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Meno di un mese fa, il 6 aprile, è morto all’età di 93 anni Hans Küng. Nato in Svizzera (1928), teologo, prete, perito conciliare, docente universitario, con la sua scomparsa, scrive Antonio Ballarò (Il Mulino online, 8 aprile 2021), se ne va “un largo frammento di storia della Chiesa e del secolo che ereditiamo”. Franco Valenti (settimananews.it, 11 aprile 2021) lo descrive come “probabilmente uno dei teologi più letti dalla ‘gente’ – laici e credenti – negli ultimi 50 anni”. Per la sua ricerca teologica, ricorda Sergio Ventura (Vinonuovo.it, 11 aprile 2021), si è guadagnato gli appellativi di progressista, scomodo, controcorrente, critico, ribelle e addirittura di eretico.

È bene sgomberare il campo dall’ultimo termine: gli fu tolta nel 1979 la cattedra di teologia dogmatica, ma non venne mai sospeso a divinis, né scomunicato. Di conseguenza, in base al Codice di Diritto Canonico, non è possibile giudicarlo eretico.
Anche l’appellativo di “critico della Chiesa o del papa”, puntualizza Thomas Jansen (settimananews.it, 20 marzo 2018), era motivo di “suo grande dispiacere”.
Più appropriata sembra la definizione di chi si è sempre mosso sulla linea di confine, dove si incontrano, mescolano, confrontano e scontrano il dentro e fuori, l’identità e l’alterità. Quella linea sottile lungo la quale cercare di riannodare legami spezzati. “Un cammino di ricerca – prosegue Ventura – che si può riconoscere e bene-dire senza necessariamente approvarne tutti i tornanti e tutti i traguardi”.

Ma perché il suo nome è ancora noto come ‘il caso Küng’?

Non è per niente facile condensare in poche righe il succo di un dibattito teologico durato una vita intera. A titolo di esempio, scrive ancora Valenti, la sola editrice Herder Verlag: “lo ha onorato con la pubblicazione di 24 volumi della sua produzione teologica: un tributo riservato a pochissimi testimoni chiave del ‘900”.
Già la sua tesi di dottorato (1957) gli valse una prima attenzione del Sant’Uffizio (poi Congregazione per la dottrina della fede): scheda protocollata col numero 399/57/i. Con quella dissertazione Küng sosteneva, con Karl Barth, che la dottrina della giustificazione in campo riformato non era da ritenere in contrasto con quella cattolica, “non c’è separazione nella fede”, scrive Rosino Gibellini (La teologia del XX secolo, 1992).

Di fatto, 42 anni dopo, nel 1999 fu firmata ad Augusta la Dichiarazione congiunta cattolico-luterana sulla dottrina della giustificazione, lo storico documento siglato dal capo del dicastero vaticano per l’Unità dei cristiani, cardinal Kasper, e dal segretario della Federazione luterana mondiale, pastore Noko, fortemente voluto da papa Giovanni Paolo II con il consenso del card. Ratzinger. Dichiarazione confermata a inizio 2021, con l’aggiunta di metodisti, anglicani e riformati.
Per farsi un’idea dell’importanza teologica del tema, basti pensare che ha impegnato per due millenni intelligenza e genio di personaggi del calibro di San Paolo (Lettera ai Romani), Sant’Agostino, San Tommaso, Lutero, fino al grande teologo protestante Karl Barth.

A costo di rischiare la banalità, si può dire che giustificazione è l’azione con cui Dio rimette i peccati, riammettendo gli uomini in uno stato d’innocenza causata da Dio. Azione confermata e rinnovata da Cristo, per il quale essere giustificati significa diventare partecipi della sua morte e risurrezione, nell’itinerario sacramentale del battesimo. Due aspetti caratterizzano, dunque, la giustificazione: quello negativo della remissione dei peccati e positivo della creazione dell’uomo nuovo.
Per lungo tempo si è disquisito, specie sulla scorta di Lutero, se la giustizia di Dio, per la quale si diventa giusti per grazia, sia una giustificazione dell’uomo pienamente nuovo, oppure se sia un’azione di carattere forense che ripulisce dai peccati ma permanendo la condizione di peccatori.

Il punto di Barth (protestante) e di Küng (cattolico), è di considerare le due posizioni dottrinali –  riformata che pone l’accento sulla condizione umana di peccator e cattolica dell’intima trasformazione dell’uomo iustusnon come inconciliabilmente distanti, ma due approcci teologici – dal basso e dall’alto – in un certo senso riconciliati dall’azione unificante della grazia come pieno ed esclusivo dono, fonte divina che trasforma.

Gli anni ’60 vedono Hans Küng partecipare al Concilio Vaticano II (1962-1965) in veste di perito, cioè esperto, conciliare. Dell’assise convocata da papa Giovanni XXIII – ricorda Ballarò – ”confesserà la sua parziale delusione per i risultati ottenuti”, resistendo anche all’invito di far parte della Commissione teologica.
Anni che coincidono con un’intensa ricerca ecclesiologica, che – scrive Gibellini – “ha il suo punto più espressivo in La Chiesa (1967) e il suo momento più polemico in Infallibile? Una domanda (1970)”. Ricerche che lo videro entrare di nuovo nel mirino vaticano sui punti caldi della collegialità e democrazia nella chiesa.

Ma è con il libro del 1970 che la temperatura si alza. Küng affronta il tema elettrico dell’infallibilità del papa (definita al concilio Vaticano I, cent’anni prima). Lo affronta con il suo stile pungente, affermando, come scrive Jensen, “che non poteva essere dedotta né dalla Bibbia né dalla Tradizione” e rincarando la dose sul fatto che “alcune decisioni del papa nella storia della Chiesa, a suo parere, erano degli evidenti errori”.
Con un’analisi sul Nuovo Testamento, Küng aveva già prospettato in La Chiesa una soluzione ecumenica dello spinoso problema del primato: se di servizio, e non di potere, non è contrario alla Scrittura. La proposta è quindi per una rinuncia del potere di Pietro per un servizio di Pietro.

Ora, sull’infallibilità, su cui torna nel 1973 con Fallibile? Un bilancio, la proposta è per una chiesa complessivamente indefettibile, che non cade in difetto. In altri termini, una chiesa che, al netto degli errori, non viene meno, ma non a motivo di proposizioni a priori infallibili. Alla stregua della Bibbia, per la quale non si può parlare di un’inerranza proposizionale.
Inevitabile fu il dibattito in ambito teologico. Ad esempio, per Yves Congar, altro gigante della teologia del Novecento, pur apprezzando l’indagine sulle fonti bibliche, l’indefettibilità era un concetto poco convincente. Figurarsi dentro le mura vaticane. La Congregazione per la dottrina della fede, infatti, aprì una procedura che arrivò a un richiamo pubblico nel 1975. Nonostante l’opera di mediazione attribuita al card. Julius Döpfner (fra i più attivi in concilio e al quale era legato personalmente), con il libro Essere cristiano (1974) la misura fu colma, con alcuni passaggi – dalla divinità di Cristo, alla nascita verginale, fino all’eucaristia – finiti sotto la lente d’ingrandimento della Santa Sede.
Il risultato fu il ritiro vaticano nel 1979 della licenza d’insegnamento nell’università di Tubinga, in cui insegnò Ratzinger, dalla quale Küng, però, ottenne in seguito una cattedra di teologia ecumenica indipendente.
In questo nuovo ruolo si dedicò al dialogo tra le religioni, passando dal dialogo interconfessionale a quello interreligioso. Suo fu il progetto Weltethos, ossia per un’etica globale, con la creazione dell’omonima Fondazione da lui presieduta.

Significativo è stato il suo rapporto con alcuni pontefici.
Con Giovanni Paolo II, scrive Francesco Strazzari (settimananews.it, 7 aprile 2021), i rapporti partirono subito in salita a causa di un articolo che Küng scrisse un anno dopo l’elezione di Wojtyla (avvenuta nel 1978), patito dal pontefice come un colpo basso e che pare all’origine del precipitare degli eventi fino al ritiro della cattedra di Tubinga. Nel 1989, infatti, disse in proposito il card. Karl Lehmann, presidente della Conferenza episcopale tedesca: “ho seguito mese dopo mese l’evoluzione del caso Küng. Nel 1975 veniva ammonito e lo si invitava a rivedere le sue posizioni. Non capisco perché abbia ripreso quelle stesse posizioni riaffermandole, anzi, enfatizzandole, con una sfida imprudente”.
Di Benedetto XVI, suo ex collega a Tubinga, va detto che nel 2005 volle riceverlo a Castel Gandolfo. Un colloquio durato quattro ore, sintetizzato in un comunicato che, sostenne Küng, fu redatto dallo stesso pontefice.
Di riconciliazione si può parlare con il pontificato di Bergoglio. Più di tutto, forse, vale il gesto di papa Francesco durante il suo viaggio apostolico in Kenya nel 2015, quando ai rappresentanti musulmani disse: “Nessuna pace tra le religioni è possibile senza un dialogo tra le religioni”. Le stesse parole di Hans Küng nel suo programma ecumenico per un’Etica Globale: “Non vi può essere convivenza umana senza un ethos mondiale delle nazioni; non vi può essere pace tra le nazioni senza la pace tra le religioni; non vi può essere pace tra le religioni senza un dialogo tra le religioni”.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

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