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Non bisogna sottovalutare che, oltre all’emergenza sanitaria, c’è una lotta geopolitica in corso. Chi pagherà il prezzo più alto in termini di vite umane sono Spagna e Italia (l’indice dei morti per milione su abitanti è all’8 aprile 269 e 273 –in Spagna in forte ascesa-, rispetto a 30 di Usa –in forte crescita- e 2,5 di Cina –ormai ferma).
L’Italia ha avuto nell’ultima settimana (2-8 aprile) la minor crescita dei contagi (18%) dopo l’Austria (15%). Cina e Sud Corea hanno ormai bloccato il virus e stanno riaprendo tutto. L’Austria ha deciso una prima apertura parziale di scuole, asili e piccoli negozi dal 14 aprile. Anche Repubblica Ceca aprirà parzialmente (scuole e negozi) dall’8 aprile e Danimarca dal 15 aprile. La Germania dal 20 al 27 aprile. Sono Paesi con un tasso di letalità molto basso (1,3/3,8% rispetto a 12% dell’Italia), ma un tasso di crescita dei contagi molto più alto dell’Italia. L’Italia ha quindi l’opportunità di essere tra i primi a ‘riaprire’. Ciò comporta un vantaggio enorme se lo useremo bene e se fatto in sicurezza.

Avremo una probabile de-globalizzazione che costringerà a ridurre la lunghezza (fino a Cina e Asia) di alcune filiere manifatturiere. Aumenteranno quindi le lavorazioni in patria a basso costo che necessitano di politiche di buona programmazione degli immigrati. Su ciò sono attrezzati Paesi di antica immigrazione (Usa, UK, Germania, Nord Europa), mentre noi – con una scarsa esperienza e la recente teoria sovranista di prima gli italiani” – siamo molto impreparati.
Da sempre c’è una correlazione tra crescita economica ed uso intelligente e programmato degli immigrati (di cui c’è necessità). Un esempio è l’agricoltura dove oggi mancano in Italia 200mila lavoratori stagionali, che verranno solo in parte rimpiazzati dai nostri studenti universitari o dai nativi. Un settore che sarà molto colpito dalla crisi sarà il turismo. Saranno favorite le località che organizzeranno meglio il ‘distanziamento’ (le seconde case più degli hotel, quindi i lidi ferraresi più dei romagnoli) e chi parte da spazi ampi (Ferrara più di Venezia o Firenze), sempre che ci si organizzi a dovere (che è il nostro lato B, quello debole).

Gli USA, La CINA e L’EUROPA

L’impatto economico sarà imponente. In Usa le domande di disoccupazione sono salite su base mensile da 650mila del 2008, a 6,7 milioni e si avviano ad avere una disoccupazione di massa come nella Grande Crisi del 1929, poiché non esiste la cassa integrazione e si può licenziare senza pagare indennità. L’ enorme quantità di dollari dallo Stato non è detto che questa volta riesca a far ripartire il Paese così in fretta come è successo con l’ultima crisi, quella del 2008. Ma gli Usa hanno una capacità di reazione enormemente più rapida rispetto all’Europa (così come facilmente si licenzia, altrettanto si assume e si riparte). Gli Usa contano su un grande mercato interno di 320 milioni di consumatori e sul dollaro (moneta forte).
Il grande mercato interno è quello della Cina, già in gran spolvero di ripartenza, possiede metà del debito Usa ed ha una enorme liquidità con cui potrebbe comprare mezza Europa (da qui la Golden Share sulle nostre aziende strategiche).
L’altro grande mercato interno che può mitigare i danni nei singoli Paesi partecipanti è l’Europa. Questa è la ragione principale per cui mai come ora a nessuno conviene uscire dall’Europa. Non a caso che da quando è scoppiata la pandemia la sterlina ha perso il 6% sull’euro.
Nei prossimi giorni è probabile un primo passo dell’Europa verso un prestito e debito comune. In tal senso vanno i 100 miliardi per Sure, la nuova formula di “riassicurazione europea contro la disoccupazione”. Si potrebbe così avviare una discussione tra tutti gli Europei (imprese e sindacati) su come poi costruire una sorta di “cassa integrazione europea”, per tutelare chi perde il lavoro, ridurre gli orari, cercarne un altro lavoro, avere una formazione, etc.. Un unico strumento europeo di tutela sul lavoro. Le imprese e i sindacati tedeschi usano il KurzArbeit (lavoro corto), mentre noi usiamo di più la Cassa Integrazione (ma abbiamo anche i contratti di solidarietà). Una seria discussione tra italiani e tedeschi con tutti gli altri europei porterebbe a forme innovative, meno autoreferenziali e più utili per tutti, un modo di costruire una nuova Europa del lavoro.

Il Piano B ‘alla giapponese’

Su un prestito/debito comune di lungo periodo la soluzione europea è quella di serie A, ma ci sarebbe anche un piano B  italiano ‘alla giapponese’, fattibile solo da noi, ‘in casa nostra’ (come ad alcuni piace dire), che ci farebbe risparmiare moltissimo e che sarebbe una sorta di pre-verifica se ci sia davvero intenzione di uscire dall’Europa. Gli italiani hanno 1.200 miliardi di risparmi in conti correnti bancari più 3.448 di crediti tra titoli e obbligazioni (ma anche 926 miliardi di debiti e mutui); le aziende hanno risparmi complessivi per 1.840 miliardi. In complesso, a parte le proprietà di case e terreni e i debiti, c’è un risparmio italiano privatissimo di 5.288 miliardi.
Il Tesoro italiano ha bisogno ogni anno di circa 400 miliardi di euro per finanziare il debito pubblico (e pagare stipendi e pensioni, che da sole valgono 300 miliardi). Se gli italiani si comprassero tutte le emissioni, comprese quelle aggiuntive europee di cui si parla ora (l’hanno proposto vari in forme diverse, anche Tremonti e Monti), pagheremmo (come i Giapponesi) molto meno interessi per un debito molto più grande. Infatti, i giapponesi pagano il 12,6% delle loro entrate fiscali per un debito del 250% sul PIl, mentre noi italiani il 14% per un debito molto più piccolo (138% del Pil).
Bisogna però vedere se gli italiani siano davvero disposti a questa operazione in uno “Stato povero…abitato da gente ricca che ha dimostrato di non essere per nulla patriottica”. Non è un caso che, a fine 2019, le famiglie e le imprese italiane detengano solo il 5,8% del debito pubblico italiano e sono tutti siano ‘scappati’ dai Bot nazionali quando nel 2008  è iniziata la recessione (allora ne avevano il 22,4%). Non oso pensare quale sarebbe la svalutazione della lira italiana se uscissimo dall’Euro (30%?). Questa è la ragione per cui c’è una vasta area, proprio al Nord, di imprenditori, operai e, ancor più, pensionati contro la cosiddetta Italexit. Per i vantaggi che, con la de-globalizzazione, vengono da un grande mercato interno (Europa, Usa, Cina), penso che per un po’ di tempo nessuno parlerà più di Italexit.

Ripartire il prima possibile: da Ferrara per esempio

Ripartire in fretta è ora il tema urgente. Però in modo sicuro, se no è come fare uno scatto in salita sapendo che tra un km la ruota si buca. Una prima questione sarebbe evitare di partire tutti insieme, se c’è qualcuno che può partire prima in sicurezza. Dovrebbero essere le zone meno contagiate, spesso più periferiche, che sono spesso le più deboli economicamente e nelle quali, peraltro, potrebbe essere più facile (perché più piccole e sperimentali) arrivare ad individuare gli ‘immunizzati’ (coi test che arriveranno).
Tra queste, in Emilia-Romagna, c’è per esempio Ferrara. La Regione dovrebbe dunque essere coerente e ‘favorirci’, avendo detto che si devono aiutare le zone deboli. Si dovranno poi privilegiare le industrie manifatturiere e i servizi vendibili che sono quelli che producono quel valore aggiunto che regge l’intera economia (se chiude una fabbrica il danno per l’intera comunità è molto maggiore di quello della chiusura di un supermercato, che può riaprire se ritorna un reddito diffuso, mentre la cosa non vale per le fabbriche). E sono soprattutto quelle che esportano o che hanno commesse.
In ogni caso, dovrebbero riaprire anche tutti coloro che garantiscono condizioni di sicurezza (librerie, piccoli negozi,…che possono essere sicuri come le edicole, se ci si organizza, così le piccole e medie aziende artigiane che hanno un capannone enorme con pochi dipendenti che possono stare lontani anche 10 metri e non si capisce perché devono stare chiuse). Il problema è che l’Italia ha scarsa cultura organizzativa per cui prevale l’idea di vietare, perché è più semplice che organizzare la complessità e, soprattutto, non ci si prendono delle responsabilità (della serie “chi fa sbaglia, chi non fa non sbaglia”).
Tutti dicono che l’Europa è chiusa…ma in realtà le fabbriche tedesche, olandesi, francesi…sono molto più ‘aperte’ di quel che si dica. E’ certo più complicato e complesso controllare e verificare le condizioni di sicurezza e di distanziamento in fabbriche e negozi (un esempio clamoroso e negativo è stata la Val Seriana a Bergamo) ma, anche sulla base di questi gravissimi errori, si possono organizzare le riaperture in base a criteri solidi e complessi (non si è forse detto che oggi ritorna l’importanza della competenza pluridisciplinare?).
Ne va del nostro futuro economico e anche della vivibilità delle comunità, perché da un tracollo socio-economico saremmo tutti travolti. Non ci si può quindi affidare a decisioni semplici o solo centralistiche, o ai codici Ateco, per selezionare le imprese, e tanto meno ai Prefetti. Occorre mettere a punto la complessità del come fare, indicare criteri, coinvolgere esperti e parti sociali, innalzare la cultura organizzativa: oggi il lavoro sicuro interessa anche alle aziende.

 

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Andrea Gandini

Economista, nato Ferrara (1950), ha lavorato con Paolo Leon e all’Agenzia delle Entrate di Bologna. all’istituto di studi Isfel di Bologna e alla Fim Cisl. Dopo l’esperienza in FLM, è stato direttore del Cds di Ferrara, docente a contratto a Unife, consulente del Cnel e di organizzazione del lavoro in varie imprese. Ha lavorato in Vietnam, Cile e Brasile. Si è occupato di transizione al lavoro dei giovani laureati insieme a Pino Foschi ed è impegnato in Macondo Onlus e altre associazioni di volontariato sociale. Nelle scuole pubbliche e steineriane svolge laboratori di falegnameria per bambini e coltiva l’hobby della scultura e della lana cardata. Vive attualmente vicino a Trento. E’ redattore della rivista trimestrale Madrugada e collabora stabilmente a Periscopio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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