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Un viaggio che inizia come una spinta e finisce ritrovando un senso, da cui ripartire nuovamente. Il romanzo di Gianrico Carofiglio Il bordo vertiginoso delle cose (Rizzoli) è un viaggio alla ricerca di contatti che hanno fatto parte del passato del protagonista, Enrico Vallesi, uno scrittore che non ha più un presente, tanto meno un futuro. C’è stato un passato di successo e di fama, di passioni e persone che, in qualche modo, Enrico riuscirà a recuperare: l’amica Stefania molto diversa perché cambiata dalla vita, la professoressa Celeste intatta nella stessa bellezza di un tempo, il fratello Angelo non così lontano come può essere un fratello che non si vede da anni, il compagno di scuola e di lotta Salavatore andato per sempre.
Ogni passo di questo viaggio di ritorno alla terra d’origine è solo apparentemente un vagare: i luoghi e gli uomini, anche quelli senza nome, servono a racimolare frammenti di un io piuttosto a pezzi. La direzione imboccata è una traiettoria che nasce dal ricordo molto vivido – anche per il lettore – e cosciente e dalla volontà inquieta di riappropriarsi della vita. I passi procedono, ma i pensieri li precedono, l’ansia è spesso compagna di viaggio.
Molti nodi sofferti di Enrico vengono affrontati e sciolti nella Bari che da tempo non frequenta più e che contiene radici, ricordi, adolescenza, violenza, lotta politica, primo amore. Enrico cerca e incontra, non tutto è per caso e ciascun incontro va verso quel senso. “Ci sono momenti nella vita di una persona in cui certe condizioni maturano. A quel punto basta un incontro casuale, come il nostro. A volte, poi, parlare con uno sconosciuto è più semplice, hai meno spiegazioni da dare”. Sono le parole di un professore con cui Enrico passa qualche ora e con cui si trova a raccontarsi, ad ammettere il proprio stallo, le scorciatoie del fallimento. Di fronte a tale autocommiserazione e a alla costante proiezione nel passato, il professore lo invita a immaginarsi fra vent’anni, a immaginare il rischio di non sopportare le parole che quel vecchio potrà dire a se stesso. Gli occhi di Enrico, allora, diventano umidi “senza preavviso” e di altre parole non c’è bisogno. Il professore è l’esempio di come le parole inutili debbano lasciare il posto a risposte precise e dirette, quelle di cui Enrico è alla ricerca.
Enrico cammina, si sposta, fa domande agli altri, vuole capire, ricostruire, scoprire e ritrovare, anche l’amore. Ritrova Stefania, un cara amica il cui ricordo aveva filtrato un’immagine che non combacia più con la donna che ha di fronte. Enrico ci prova a indossare con lei la maschera della cordialità, dell’apparenza, della “posizione stazionaria” su cui sembra non si abbia nulla di particolare da dire. Ma con Stefania non funziona, lei sa fare le domande giuste e arriva là dove Enrico si è nascosto, dove lo tiene inchiodato il blocco con la scrittura. La ragazzina che Enrico ricordava spontanea, è una donna sopravvissuta a una malattia devastante, è una donna che sa parlare di sè con l’immediatezza di chi ha imparato a sfrondare molto, forse tutto per diventare “meno prudente” e “meno dogmatica”. È la sua conquista, oggi può permettersi di dirlo.
Il viaggio non è ancora finito. Di Celeste Enrico si era invaghito al liceo, era la supplente di filosofia. Grande fu l’attrazione per quella giovane professoressa così bella e poco ortodossa che faceva volare in alto la mente. Fu per lei un amore quasi primitivo, fortissimo e doloroso per ciò che Enrico in seguito scoprì di lei, per il distacco e le sue conseguenze.
Sono passati tanti anni e, nella Bari che Enrico sta attraversando, Celeste è una docente universitaria, non è difficile individuarla. I pezzi stanno andando al loro posto, quasi da soli, se non fosse per quella sensazione fisica, “una vera tensione schizofrenica dei muscoli” che ancora trattiene Enrico, un ultimo impedimento che lo spinge di qua e di là in direzioni opposte, quella del passato e quella del presente, la retromarcia contro lo scatto in avanti verso Celeste. Anche quando la scelta è così vicina e la vediamo lì che basta poco, una direzione contraria si mette di mezzo e fa ombra. Il viaggio di Enrico è approdato alle porte dell’università dove Celeste è impegnata in una sessione di esami, Enrico è nei corridoi, può ancora andare via o andare avanti. Prima di incontrarla, lo sguardo si posa su un biglietto letto per caso in una bacheca: a noi preme soltanto il bordo vertiginoso delle cose, quel limitare di equilibrio, quella vertigine che ancora ti permette di scegliere se buttarti o no.

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Riccarda Dalbuoni

È addetto stampa del Comune di Occhiobello, laureata in Lettere classiche e in scienze della comunicazione all’Università di Ferrara, mamma di Elena.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

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Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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