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È stata inaugurata ieri, dopo due anni di sospensione dovuti ai danni provocati dal terremoto del 2014, la XVI edizione della Biennale Donna. L’esposizione si intitola “Silencio Vivo- Artiste dall’America Latina” e vede protagoniste quattro artiste che, con le loro opere, tentano di annientare i silenzi forzati, causati dalle dittature totalitariste, di far sentire la voce dei più deboli, il suono dell’indifferenza che il mondo ha verso le violenze quotidiane.

Amalia Pica
Amalia Pica

La mostra si apre con le opere di Ana Mendieta, artista cubana prematuramente scomparsa, e continua con le installazioni di Anna Maria Maiolino, italiana trasferitasi in Brasile nel 1960, Teresa Margolles, artista messicana di cui è esposta un’opera inedita, e Amalia Pica, esponente dell’emergente cultura artistica argentina, che si concentra sui vari aspetti del linguaggio, rappresentandolo in tutte le sue forme. Consapevole delle potenzialità e dei limiti della comunicazione, Amalia Pica usa tutti gli strumenti e i materiali possibili per dare una corporalità alle varie forme comunicative che gli individui utilizzano.

Perché hai scelto di concentrare il tuo lavoro artistico sulla comunicazione?
Sono partita dal concetto che l’arte è una forma di comunicazione, nasce per veicolare un messaggio. Riflettendo su questo, mi sono chiesta come facesse l’arte a divenire veicolatrice, come potessi io stessa dare una fisicità alla comunicazione. Non volevo avere come oggetto del messaggio solo i grandi temi o le domande che animano l’essere umano, ma desideravo una comunicazione che rispecchiasse aspetti di varia natura. Ho voluto provare a darne una connotazione più palpabile. Sono partita da mezzi di comunicazione che nel corso del tempo sono diventati obsoleti, sorpassati, utilizzandoli come metafore della trasmissione della comunicazione. Questo perché noi sappiamo che l’audience, a seconda di come percepisce il messaggio che vuole essere comunicato dall’opera d’arte, ne completa il processo ricevendola e interpretandola. È la chiusura del cerchio. Inizio da questi strumenti per provare a dare una connotazione fisica al messaggio di comunicazione che deve passare.

L’essere umano è subissato di comunicazioni di qualsiasi genere, qual è il valore aggiunto, l’aspetto positivo, della comunicazione attraverso l’arte?
Viviamo in un mondo in cui subiamo una continua comunicazione, che molto spesso non cerchiamo neanche. A volte ci arriva con tale frequenza e intensità, grazie alla digitalizzazione, che cessa il nostro bisogno di domandarci il perché ci giunga un determinato messaggio di qualsiasi natura. Proprio per questo, il mio tentativo è spingere l’essere umano a fermarsi un attimo, perché sia lui a dimostrare la volontà di aprire un canale comunicativo, senza subirlo o senza imbattersi in un messaggio non cercato. Fermarsi e aprirsi alla ricerca di un contatto, che non deve essere per forza informativo, genere di cui siamo pervasi, ma anche di natura emotiva. Questo dichiara una volontà di mettersi in contatto, da parte mia come artista e da parte del fruitore della mia opera d’arte. È qualcosa che stiamo perdendo, dobbiamo sforzarci di riaprire un canale di comunicazione e di emozioni con una deliberata volontà di farlo.

Per aprire un canale comunicativo, come racconteresti una tua installazione a chi non conosce la tua arte?
[ndr] Siamo davanti all’installazione “Swichboard”: un muro composto da legno e vernice, in cui sono inseriti, su entrambe le facciate, barattoli collegati tra loro da fili di cotone. Una rappresentazione di un gioco non più tanto comune, ma presente nel ricordo di tutti noi.
Questa, per esempio, è qualcosa che appartiene a noi fin da quando siamo bambini, è un’ambientazione chiara per il mondo dei più piccoli e di chi ci giocava, ed è un esempio di una comunicazione/gioco. Tendo a utilizzare degli oggetti che fanno parte della vita di ognuno di noi. Io uso la mia esperienza in Argentina, penso a cosa fanno i bambini lì. Parto da un oggetto di quotidiano utilizzo, come in questo caso, qualcosa che lì fa parte della quotidianità di tutti. In Italia i bambini non fanno questo gioco?”

Comunicazione è cultura, un oggetto assume un significato in base a dove si colloca. In Italia si giocava al telefono senza fili, ora non so più. Ma magari in altri luoghi dove esponi le tue opere questo gioco non esiste, quindi è un messaggio che può non essere compreso…
Vero, hai ragione. A seconda di dove ho collocato le mie installazioni ho avuto dei feedback diversi. La cultura del paese, le abitudini e la nostra quotidianità contano molto. Mi è capitato di portare le mie installazioni in Italia e di avere un riscontro diverso da quello che avevo avuto nel mio Paese, così come quando sono andata in Olanda. Parlando per esempio di “On Education”, il detto “di che colore è il cavallo bianco di…” è conosciuto in Italia e in Argentina, è una delle cose che ci accomuna. Quando, invece, l’ho portato in Olanda, dove non c’è nulla di paragonabile a questo modo di dire, hanno iniziato a pensare che io volessi cancellare il cavallo, o evidenziarlo. Ogni pretesto, anche la presa in giro o l’incomprensione, è utile per creare una comunicazione, che sorge sia tra chi ha un minimo di sensibilità comune sia tra persone differenti, ma che cercano un punto d’incontro.

Vieni dall’Argentina, ma vivi in Europa, come e perché è avvenuto questo spostamento e come ha influito questo sulla tua arte?
Io sono in Europa grazie all’opportunità di una borsa di studio prestigiosa, che per me ha fatto la differenza e mi ha permesso di spostarmi qui. La cosa con cui mi sono subito confrontata è stata il dover comprendere questa sorta di codici che ogni Paese ha, modi di dire e di essere diversi da quelli cui ero abituata. A partire dall’ambiente scolastico in cui stavo vivendo, infatti, all’inizio pensavo che sarei andata a studiare qualcosa di simile a quello che avrei potuto fare nel mio paese, ma non è stato esattamente così. Soprattutto con l’esperienza di questo cavallo, che risale agli anni del mio trasferimento, mi sono resa conto di quanto fosse diverso contestualizzare cosa studio, dove, chi sono e cosa faccio. Era la prima volta, ero una giovane donna che si confrontava in modo diverso con il sapere che mi veniva trasmesso. Quando mi sono spostata in Inghilterra mi sono ritrovata a parlare dell’Argentina, del mio paese d’origine, perché tutti se lo aspettavano. Parlavo della storia argentina, degli artisti argentini, come se tutto quello che facessi fosse per veicolare un messaggio in quanto donna argentina, quando invece il mio tentativo era quello di comunicare al di là del fatto che venissi da lì. All’inizio c’era questa specie di naturale aspettativa che io passassi sempre un messaggio riferito al mio paese ed è in quel momento che ho percepito l’esigenza di dover cambiare, per far passare un concetto che non fosse esclusivamente relativo al luogo da cui venivo, ma che diventasse più ad ampio raggio”.

Al Padiglione d’Arte Contemporanea di Ferrara (Corso Porta Mare, 9) la XVI edizione della Biennale Donna, curata da Lola G. Bonora e da Silvia Cirelli, sarà aperta dal 17 aprile al 12 giugno.

Info su www.biennaledonna.it

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Chiara Ricchiuti

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Tanto che qualcuno si è chiesto se  i giornali ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport… Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e riconosce uguale dignità a tutti i generi e a tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia; stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. Insomma: un giornale non rivolto a questo o a quel salotto, ma realmente al servizio della comunità.

Con il quotidiano di ieri – così si diceva – oggi “ci si incarta il pesce”. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di  50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e di ogni violenza.

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