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2. CONTINUA – “Il Verdi ha avuto una storia vissuta e tormentata. E’ stato il vero teatro popolare. Là si è ‘consumato’ ogni genere di spettacolo: la lirica, il cabaret, lo spogliarello, gli orchestrali, il cinema per famiglie e il porno, nell’Ottocento addirittura mangiatori di spade o di fuoco, alternati alle opere liriche… Il teatro popolare, appunto. E curiosamente uno dei pochi in Italia con la particolarità di avere l’ultimo ordine dei palchi affacciato direttamente sul palcoscenico”. A dirlo è l’architetto Sergio Fortini, fautore (con Centro studi ‘Dante Bighi’, Gianfranco Franz e Luca Lanzoni) della sua riapertura autunnale.
Nei pochi giorni in cui le porte si sono spalancate alla città, all’inizio dello scorso ottobre, c’è stata una continua processione di pubblico, per annusare sentori di storia e vedere cosa fosse rimasto di quello spazio: solo volumi e scheletri di memoria. “La temporanea riapertura del teatro Verdi – spiega – ci porta a parlare del capitale narrativo custodito in molti luoghi ferraresi. E’ stato un segnale culturale d’eccezione, nonostante la sua episodicità. L’evento ha mostrato capacità suggestiva, tale da lasciare sospesa la sua dimensione temporale. Ha catturato interesse in maniera trasversale. E in me ha generato una crasi fra Austin e Piranesi, facendomi sentire in uno stato di ‘orgoglio e precipizio’”.

Già, perché ora la scommessa è dare continuità alla suggestione e rendere l’ipotesi una realtà. “Faremo di tutto perché questo accada. Con l’Associazione ‘Città della cultura / Cultura della città’ abbiamo superato la prima selezione del concorso ‘Che fare 2’, bandito dal Sole24ore: di 600 progetti presentati solo 40 sono stati ammessi e noi ci siamo. Questo contribuisce, parallelamente, alla visibilità del progetto e all’avvio del processo di raccolta fondi”. E la Regione che ha finanziato la prima parte degli interventi è disposta a intervenire ancora? “Il cancello non è chiuso e si sta valutando se quello possa essere il canale per ottenere finanziamenti europei. Ciò a cui puntiamo non è la semplice riqualificazione di un luogo, ma la rivitalizzazione di un comparto urbano affinché possa attrarre nuove economie e generare socialità”. Ma concretamente quanti soldi servono? “Sono convinto che si possa realizzare un progetto a bassa risoluzione per il layout degli spazi, ispirato a logiche da loft quindi secondo la tipologia di recupero industriale, con accorgimenti minimali e senza l’impiego di materiali e dettagli costosi si possa realizzare un netto risparmio rispetto ai 10 milioni a suo tempo ipotizzati”. Tradotto significa “meno della metà della cifra prefigurata”.

Dal contesto del teatro Verdi, la riflessione sul capitale narrativo di Ferrara si amplia. E, quasi per prossimità fisica, il ragionamento sulla riqualificazione di ambiti urbani di particolare rilievo si indirizza verso la vicina via delle Volte. “C’è un recupero di immagine e di sostanza che si potrà realizzare nel momento in cui si dispiegherà il progetto del Meis, perché il Museo ebraico rappresenterà l’approdo turistico e la nuova testata di penetrazione della città – osserva Fortini – E via delle Volte è l’asse di attraversamento del nucleo medievale. Ma non c’è ancora una riflessione in atto. Eppure lo stimolo è potente. Una città è fatta da linee e percorsi, si gioca suoi vuoti, non sui pieni. La nostra ha una natura conformista, in ossequio alla quale ha abdicato alla cultura architettonica della contemporaneità, al punto che negli ultimi tre decenni non sono stati realizzati edifici degni di menzione, se non qualche abitazione privata frutto di brillanti ma estemporanee intese fra committente e progettista”.

“Però si è completamente rinunciato a ricercare equilibri e armonie fra antico e contemporaneo come se, da un certo momento in poi, qui come in tante altre parti d’Italia si fosse avvertito il bisogno di rifugiarsi nel classico stilema architettonico della casetta o della villetta a schiera, rassicurante perché banale. E’ una deriva determinata anche dall’incompetenza di chi gestisce il mercato, che ha imposto il modello dell’uni o bifamilare di cui si è riempita la fascia periurbana, impoverendo il paesaggio”.

Il salto dalla presente ‘villettopoli’ alla ‘smart city’ indicata da ‘Cultura della città’  come desiderabile approdo per il futuro di Ferrara ed evocata dall’ex sindaco Sateriale – nell’intervista a ferraraitalia – come potente opportunità di sviluppo e benessere per la comunità, appare dunque un vorticoso viaggio nel tempo, un vertiginoso affacciarsi oltre gli steccati della pigrizia.

“Su questi temi, già da un anno, abbiamo avviato incontri definiti ‘tavole quadrate’, a significare la volontà di smussare gli spigoli esistenti, metafora delle scarse capacità relazionali di attori pubblici e privati chiamati a rendersi protagonisti della trasformazione”. L’indifferibile necessità di un confronto, dunque. “Noi riteniamo che la condizione base da cui partire per impostare una programmazione strategica orientata alla realizzazione di una città ‘smart’ stia nella simultanea e simmetrica condivisione delle informazioni fra tutti gli attori sociali. Se due istituzioni per prime non si parlano e non sono in grado di socializzare conoscenze, competenze, dati, risorse non possono pensare di costruire un ambiente ‘smart’ il cui presupposto è la messa in comune”.

Chi non mastica questi temi come deve figurarsi questo modello di vita comunitaria? “Come un ambiente con un’alta qualità della vita, intriso di una socialità capace di generare opportunità economiche e condizioni di diffuso benessere perché le risorse vengono condivise e dunque ottimizzate a vantaggio di tutti”.
In questo senso il ritardo di sviluppo, oggi, può rivelarsi una risorsa. “Ferrara ha qualità intrinseche che discendono dalla sua storia e che ha saputo mantenere. La sua resistenza al cambiamento ha determinato una sospensione lirica e quasi metafisica. C’è in noi connaturata una lentezza nel vivere che non è quieto vivere, ma vivere quieto”. E tutto questo come si traduce in un progetto di nuova urbanità? “Abbiamo un quadrante intero di campagna dentro la città, regalato al verde dal Rinascimento e conservato sino ai giorni nostri, quello attorno alla Certosa. Siamo una città patrimonio Unesco inserita in un territorio Unesco che si estende sino a Comacchio e al mare. Sono valori aggiunti che pochi posso vantare. In questo senso l’essere rimasta avulsa dalla contemporaneità ha certo significato non avere lanciato al mondo alcun significativo segnale, ad eccezione del Nobel a Giulio Natta per l’invenzione del moplen o delle lungimirante intuizione della videoarte di Franco Farina e Lola Bonora. Ma questo oggi conferisce appunto ‘il valore aggiunto’: la città avulsa dal fluire del tempo, si è sostanzialmente sottratta ai conflitti, ai contrasti, agli attriti, alle contraddizioni della modernità. E si presenta vergine all’alba del 2014. L’isolamento di Ferrara, il freno al suo sviluppo, oggi si traduce in un vantaggio”. In opportunità… “Sì, in opportunità. Per tradurre questa carta in in un asso dovremo avere la capacità di mettere a valore il paesaggio artificiale di città nobilitato dalla storia e il paesaggio naturale incontaminato del forese. Questa è la sfida, questo è il terreno su cui lavorare”.

2. FINE
Leggi la prima parte della conversazione con Sergio Fortini

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Sergio Gessi

Sergio Gessi (direttore responsabile), tentato dalla carriera in magistratura, ha optato per giornalismo e insegnamento (ora Etica della comunicazione a Unife): spara comunque giudizi, ma non sentenzia… A 7 anni già si industriava con la sua Olivetti, da allora non ha più smesso. Professionista dal ’93, ha scritto e diretto troppo: forse ha stancato, ma non è stanco! Ha fondato Ferraraitalia e Siti, quotidiano online dell’Associazione beni italiani patrimonio mondiale Unesco. Con incipiente senile nostalgia ricorda, fra gli altri, Ferrara & Ferrara, lo Spallino, Cambiare, l’Unità, il manifesto, Avvenimenti, la Nuova Venezia, la Cronaca di Verona, Portici, Econerre, Italia 7, Gambero Rosso, Luci della città e tutti i compagni di strada

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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