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Alla fine lo ha detto chiaramente: “Io non sono democratico”.
È la frase che, probabilmente, ha più colpito durante le consultazioni tra il presidente del Consiglio incaricato di formare il nuovo governo, Matteo Renzi, e il leader Cinquestelle, Beppe Grillo, trasmesse in diretta streaming giovedì 20 febbraio.
Solo che, a differenza della prima diretta, dalla quale Bersani uscì con le ossa rotte, stavolta parrebbe che l’urlatore genovese si sia fatto un clamoroso autogol.
Perché ha rivelato in modo plateale che si chiama fuori dal discorso democratico, che non tollera il contraddittorio e chi mette in dubbio la sua verità.
Rimane fermamente convinto che per rimettere in carreggiata l’Italia sia sufficiente decimare le indennità ai parlamentari e azzerare il finanziamento ai partiti. Tutto il resto non conta. O meglio: se si accettano le ricette pentastellate bene, altrimenti non si fanno accordi con nessuno, perché dietro ci sono i poteri forti, le banche (in qualcuna di queste magari ci sono pure i risparmi di Grillo), il marcio, il vecchio.
Quindi, per riassumere, la scatoletta di tonno del Parlamento va aperta, mentre la sua va presa così com’è: chiusa.
Il tutto poi deve andare in onda alla luce del sole, perché non ci deve più essere alcunché da nascondere nelle stanze del Palazzo.
Salvo spegnere le telecamere quando fa comodo e, guarda caso, proprio se dentro il movimento qualcuno vuole discutere.
Soprattutto guai a parlare con i giornalisti, tutti moribondi.
Ancora, ci sono decine e decine di parlamentari eletti dal febbraio 2013, ma per capire se andare a parlare con il presidente del Consiglio incaricato si deve fare una consultazione on line per convincere il capo, che non vuole nemmeno essere chiamato tale, il quale comunque è dell’idea di non andarci. E quando si presenta davanti a Renzi dice che glielo hanno chiesto. Vostra Grazia!
Tra un po’ non ci sarebbe nemmeno da stupirsi se i grillini ricorressero ad una consultazione via rete per decidere se sia il caso di consultare la rete.
Conclusione: ruolo dei rappresentanti di Camera e Senato eletti democraticamente dai cittadini uguale a zero.
Per inciso, il comico genovese non siede nemmeno in Parlamento anche se di questi tempi, per la verità, non è un’eccezione.
Poi c’è l’altra frase detta da Grillo in faccia a Renzi: “Ci hai rubato metà programma”. Chiunque si gonfierebbe il petto se alcune proposte avessero fatto breccia nei programmi degli altri. Pare di sentire la manfrina ripetuta da chiunque: “Avete visto che avevamo ragione noi”, e via con la sfilza delle cose, tutte rigorosamente concrete.
Invece qui c’è l’ostentazione orgogliosa del tipico atteggiamento infantile: è mio.
Il pensiero corre a ritroso a Jean Jacques Rousseau e alla sua idea della volonté générale: tutti cittadini, tutti liberi e tutti che contano allo stesso modo, senza più gerarchie sociali.
Praticamente la fine delle ingiustizie, la fine dell’ancien régime e l’inaugurazione del regno dell’uguaglianza totale. Oggi, si direbbe, nell’orizzontalità assoluta del web.
I problemi nascono quando qualcuno si mette in testa di parlare in nome e per conto della volontà generale. Assolutismi, autoritarismi e totalitarismi, sono in fila, uno dietro all’altro, e ancora ci parlano. Basta leggere qualche libro di storia.
Fino all’esaltata follia del nazismo: un popolo, uno stato, un führer, o alla perdurante realtà del caro leader nordcoreano.
Per restare invece coi piedi per terra, c’è chi ha letto nello show di Grillo una mossa meticolosamente studiata in ogni dettaglio, per sottrarre a Renzi ogni possibilità di parlare al proprio elettorato, in una prospettiva di voto più o meno vicina.
Il tutto mentre si va verso la formazione del sessantaquattresimo governo in sessantotto anni di storia della Repubblica, su una maggioranza parlamentare dai contorni poco chiari, se si pensa alle parole di stima e incoraggiamento provenienti da Forza Italia, che si colloca all’opposizione, mentre scricchiolii si sentono dall’alleato Alfano e da Pippo Civati, quest’ultimo dato a un passo dalla decisione di uscire dal PD.
Per quanto claudicanti e criticabili, continuare a deridere le istituzioni in nome di una sacrosanta indignazione civile, può essere una strategia, ma può portare ad esiti diametralmente opposti a quelli desiderati; e chi ha scritto la Costituzione lo ha fatto con la penna in mano e negli occhi l’orrore lasciato da un’ideologia totalitaria.
La stessa scena dei forconi rappresentati da uno che gira in jaguar è una spia accesa.
Gli esperti li chiamano effetti perversi, e già l’espressione dovrebbe mettere in guardia chi ha ancora un po’ di sale in zucca.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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