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Henghel Gualdi è stato uno dei più grandi interpreti jazz del clarinetto, uno strumento che deve la sua fama al genio di Benny Goodman. Fabrizio Meloni, 1° clarinetto del Teatro alla Scala di Milano, di Gualdi ha detto: “Suona un jazz puro fatto di morbide atmosfere, suoni e colori da ricordare…”. Non meno positivo è il giudizio di Giacomo Soave, insegnante di clarinetto al Conservatorio “A. Vivaldi” di Alessandria: “Clarinettista meraviglioso, con stupende doti naturali, espressivo nel fraseggio, personalissimo nel vibrato. Suona lo strumento come se fosse un violino. Per questo lo porto ad esempio ai miei allievi”.

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Henghel Gualdi

Henghel si avvicinò alla musica jazz, affascinato dalle big band americane. Dopo la fine del conflitto organizzò un’orchestra con tre sezioni di fiati e quattro ritmi, iniziando a esibirsi in pubblico. Scriveva le parti, arrangiava, dirigeva e suonava. Aveva trovato il modo di essere felice facendo musica. Di quel periodo, nel suo libro di memorie, scrisse: “Terminò anche la guerra, e all’insaputa di mio padre andai a suonare subito con un’orchestra. Alla fine mi diedero una “amlire”, una moneta d’occupazione americana del valore di mille lire dell’epoca […]”. Per diversi motivi il padre non fu contento della scelta del figlio.

Nel 1954 vinse il concorso radiofonico “Bacchetta d’oro Pezziol”, organizzato dalla Rai, prevalendo su artisti e orchestre importanti: Peppino Principe, Happy Boys di Nino Donzelli (in cui cantava Mina), Fred Buscaglione, Renato Carosone, Bruno Canfora. Di lì a poco, ebbe il primo contratto discografico con la Cgd di Milano. Tre anni dopo vinse anche il Benny Goodman italiano, confermandosi il miglior talento jazz nazionale. Henghel ammirava profondamente Benny Goodman, lo considerava sopra a tutti gli altri clarinettisti, lo conobbe a Roma quando venne per incidere un brano per il film “Fantasma d’amore” di Dino Risi, fu l’inizio di una bella amicizia. Avrebbe voluto seguirlo in America ma non lo fece. Questo fu uno dei grandi rimpianti della sua vita.

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Armstrong a Sanremo, dietro di lui Henghel Gualdi

Nel 1962 fu nominato direttore artistico dello Zecchino d’Oro di Bologna, fino al 1965, collaborando con una giovanissima Mariele Ventre. La svolta della sua carriera avvenne nel 1968, quando suonò con Louis Armstrong al Festival di Sanremo. Un giorno il grande trombettista gli chiese: ”Ehi paps, do you like skotch?” (ti piace il whisky?), notando gli evidenti capillari sul naso, “No”, rispose Gualdi, “lambrusch!”. Louis scriveva brani di jazz che, a suo dire, avrebbero dovuto eseguire durante il festival. Henghel sapeva che si poteva presentare solo una canzone, anche se gli sarebbe piaciuto suonare altri pezzi con lui, ma per l’ammirazione e la stima che nutriva nei suoi confronti non osò contraddirlo.
Henghel suonò con i migliori artisti: Bill Coleman, Chet Baker, Count Basie, Sidney Bechet, Albert Nicholas, Lionel Hampton, Rex Steward, Gianni Sanjust. Una sera a Milano, durante un suo concerto, Gerry Mulligan salì sul palco e lo accompagnò al pianoforte. Ernest Hemingway si recava all’Hotel Cristallino di Cortina d’Ampezzo per ascoltarlo e Orson Welles non perdeva occasione per richiedergli “Stardust”, complimentandosi al termine di ogni esecuzione.
Suonava anche con la “Doctor Dixie Jazz Band”, che si esibì in oltre 700 concerti in Italia e in Europa e partecipò a diverse edizioni di Umbria Jazz. A questo proposito il grande clarinettista diceva: “ A Bologna ho un appuntamento settimanale, il venerdì, nella cantina della “Doctor Jazz Band” di Leonardo “Nardo” Giardina. Cerco sempre di non mancare, non solo perché mi diverto a suonare, ma anche perché, essendo i componenti tutti professori e medici, la mia salute è assicurata”.

henghel-gualdiIl regista Pupi Avati gli chiese di collaborare, con Amedeo Tommasi, alla colonna sonora del film “La mazurca del fico fiorone”, in seguito lavorarono insieme anche in altre produzioni: “Jazz Band”, “Cinema”, “Le stelle nel fosso” e “Dancing Paradise”.
Quando Henghel formò la sua prima orchestra, aveva in mente un progetto preciso: quello di affinare il gusto del pubblico, pur sapendo che i frequentatori delle sale da ballo erano distratti e disattenti, ma era convinto che sarebbe riuscito a migliorarne la sensibilità musicale. Queste sue ‘contaminazioni’ non furono ben viste dai ‘puristi’, che non sopportavano il jazz suonato nella sala da ballo; guarda caso proprio il luogo in cui questo genere si era originariamente affermato.
Verso la fine del 1989, partecipò alla tournée americana di Luciano Pavarotti, vincendo la nota fobia per il volo, le sue performance furono accolte con grande successo. Una leggenda metropolitana racconta che il tenore modenese riuscì a convincerlo a volare dicendogli: “… pensa, se dovesse cadere l’aereo diventeresti famosissimo perché sullo stesso aereo di Pavarotti”. No, non è vero, non furono queste le sue parole, ma il grande Luciano riuscì a trasmettergli un po’ della sua sicurezza.

Negli ultimi anni di vita preferiva risiedere a Cattolica, cittadina in cui si è sempre trovato bene e dove i suoi polmoni respiravano meglio. In Romagna, trovò una realtà musicale che sapeva apprezzare la sua arte, sia come spettacolo sia come indispensabile terapia. Il grande musicista argentino Giora Feidman, conosciuto come il Re del klezmer, di Gualdi disse: “You are an angel who shares his soul with the clarinet”, sei un angelo la cui anima è una cosa sola con il clarinetto.

Su iTunes è disponibile lo splendido album “Dall’America a … Pupi Avati”, un doppio album per conoscerlo e per ricordarlo.

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William Molducci

È nato a Forlì, da oltre 25 anni si occupa di giornalismo, musica e cinema. Il suo film “Change” ha vinto il Gabbiano d’argento al Film Festival di Bellaria nel 1986. Le sue opere sono state selezionate in oltre 50 festival in tutto il mondo, tra cui il Torino Film Festival e PS 122 Festival New York. Ha fatto parte delle giurie dei premi internazionali di computer graphic: Pixel Art Expò di Roma e Immaginando di Grosseto e delle selezioni dei cortometraggi per il Sedicicorto International Film Festival di Forlì. Scrive sul Blog “Contatto Diretto” e sulla rivista americana “L’italo-Americano”.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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