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di Linda Ceola

Una donna tiene una boccetta di veleno per topi nella borsetta. E’ angosciata. L’’inutile strage’ della Prima Guerra Mondiale le ha sottratto il suo unico grande amore durante un combattimento, quindi dedica tutta sé stessa allo studio, ma il regime fascista non riconosce i suoi sforzi, poiché nelle sue vene scorre ‘sangue ebreo’. Si chiama Enrica Calabresi e il suo antidoto al fascismo continua ad affascinare non solo i diretti discendenti, ma anche coloro che vengono a conoscenza della sua storia personale.

Il Museo del Risorgimento e della Resistenza di Ferrara accompagna i visitatori nel merito delle vicende storiche della famiglia Calabresi attraverso fotografie, lettere e documenti con la mostra inaugurata mercoledì nell’ambito delle celebrazioni del Comitato Provinciale 27 gennaio per la Giornata della Memoria.
La nascita di questo viaggio nel passato si deve all’incontro tra Antonella Guarnieri, direttrice del Museo, e Massimo Calabresi, pronipote di Enrica. “Ho voluto offrire inizialmente uno sguardo complessivo su quello che è stato l’apporto degli ebrei e il legame antichissimo degli stessi con la nostra città” afferma Guarnieri, grata della collaborazione di Elena Ferraresi e Martina Rubbi, curatrici della mostra. “Il popolo ebreo, che a causa delle persecuzioni si è ritrovato a vagare per il mondo, ha certamente sofferto moltissimo, ma in questa maniera ha sviluppato una grande apertura mentale che va ad esso riconosciuta” prosegue la direttrice. Inoltre l’obbligo religioso per i agazzi ebrei di saper leggere la Torah, rende lo studio un cardine del popolo del libro, tanto da annullare qualsiasi traccia di analfabetismo maschile, più diffuso nel genere femminile.
Enrica Calabresi è un esempio degno di nota in questo senso. Ultima di quattro fratelli nasce a Ferrara, in via Borgo dei Leoni 110, il 10 novembre 1891. Dopo aver frequentato il liceo Ariosto ed essersi iscritta alla Facoltà di Matematica presso l’ateneo ferrarese comprende che il suo percorso la sta portando altrove così si trasferisce a Firenze per studiare Scienze Naturali e prima ancora di ottenere il diploma di laurea viene assunta come assistente presso il Gabinetto di Zoologia e Anatomia Comparata dei Vertebrati.
L’eleganza e la bellezza di Enrica, testimoniate dalle fotografie e il suo amore sconfinato per lo studio, la portano a conoscere Giovan Battista De Gasperi, docente di Geologia e Geografia Fisica, cui Enrica si lega sentimentalmente. La brutalità della prima guerra mondiale non risparmia vite e spezza anche quella del giovane De Gasperi. Il dolore immenso di Enrica Calabresi inizia a sovrastarla, perciò si reca al fronte in veste di crocerossina e nella sofferenza di corpi mutilati e agonizzanti trova il modo di elaborare la propria.
Rientra a Firenze e riprende a lavorare come assistente fino al 1933, quando un collega in vista presso il regime fascista viene preferito a lei. Il cuore di Enrica sanguina ancora.
Con grande sorpresa nel 1937 le viene assegnata la cattedra di Entomologia Agraria presso l’ateneo di Pisa, incarico che le consente di gestire anche l’insegnamento presso il Liceo Ginnasio “G. Galilei” tra i cui allievi spicca Margherita Hack, che la ricorda nella prefazione di “Un Nome” di Paolo Ciampi (Giuntina), dedicato in toto a Enrica Calabresi: “[…] Una donna estremamente timida, che chi, come me, ha conosciuto solo come la professoressa di scienze: una figura di cui ci si sarebbe dimenticati facilmente, se non fosse per il fatto di essere stata colpita da quella ingiustizia disumana che furono le leggi fasciste sulla difesa della razza ariana. Infatti Enrica Calabresi si era macchiata della grave colpa di essere ebrea […]”.

Il 1938 è l’anno della promulgazione delle leggi razziali fasciste e nel silenzio del popolo la violenza diventa un’istituzione. Enrica decade dall’abilitazione alla libera docenza e viene cacciata dall’Università di Pisa. Il suo percorso burrascoso non conosce tregua ma senza darsi per vinta continua ad insegnare presso la scuola ebraica di Firenze e nel timore di chiedere aiuto a qualcuno mettendolo in pericolo sceglie di vivere sempre sola.
Francesco Calabresi, nipote diretto di Enrica ha una grande ammirazione per la zia, sorella del padre. Con voce sommessa racconta d’averla incontrata qualche giorno prima di essere arrestato e portato nel lager di Caserme Rosse a Bologna in quanto renitente alla leva: “era completamente terrorizzata – dice – non sapeva cosa fare e non voleva nemmeno nascondersi a casa di qualcuno poiché se l’avessero scoperto l’avrebbero fucilato istantaneamente”
Gennaio 1944. Enrica Calabresi sa molto bene qual è il suo destino. Un gruppo di fascisti fa irruzione nella sua abitazione, viene arrestata e trasferita nell’ex convento fiorentino di Santa Verdiana adibito a carcere. Arriva così il momento di aprire la borsetta. Estrae la boccetta di fosfuro di zinco, ne ingerisce il contenuto e in una lenta agonia si abbandona alla morte preferendola alla deportazione.

“Io credo che la storia della mia famiglia come quella di tante altre sia in grado di darci un’idea di ciò che è stato il regime fascista composto e sostenuto prima di tutto da italiani, non forestieri” sottolinea Massimo Calabresi pronipote di Enrica. “Si pensi ad esempio alla profanazione delle due sinagoghe presenti qui a Ferrara – continua Massimo – nonché all’Eccidio del Castello del ’43”.
Tra i vari documenti esposti in mostra figura anche il testamento del nonno di Massimo Calabresi in cui vengono citate le motivazioni della sua conversione. “Questa scelta, in un certo senso, non lo salvò – spiega il pronipote di Enrica – tanto che nella notte del 14 novembre 1943 vennero a cercarlo in via Vittoria, dove abitavamo, ma sbagliando numero civico non lo trovarono, consentendogli di rifugiarsi in casa di amici fino alla fine della guerra, mentre noi ci trasferimmo a Sabbioncello San Vittore”.
“Nessuno di noi scappa dalle proprie origini – conclude Massimo Calabresi – e io sono assolutamente orgoglioso delle mie radici ebraiche”.

La mostra “Una famiglia ferrarese ebrea. La storia d’Italia raccontata dai ‘Calabresi’ (1867-1945)”, a ingresso gratuito, rimarrà aperta al pubblico fino al 26 febbraio 2017, dal martedì alla domenica dalle 9:30 alle 13 e dalle 15 alle 18.

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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