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Da molti secoli autori dialettali si cimentano in traduzioni delle maggiori opere della letteratura italiana: la Commedia, l’Orlando, la Gerusalemme…
Quest’anno, in cui si celebra il settecentesimo anniversario della morte di Dante, sono rispuntate, in particolare sugli scaffali delle biblioteche, le versioni della “Commedia” rese nei vari dialetti della penisola: romagnolo, veneto, calabrese, pugliese, siciliano, oltre che in genovese, napoletano, mantovano, milanese, romanesco, ecc.
Due sono le versioni che conosciamo nel nostro vernacolo:
– la prima di Luigi N. Cittadella (Ferrara 1806 -1877), storico, impegnatosi nella riduzione in ferrarese del primo canto dell’Inferno nel 1870, intitolata “La Cmedia Divina”;
– la seconda di Mendes Bertoni, una “Antologia” dall’Inferno dei canti primo, terzo, quinto, decimo, diciottesimo, trentaduesimo, trentatreesimo, del 1967.
Di quest’ultima riportiamo, dal primo canto, i versi iniziali fino all’incontro con Virgilio.
(Ciarìn)

Prim cant

Dla nostra vita a mità strada giusta
am son truvà int uη bosch acsì tant scur,
che com’un dspers andava avanti a usta

e con ados mi’η’so quanti paur.
Iη meź a sproch, a ram, arvéd e sas
d’andar avanti an jéra più sicur

tant jéra fadigoś alvàr al pas.
Ma ‘l beη ch’a j’ho truvà mi ‘v voi cuntàr
e d’jàltar cvei par vostr’e par mié spas.

Com’abia fat là dentr’a scapuzàr
al źur, ch’an am so dar propria raśóη,
ma źa, quand uη l’aη s’ferma a raśunàr

al casca iη zerti tràpul da miηción;
e acsì ho fat mi, ch’am jéra imbambanà,
drit fil ho fat, sui vizi, uη bel sbliśgón.

Ma quand ai pié d’uη mont am son truvà,
là dóva cla valàda la finiva,
am soη santì, ad bota, iηcuragià;

ho guardà in su… Che bléza! Viva… viva!
Al sol, iluminàndam al stradèl,
ad graη fiducia al cuor al m’impinìva.

Come pr’iηcant st’miràcul acsì bel
l’ha fat sparìr parfìn tut cal spavént
che iηcapunàram l’éva fat la pel.

E come quel che ‘n tl’aqua, pr’azidént,
al casca déntar e’l riésc a tucàr riva,
al s’volta indré a guardarla pr’uη mument,

acsì ho fat mi ch’aηcora impalidìva:
ho butà n’oć iη présia a cal stradèl
che mai l’ha fat pasàr critura viva.

Strach amazà, tut’iη sudòr la pel,
am soη farmà uη puchìn a ripusàr,
ho ciapà fià e vié com’uη fringuèl.

Ma sol diéś pas aveva putù far
ch’am son truvà davanti na bastiàza;
na lòηza smaciuzàda ch’a pié par

l’am s’jéra impantalàda propria iη faza
e l’an’am vléva più lasàr pasàr.
Decìś am jéra d’bandunàr la piàza,

ma ‘l sol ch’iη ziél al stava par spuntàr
al m’ha in cuor mis na tal sicuraziòn
ad psér, aηch st’al parìcul, evitàr.

Ma eco, póch distant, spunt’uη leoη
che a boca ‘verta vers a mi ‘l s’avśìna,
ruźénd come s’al fus sarà iη gabión;

e ‘ηsiém a lu na lupa magrulina.
A tal visión tut al curaģ ho pers
e la speranza d’arivàr parfìna.

E come quel che pr’un destin avèrs
al perd la so furtuna e ‘l resta dur,
ad dàras paś l’an trova mod e vers,

acsì cla bestia, andand a colp sicùr,
l’am rimandava piaη pianin indré
e ‘ηcora n’altra volta iη mez al scur.

E méntar, spavantì, m’n’andava vié,
a l’impruvìsa am ved davanti al naś
una parsóna ferma e drit iη pié.

Ma che furtuna! Banadét al caś!
Un om int al desert… ma che beléza!
Par mi, ch’an am savéva dar più paś,

a l’jéra come n’àηcora ad salvéza.
“O ombra, o om, se t’aη m’aiut da bòn”
-agh ho zigà- “par mi aη gh’è più peza!”

Al m’ha rispost: “Mi òmaη più ‘n’al són
e i mié parent ad raza jè mantvàna,
ad Pietole, pr’amor ad preciśión.

Nat sot’a Zeźar al temp dla graη bubàna,
a Roma, po’ ho visù, sot’Agustìn,
al temp d’na religion tropa bagiana.

A soη sta’ aηch puèta e iη latìn
dal fiòl d’Anchise a j’ho cantà ill prudéz,
dal prode Enea s’uη mudèst librìn.

Ma ti parché ‘n continui briśa iηvéz
a caminàr sul mont s’at vó truvàr
cla gioia e cal piaśér ch’at zérch da ‘η pez?”

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .   .

 Canto Primo
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
che la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
Io non so ben ridir com’i’v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogni calle.
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,
così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ‘l piè fermo sempre era ‘l più basso.
Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggiera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ‘mpediva tanto il mio cammino,
ch’I’ fui per ritornar più volte vòlto.
Temp’era dal principio del mattino,
e ‘l sol montava ‘n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.
Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.
E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ‘l tempo che perder lo face,
che ‘n tutti suoi pensier piange e s’attrista;
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ‘ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ‘l sol tace.
Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
Quando vidi costui nel gran diserto,
Miserere di me”, gridai a lui,
qual che tu sii, od ombra od omo certo!”.
Rispuosemi: “Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patria ambedui.
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma, sotto ‘l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,
poi che ‘l superbo Ilión fu combuto.
Ma tu perché ritorni a tanta noia?
Perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?”.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Tratto da:
Mendes Bertoni, Antologia della Divina Commedia in dialetto ferrarese, Ferrara , SATE, 1967

Mendes Bertoni (Ferrara 1905 – 1987)
Prolifico autore di poesie e commedie dialettali molto rappresentate.
Altre notizie nel “Cantón fraréś” del 19 marzo 2021 [Qui].

 Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia,
esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui]

Cover: Sandro Botticelli, Mappa dell’Inferno, 1480-90, Biblioteca Apostolica Vaticana

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Ciarin


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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