eloquente anche il messaggio della Corea del Sud: mangiate hansik (la tipica cucina fermentata coreana) e vivrete meglio! Un padiglione spazioso e ben strutturato, forse un po’ pretenzioso, che cerca di sbalordire i visitatori con due braccia meccaniche che muovono vorticosamente degli schermi sui quali piroettano immagini di frutti e verdure. Spettacolare, ma ridondante. Un risultato simile si poteva ottenere con un proiettore su una parete. Quello del Giappone, per rimanere nell’Estremo Oriente, è il padiglione più gettonato. Nei week end la fila arriva fino in Slovacchia: novemila chilometri sul mappamondo, sette ore di coda ad Expo. Suggestiva la “Cascata della diversità”, un’accattivante installazione che simula l’effetto di una colonna d’acqua che scende dal soffitto e in mezzo alla quale scorrono notizie su agricoltura, cibi e cultura alimentare giapponese, proposta come modello globale del futuro. Lo spazio si conclude con un ristorante virtuale e uno reale (a prezzi accessibili, per inciso). Altro padiglione che catalizza l’attenzione dei visitatori è quello del Brasile. Non tanto per i contenuti, tutto sommato abbastanza scontati, quanto per l’enorme rete elastica interattiva che collega i tre piani e sulla quale goffamente ci si arrampica. Un padiglione “fisico”, la scalata non è per tutti, ma con ridotti tempi di attesa.

Particolarmente riuscito il Padiglione Zero, vera e propria introduzione ad Expo. Lo spazio, il più visitato dell’intero evento, descrive lo straordinario percorso evolutivo dell’uomo e il suo rapporto con l’alimentazione e l’agricoltura. Di grande effetto l’immenso cortometraggio (per dimensione e suggestione) di Mario Martone.

Un racconto sul cibo così articolato com’è Expo non può essere racchiuso in una sola paginetta e molti altri sono i Paesi ai quali sarebbe giusto dedicare due parole, per lo più positive. Ne cito solo alcuni: l’Oman, l’Estonia, il Kazakistan, la Francia, la Svizzera, la Germania e gli Emirati Arabi (che fra l’altro ospiteranno la prossima edizione dedicata al tema “Collegare le menti, creare il futuro”).

Concludo con alcune considerazioni sui padroni di casa. All’Italia, Paese organizzatore è stato riservato l’intero cardo, ma su tutti spicca Palazzo Italia. Un edificio imponente, costato quasi cento milioni euro, che giganteggia sullo sfondo delle foto dell’Albero della vita e che dal punto di vista estetico sconta l’eccessiva somiglianza con il Nido d’uccello delle Olimpiadi cinesi. Bello, ma già visto. Interessante, invece, l’approccio sostenibile: vetri fotovoltaici e cemento esterno catalitico che cattura gli inquinanti dell’atmosfera lo rendono una delle strutture più ecologiche della manifestazione. Il confuso allestimento interno, invece, non convince del tutto. Un grande viaggio fra le italiche eccellenze, ma che lascia un po’ freddi. Dopo l’Expo dovrebbe essere riconvertito a campus universitario. Speriamo venga utilizzato al meglio.

Un’ultima considerazione voglio riservarla allo spazio espositivo di Slow Food. Una struttura poco spettacolare, ma forse la più coerente con il tema dell’evento. Alcuni lo hanno trovato un po’ triste e desolato, ma la verità è che paga un’infelice collocazione. Al temine del decumano i visitatori arrivano spossati e gli ingressi da Est Roserio sono molti meno delle previsioni, ma l’obiettivo di veicolare un messaggio sostenibile, che tuteli le risorse naturali, il benessere sociale ed economico dei produttori e la salute delle persone, garantendo a tutti un cibo sano, buono e pulito, è stato raggiunto in pieno.

Concludendo, l’Expo è veramente uno spettacolo grandioso. Grandi mezzi, grandi architetture, grandi protagonisti e grandi menu. Un enorme palcoscenico sul quale ciascuno ha cercato di lasciare la propria impronta. Ma era proprio questo lo scopo dell’esposizione milanese? O non piuttosto unire le forze e le progettualità per trovare soluzioni alle difficoltà alimentari del pianeta come, ad esempio, ridurre lo spreco e garantire cibo per tutti?

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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