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Con la percentuale di un secco 60 a 40 e un’affluenza quasi del 70 per cento l’elettorato ha dunque bocciato la riforma costituzionale a firma del governo, sottoposta a referendum domenica 4 dicembre.
La scelta di Matteo Renzi di concentrare su di sé il senso del sì e del no si è rivelata un errore fatale. La conseguenza è stata la metamorfosi di un disegno riformatore, per quanto imperfetto, in una “finzione suprema”, come scrive Massimo Cacciari (L’Espresso 4 dicembre), un “involucro formale del tutto superfluo” rispetto ai veri contenuti della contesa, ossia i destini del governo (e del partito) di Renzi.
Un’ennesima occasione persa. Non tanto per un testo di per sé controverso, quanto per l’opportunità di resistere alle trombe di un decisionismo strapaesano e alla tentazione di inseguire gli umori dei costi della politica, errore commesso dallo stesso centrosinistra nel 2001 nella riforma del Titolo V per scavalcare la Lega su analoghi umori federalisti.
L’occasione era di restituire la Costituzione al posto che le spetta, cioè su un’idea di popolo e di democrazia.
Ben oltre il contingente risultato delle urne, sulle cui conseguenze ora si arrovella un quadro politico che rispetto all’incertezza delle scelte politiche del premier ha visto premiata la certezza di una crisi profonda del sistema (ciclo economico, crisi di governo, nuova legge elettorale, elezioni e gli esiti tutti da vedere), le proporzioni del fallimento emergono da un dibattito che Michele Salvati innesca su Il Mulino, di cui è direttore (6/2016).

Il tema è quello, attualissimo, della crisi della democrazia e cioè, nell’era di un’inarrestabile globalizzazione di impronta neoliberale, la quadratura del cerchio di far convivere uno sviluppo più inclusivo (riducendo i micidiali effetti collaterali di diseguaglianze crescenti) con la democrazia politica.
L’angolo di visuale adottato dagli studiosi che scrivono sulla rivista bolognese è quello della sinistra, cioè la stessa parte politica che ha scritto riforma costituzionale bocciata dai cittadini.
Se per sinistra s’intende, come direbbe Norberto Bobbio, la parte più sensibile alla riduzione delle disuguaglianze in un’economia di mercato, i maggiori attacchi a questa cultura politica oggi provengono propriamente dagli effetti, esterni agli Stati nazionali, della globalizzazione economica, in termini di contrazione dei sistemi di welfare e di relazioni industriali in senso regressivo.
Globalizzazione che a differenza dei “Trenta gloriosi”, come sono chiamati in letteratura i decenni a forte espansione dopo la Seconda guerra mondiale, ora è alle prese con un perdurante ciclo economico negativo, con crescente concentrazione della ricchezza in poche mani.
Sul piano sociale e politico, fa presente il sociologo Carlo Triglia, si assiste parallelamente a processi di individualizzazione crescente, crisi della partecipazione tradizionale e dei partiti organizzati, personalizzazione delle leadership e avanzata dei populismi che cavalcano senza giri di parole paure e insicurezze.
Secondo Salvati, ecco il problema, stando così le cose non è più possibile parlare di socialdemocrazia, perché l’attuale fase economica globale a forte impronta neoliberale condiziona pesantemente gli stati ostacolandone le politiche redistributive e, nello stesso tempo, influisce sui cambiamenti delle società in senso disgregativo, minando le stesse basi sociali della sinistra (la solidarietà).
Il difficile banco di prova dei governi è come promuovere una ripresa economica solida (a costo di manovre lacrime e sangue) con un consenso ampio e stabile. Ma come costruirlo? E qui il tema degli interventi in campo economico e sociale si lega a filo doppio con la strategia delle riforme istituzionali.
Proprio all’indomani del referendum costituzionale, Sabino Cassese (Corsera 6 dicembre) scrive dell’eterno problema italico della legge elettorale. Bicameralismo e formula elettorale proporzionale sono in sintesi l’eredità (compromesso) dei padri costituenti, che rispecchia l’orientamento del decidere insieme piuttosto che contrapporsi, indebolire il governo piuttosto che contare sull’alternanza, rendere in sostanza mite il potere a costo dell’inefficacia, secondo il punto di vista della democrazia di Hans Kelsen. Tutto il contrario di quanto sostiene Joseph Schumpeter, per il quale democrazia vuol dire competizione e liberarsi dal complesso del tiranno. Fumo negli occhi per un paese, l’Italia, la cui storia politica è un susseguirsi di compromessi, rinvii e aggiustamenti, che sono anche all’origine di un debito pubblico che tuttora è un enorme macigno in mezzo alla strada dello sviluppo.
Se questo ragionamento porta dritto a un modello di democrazia maggioritaria, secondo la necessità di leader basati su un consenso solido e stabile, al riparo da vincoli di coalizione, con un ruolo rafforzato rispetto a parlamenti e ministri e così in condizione di prendere decisioni rapide in omaggio alla velocità dei tempi che corrono (sic!), con occhi da sociologo Triglia osserva che laddove avviene questo (Usa e Gran Bretagna) si assiste al binomio crescita economica – elevate disuguaglianze, cioè un esempio di capitalismo con intervento regolativo dello Stato fortemente ridotto.
“Vincere con la maggioranza – questa l’analisi – spinge le forze politiche in competizione (in un quadro tendenzialmente bipartitico) a cercare di conquistare il voto cruciale dell’elettorato centrale”. Così i più deboli incontrano più difficoltà a trovare ascolto e le possibilità redistributive si affievoliscono, osteggiate dall’elettorato, decisivo, di ceto medio. Le conseguenze sono un’astensione progressiva o, più recentemente, la predisposizione ai richiami del populismo proprio degli strati sociali tradizionalmente bacino elettorale delle sinistre.
La conclusione del docente di sociologia economica all’università di Firenze è che sistemi elettorali di orientamento proporzionale, sia pure con correttivi, sarebbero condizione più favorevole per la sinistra, in quanto strumenti istituzionali per costruire un consenso più inclusivo, il quale è condizione per sorreggere democraticamente politiche economiche maggiormente redistributive e a crescita a sua volta inclusiva (di stampo socialdemocratico).

E’ un tema lanciato nel dibattito sempre in bilico tra democrazia e capitalismo, in un tempo in cui il programma del secondo termine appare oggi irresistibile nel dotare i singoli di strumenti economici di partecipazione al mercato, più che di strumenti politici sul piano della partecipazione e della cittadinanza. Fermo più sull’aspetto del contratto economico, che sul contratto sociale come alta sintesi storica del pensiero politico europeo.
Non è detto che sia la strada giusta. In ogni caso se da una sinistra fosse uscita una riflessione e un disegno ispirati a un’idea più chiara di popolo e di democrazia secondo uno straccio di cultura riformista, nonostante tutte le difficoltà (compreso l’ostacolo oggettivo di una politica in preda a un incontenibile istinto di reciproca delegittimazione), c’è caso che qualcuno in più avrebbe capito il senso di una direzione di marcia e, magari, si sarebbe messo in cammino disposto a farne parte. Forse.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

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