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Fa freddo in corso Giovecca, l’aria è di quelle tipiche dell’inverno ferrarese. Lungo la strada che collega il viale al Listone c’è solo una signora, in evidente difficoltà con il suo cane dall’aspetto senile e sicuramente poco incline alla passeggiata serale. Ma il tempo per osservarsi intorno è poco. Scatta il verde. Il semaforo è un luogo particolare, di giorno si vedono orde di persone indaffarate, avvocati che si precipitano verso il tribunale di via Borgo dei Leoni, flotte di studenti che attendono ansiosamente lo scattare del verde per correre dall’altra parte, e auto incolonnate guidate da autisti spesso persi tra una telefonata e uno sguardo alle vetrine. Ma la sera tutto cambia. La sera il semaforo è il luogo d’incontro di una delle figure più sfuggenti e al tempo stesso presenti della notte: il porta-pizze. Strano mondo il loro, padroni della strada, ma solo in fascia oraria. Li noti sbucare dappertutto, ogni stradina, vicoletto. Verrebbe in mente una similitudine col ratto, ma con meno nonchalance nei movimenti, spesso goffi a causa del cassone posteriore. E il semaforo diventa una griglia di partenza. Non c’è bisogno di aspettare il “verde”, al “giallo” del omonimo posto all’incrocio opposto, già si fanno scaldare i motori e via, dopo una rapida occhiata, si parte. Non esistono regole, se non quella di “arrivare subito”. Moderni “soccorritori” dell’appetito di chi, questa sera, ha ben pensato di non uscire. Il loro cosmo è molto particolare: una giungla eterogenea di facce, puoi incontrarci chiunque, ecco che in un angolo incroci Jafar, pachistano, in Italia da 3 anni, si vanta di conoscere le vie di Ferrara meglio dei tassisti. Sorride quando ci si avvicina alla sua pizzeria, mostra una cordialità quasi referenziale, ma quando si parte ecco che il suo volto diventa serioso, quasi preoccupato: per lui arrivare subito è una questione di dignità. Andando avanti per le stradine del centro incontro Mirko, lucano, qui da 4 anni, studente fuori corso di architettura, sta iniziando il turno e guarda preoccupato il cielo. “Spero che non piova, non ho il vetro al casco” mi dice sorridendo. Per lui questo lavoro è un salva-vita. Mi spiega come questo sia il “mestiere per cominciare”, poi c’è chi, come lui, ci rimane. Mi incuriosisce, gli chiedo di descrivermelo. Mi risponde quasi malinconico: “è un lavoro brutto, sotto pagato, pericoloso e invisibile, si accorgono che esistiamo solo quando facciamo ritardo”. Ride. Io sono perplesso, gli faccio qualche altra domanda, ma mi fa capire con un cenno dello sguardo che le consegne sono parecchie, “stasera c’è brutto, la gente non esce, quindi tocca a noi”. Se ne va lasciandomi con una pacca sulla spalla, mentre entra noto il suo abbigliamento, nulla di eccezionale, nulla che lo possa proteggere da eventuali cadute se non un casco “senza vetro”.

Continuo a camminare nel reticolo di stradine che da Giovecca mi fa addentrare nel cuore di Ferrara. Lì conosco Alì, anche lui pakistano. Gli chiedo se posso porgli qualche domanda sul suo lavoro, mi guarda sorridendo e mi fa capire di non comprendere benissimo l’italiano. Sposto la conversazione su un idioma a lui più congeniale (non a me), l’inglese. Operazione riuscita. Inizia ad aprirsi ma ad un patto: che possa continuare l’operazione di assemblaggio dei cartoni per portare le pizze. Mi dice che un portapizze fa questo quando sta “ai box”. Sistema i frigo, e fa i cartoni, centinaia di cartoni. Fa un caldo soffocante, ma lui non abbandona il suo giubbotto: “se mi dovessero chiamare, devo andare subito” mi dice sorridendo. Mi mostra delle foto del Pakistan, arriva ad invitarmi. Siamo oramai in confidenza. Gli chiedo quale sia la sua retribuzione, argomento scottante. Scopro così che il sottobosco di questo strano universo è il regno del famigerato voucher, ma a lui ne danno uno al giorno, il restante, naturalmente, in nero. Facendo un rapido calcolo, arrivo a dedurre che il mio nuovo amico percepisce 5 euro all’ora. Ne lavora 3. “La mattina vado a dare volantini, lì danno di più”. Si, perchè il porta pizze è un secondo lavoro, non può essere il principale penso. Saluto dopo aver assaggiato un pezzo di pizza offertami dai gestori, di origine pugliese. Proseguo la passeggiata. Incrocio un’altra pizzeria, i proprietari sono italiani, il porta-pizze invece è Ivan, moldavo, di giorno muratore per una ditta, della quale si lamenta per lo scarso lavoro. Lo sguardo è austero, anche lui impegnato a fare i cartoni. I suoi datori lo sbeffeggiano approfittando della sua scarsa conoscenza dell’italiano mentre mi parla. La situazione mi infastidisce. Usciamo a fumare. Lì si apre un po’ di più. Mi racconta di sua figlia e di come, almeno lui, sia fortunato: ha un impermeabile giallo da poter indossare in queste serate. Mi racconta di come conosca qualsiasi strada di Ferrara, addirittura ricorda i volti dei clienti, dei trucchetti per ricevere una mancia, delle zone più “ricche” e quelle meno, di chi la lasci più spesso è di chi troppo tirchio per poterlo fare. Lo saluto mentre scappa via, è stato richiamato al servizio in modo abbastanza brusco, lui sta in silenzio ma lo sguardo dice tutto. Parte.

Questo squarcio di vita notturna mi affascina e rattrista allo stesso tempo. Odio il romanticismo, ma queste figure mi sembrano molto inclini ad esserlo. Cammino ancora ma oramai il cielo non nasconde più le sue intenzioni e giù un rovescio d’acqua. Non un’anima per la strada, poi un suono alle spalle, passa alla mia sinistra uno “zip”, in piena zona Ztl e contromano, è Mirko, mi saluta e rallentando sorride e dice “visto che m**da di mestiere?!” e va via sfrecciando. Sono abbastanza zuppo per poter continuare. Torno a casa. Ho una strana sensazione, scrivere un articolo su questo mondo mi sembra quasi eccessivo, nessuno ne parla, perché dovrei io? Svelare una fetta di questo universo parallelo, silenzioso, nascosto, che ci circonda ma non ci tocca. Penso sia tardi, alla fine scrivo e non so se ho detto tutto, ma poco importa. Gli spazi della stampa sono stretti. Allora mi dico che basti così, magari ne scriverò un altro. Nel frattempo mi affaccio alla finestra per un’ultima sigaretta. Fuori piove a dirotto. Sono esattamente le 24 e 37 e sotto casa mia, al semaforo, è fermo uno di questi strani soggetti, vestito con una tuta arancione con bande fluorescenti, lo osservo partire, dal modo nel quale lo fa comprendo che conosce perfettamente la tempistica di tutti i semafori di via Bologna, ma forse per la pioggia, o vuoi per il freddo, l’ultimo semaforo già è diventato rosso, ed eccolo costretto a fermarsi, ma solo per guardare che non passi nessuno, e di nuovo via. La pizza non può aspettare. Prima di rientrare mi viene in mente Mirko, lui si che ha ragione: “visto che m**da di mestiere?!”… Sì Mirko, questa sera l’ho visto.

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Jonatas Di Sabato

Giornalista, Anarchico, Essere Umano

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

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Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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