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Non so chi di voi abbia letto dalla scelta della biblioteca comunale Giorgio Bassani di Barco di esporre su un banchetto all’ingresso una selezione di testi sulla Resistenza in occasione della prossima celebrazione del 25 aprile, fra i quali compaiono anche i volumi di Giampaolo Pansa, e delle reazioni che tale scelta ha suscitato: alcune lettere alla direttrice della biblioteca e una petizione per rimuoverli (vedi). Devo confessare che, in prima battuta, mi sono scoperta indecisa sulla decisione da prendere in merito, o meglio: mi sono chiesta quanto sarei stata in grado di argomentarla in modo razionale, sulla base dei miei studi storici. Ho perciò ripreso alcuni autori che hanno studiato il rapporto fra storia e memoria e la costruzione della memoria collettiva.

Oggi la memoria invade lo spazio pubblico, ormai il passato accompagna il presente e si insedia nel suo immaginario collettivo, anche in quanto fortemente amplificato dai media e spesso orientato dai poteri pubblici. Spesso siamo immersi in un processo di reificazione del passato, cioè della sua trasformazione in oggetto di consumo, neutralizzato e reso redditizio, cui lo storico è chiamato a partecipare nella sua qualità di professionista ed esperto. Esso assomiglia molto a ciò che Eric J. Hobsbawm in un celeberrimo testo ha definito “invenzione della tradizione”. I fattori che contribuiscono sono molteplici, uno dei principali è una crisi della tradizione all’interno delle società contemporanee: a questo proposito Enzo Traverso, nel suo “Il passato. Istruzioni per l’uso”, ricorda la distinzione fatta da Walter Benjamin “tra l’“esperienza trasmessa” (Erfahrung) e l’“esperienza vissuta” (Erlebnis)”, se la prima “si perpetua quasi naturalmente da una generazione all’altra, forgiando le idee dei gruppi e delle società nella lunga durata”, la seconda “è il vissuto individuale” e, mentre “l’Erfahrung è tipica delle società tradizionali, l’Erlebnis appartiene invece alle società moderne”, anche come prodotto delle catastrofi del ventesimo secolo, con i traumi che ne sono seguiti e che hanno colpito generazioni intere senza poter diventare un’eredità inscritta nel corso naturale della vita.
Se è vero che storia e memoria nascono da una stessa preoccupazione e condividono uno stesso obiettivo, l’elaborazione del passato, esiste tuttavia una gerarchia tra le due. “La memoria – scrive Traverso – abbraccia e raccoglie il passato con una rete dalle maglie più larghe” di quelle della disciplina storica, collocandovi una dose molto più grande di soggettività.
La storia è dunque la narrazione, la scrittura del passato secondo modalità e regole precise, attraverso le quali cerca di rispondere alle domande poste dalla memoria, arrivando anche alla fine a fare di quest’ultima uno dei suoi terreni di ricerca. Diversamente, la memoria, attingendo all’esperienza vissuta, è eminentemente soggettiva, resta ancorata ai fatti cui si assiste, di cui si è stati testimoni o protagonisti, e alle impressioni che essi hanno scolpito nelle menti; è qualitativa, singolare, poco attenta alle comparazioni, alle contestualizzazioni, alle generalizzazioni, è un cantiere sempre aperto, in continua trasformazione.
Storia e memoria formano una coppia antinomica soprattutto a partire dall’inizio del ventesimo secolo, quando i paradigmi dello storicismo classico sono entrati in crisi, rimessi in discussione dagli sviluppi delle altre scienze sociali: se fino a quel momento la memoria era stata considerata come il sostrato soggettivo della storia, con la crisi dello storicismo è iniziato il processo di riconfigurazione della relazione fra storia e memoria come una tensione dinamica. Una transizione né lineare né rapida e, per certi versi non ancora terminata.

Uno dei primi a considerare la memoria come una costruzione sociale a partire dal presente e a codificare la dicotomia fra le fluttuazioni del ricordo e le costruzioni della narrazione storica è stato il sociologo Maurice Halbwachs in “La memoria collettiva”.
Halbwachs ritiene che la memoria di un individuo “sia costantemente aiutata, stimolata, sorretta dai rapporti che intrattiene con quella di tutti gli altri membri dello stesso ambiente sociale”. La memoria è il risultato di un lavoro permanente nel corso del quale i suoi contenuti vengono di volta in volta conservati o meno da gruppi umani concreti in funzione delle forze che nel presente, in ogni epoca determinata, determinano una certa ricostruzione del passato e non un’altra; perciò, se l’immagine del passato che viene ogni volta ricomposta si accorda con i valori e le esigenze dominanti nella collettività, esso diventa una posta in gioco esposta agli esiti di uno scontro permanente fra interessi e gruppi contrapposti all’interno di una stessa società.
Una volta stabilito che ogni forma di memoria è una ricostruzione parziale e selettiva del passato, i cui punti di riferimento sono forniti dagli interessi e dalla conformazione della società presente, Halbwachs passa ad analizzare le funzioni sociali della memoria, aprendo così le porte a una prospettiva originale: “la memoria stessa può essere considerata come un’istituzione, può venire cioè affrontata come problema delle forme istituzionalizzate che l’immagine del passato assume nella coscienza dei gruppi” e anche dei modi e delle forme di questa istituzionalizzazione. L’idea chiave di Halbwachs è dunque: ricordare è attualizzare la memoria di un gruppo ma, nello stesso tempo, l’immagine del passato che il ricordo attualizza non è qualcosa di dato una volta per tutte. Se il passato si conserva, tale preservazione avviene nella vita degli uomini, nelle forme oggettive della loro esistenza e nelle forme di coscienza cui queste corrispondono, in questo senso ricordare è “un’azione che avviene nel presente e dal presente dipende”. Forse la concezione più fruttuosa di Halbwachs è “che il passato, oggetto di ricostruzioni successive e suscettibili di modifica, sia una sorta di posta in gioco fra interessi e gruppi contrapposti”.
La storia, invece, è al di fuori e al di sopra dei gruppi e sembra che essa consideri ogni periodo come un tutto, in gran parte indipendente da quello che precede e da quello che segue, perché ogni periodo avrebbe una sorta di compito da portare a termine. Inoltre, la memoria si distingue dalla storia proprio perché si forma attraverso il continuo confronto di più memorie collettive, mentre la storia è una, tutto è sullo stesso piano: non si può raccogliere la totalità degli avvenimenti in un unico quadro se non a condizione di separarli dalla memoria dei gruppi che ne custodivano il ricordo e di non conservarne che lo schema cronologico e spaziale. Infine chi scrive la storia bada soprattutto ai cambiamenti e alle differenze e sa che per passare da un fatto all’altro bisogna che si realizzino una serie di trasformazioni di cui la storia percepirà solo la somma proprio perché studia i gruppi dal di fuori ed abbraccia una durata molto lunga; invece la memoria collettiva è il gruppo visto dall’interno: in altre parole la memoria è il quadro delle somiglianze mentre la storia si concentra sulle differenze.

Halbwachs ha contribuito a mettere in luce le profonde differenze tra storia e memoria, ma sarebbe sbagliato dedurne una loro totale incompatibilità o considerarle irriducibilmente separate, perché la loro interazione crea un campo di tensioni all’interno del quale si scrive la storia. Lo storico, infatti, non lavora “rinchiuso nella classica torre d’avorio, al riparo dai rumori del mondo”, scrive Traverso: egli subisce i condizionamenti di un contesto sociale, culturale e nazionale, e non può nemmeno sfuggire alla influenza dei suoi ricordi personali, né a quella di un sapere ereditato, dai quali può cercare di emanciparsi non negandoli, ma sforzandosi di stabilire nei loro confronti la necessaria distanza critica. In questa prospettiva, il suo compito non consiste nell’abbandonare la memoria, personale, individuale e collettiva, ma piuttosto metterla a distanza e nell’inserirla in un contesto storico più ampio.
Lo storico quindi è debitore nei confronti della memoria, ma agisce a sua volta su di essa: contribuendo alla formazione di una coscienza storica, egli partecipa, infatti, alla costruzione della memoria collettiva che attraversa l’insieme del corpo sociale. Secondo Traverso questo è ciò che Habermas chiama “l’uso pubblico della storia”, come dimostrato dal fatto che “i dibattiti tedeschi, italiani e spagnoli sul passato fascista, i dibattiti francesi su Vichy e sul colonialismo, quelli argentini e cileni sull’eredità delle dittature militari, i dibattiti europei e americani sulla schiavitù – la lista sarebbe inesauribile –, superano ampiamente le frontiere della ricerca storica”, invadendo la sfera pubblica e chiamando in causa il nostro presente.

Eccomi chiamata nuovamente in causa nuovamente, come cittadina che vive nel presente e assiste al dibattito pubblico. Ora posso scrivere che nel nostro presente, con i partigiani e i testimoni che stanno scomparendo, mentre sempre più diritti vengono calpestati e nuove resistenze si rendono necessarie, ritengo che i volumi di Giampaolo Pansa debbano essere disponibili in una biblioteca pubblica per chi ritiene che leggerli possa aiutarlo a formarsi un’opinione, ma non avrei compiuto la scelta di esporli in una selezione di libri per celebrare il Movimento di Liberazione e il 25 aprile.

Avrei scelto sicuramente, invece, “Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino. Il commissario di brigata Kim spiega così il significato della loro scelta mentre parla con il comandante partigiano Ferriera:
“Ma allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finchè dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi. Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali. Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione”.

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Federica Pezzoli


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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