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Quale può essere il valore di una storia ben raccontata? E quali sono i contesti sociali in cui serve saper raccontare? Bruno Vigilio Turra riflette su usi e forme dell’odierna comunicazione sociale

Raccontare storie è un’arte antica quanto l’uomo. Una storia, infatti, è una struttura capace di connettere in un tutto significativo e compatto eventi ed accadimenti, sentimenti ed emozioni, finalità ed obiettivi, cause ed effetti, valori e preferenze. Il racconto – ricordava Roland Barthes – è una delle grandi categorie della conoscenza che utilizziamo per comprendere e ordinare il mondo. Vediamo chiaramente la forza della narrazione nei miti, nelle saghe, nelle leggende e nelle fiabe che hanno accompagnato e orientato lo sviluppo della civiltà; forse se ne colgono ancora vaghe tracce in quelle culture dove sopravvivono cantastorie e griot.

Le neuroscienze dimostrano oggi ciò che era già evidente un tempo: è la struttura stessa del nostro apparato cerebrale a rendere così importante il meccanismo della narrazione. In fondo, cosa si fa quando ci si presenta, si sostiene un colloquio di lavoro, si racconta la propria azienda o la propria vita, si descrive qualche evento importante? Solitamente, si racconta una storia che vuole essere persuasiva e convincente. Dalla capacità di raccontare storie coerenti e affascinanti dipende, spesso, il successo e, a volte, il potere delle persone. Dalle storie che ognuno di noi costruisce e ripete dentro di sé, dipende il tono della conversazione interiore, dalla quale deriva in buona parte la qualità della nostra vita, il significato della nostra biografia, la bontà delle relazioni che stabiliamo con gli altri.
Chi, dunque, sa produrre storie convincenti che entrino nella conversazione collettiva e, soprattutto, diventino parte della conversazione interiore delle persone, ha immediato accesso a una grande fonte di potere poiché, attraverso le storie, ne può influenzare le opinioni e gli atteggiamenti e ne può indirizzare i comportamenti.

Esattamente per questo la narrazione, è diventata l’ultima frontiera del marketing e della comunicazione politica: lo storytelling è oggi il prodotto di punta dell’industria della persuasione che confeziona per noi le storie che dovrebbero dar senso al nostro mondo. Guru del management, eminenze della comunicazione, spin doctor, ne sono i pagatissimi profeti; le tecnologie digitali ne sono lo strumento principale.

Le storie hanno il potere di costruire una realtà e sono diventate – nella nostra epoca narrativa – un sostituto pericoloso dei fatti, degli argomenti razionali e financo dell’argomentazione scientifica, che viene riconosciuta come autorevole e degna di fede solo se inserita all’interno di un adeguato tessuto retorico di tipo narrativo.

Se le antiche narrazioni si presentavano come un dato, le cui origini si perdevano nella notte dei tempi e proprio da questo traevano autorevolezza, lo storytelling compie in verità il percorso inverso: incolla su una “realtà” voluta e costruita da certi attori sociali qui e ora (grandi imprese, governi, Ong, gruppi organizzati), racconti artificiali, narrazioni che sono in grado di orientare flussi di emozioni, portando gli individui a conformarsi con certi modelli e ad accettare standard determinati.

Se l’economia è una conversazione lo storytelling è allora la capacità di rendere questa conversazione ricca, attiva e coinvolgente, anche a prescindere dai contenuti di verità. Ciò che conta è inventare una storia potente, capace di affascinare, che possa essere venduta con profitto: e la fabbrica delle storie non si ferma mai.
Da oltre venti anni anni lo storytelling ha invaso la comunicazione politica; il marketing l’ha poi introdotta nei media, nei telegiornali, nel cosiddetto no profit, nelle aziende, nelle chiese. Una legione di esperti si adopera per costruire storie convincenti che sono diventate il bene da vendere al posto degli oggetti, dei servizi, dei progetti e delle politiche. Così la storia, la narrazione, da elemento di unione e riconoscimento è diventata anche mezzo di propaganda e temibile arma di disinformazione.

Questa situazione pone una questione di fondamentale importanza per la nostra società e per la democrazia: nel mondo della comunicazione globale esiste ancora il contratto narrativo che consente di separare la realtà dalla finzione? E quale potrebbe essere la realtà per milioni di persone che passano buona parte del loro tempo consumando informazione?

Davanti a noi ci sono due appuntamenti importanti che riguardano il referendum sulla Costituzione e l’elezione del presidente americano; ci possono essere mille buone ragioni per scegliere tra un nome e l’altro, tra un sì e un no; ma al di là di ogni argomentazione razionale è molto probabile che vincerà la parte che sarà riuscita a raccontare la “storia migliore”.

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Bruno Vigilio Turra

È sociologo laureato a Trento. Per lavoro e per passione è consulente strategico e valutatore di piani, programmi e progetti; è stato partner di imprese di ricerca e consulenza e segretario della Associazione italiana di valutazione. A Bolzano ha avuto la fortuna di sviluppare il primo progetto di miglioramento organizzativo di una Procura della Repubblica in Italia. Attualmente libero professionista è particolarmente interessato alle dinamiche di apprendimento, all’innovazione sociale, alle nuove tecnologie e al loro impatto sulla società. Lavora in tutta Italia e per scelta vive tra Ferrara e le Dolomiti trentine.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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Francesco Monini
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