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Fra il 22 e il 25 maggio si voterà per rinnovare il Parlamento europeo. Sono 73 in tutto i deputati che gli italiani sono chiamati ad eleggere, su un’assemblea che in totale ne conta 751, rappresentativi dei 28 Stati membri.
Dopo aver dato i numeri, sarebbe bello se si cominciasse a farsi un’idea di cosa, e soprattutto chi, votare. Tenuto conto che in campagna elettorale non mancherà chi sbraita di uscire dall’euro e comunque sentiremo poco e niente parlare di Europa da una classe politica che, spesso, ha visto quelle poltrone poco più che una gita all’estero.
Dico subito che chi volesse trovare qualche barlume di chiarezza in queste righe temo rimarrà deluso.
Parto dalla seconda parte del titolo del libro di Luciano Gallino (2013), di cui ho raccontato l’ultima volta: “L’attacco alla democrazia in Europa”.

Abbiamo sentito in questi anni da Bruxelles un disco sempre uguale: si esce dalla crisi solo se si diminuiscono deficit e debiti pubblici. E l’unico modo, questa la medicina amara ripetuta fino allo sfinimento, è fare tagli alla spesa sociale che, ormai, non possiamo più permetterci.
Significa usare le forbici su pensioni, sanità, scuola e mercato del lavoro.
Per questo all’Italia è stato detto e ridetto che bisogna fare i compiti a casa per mettersi in ordine, altrimenti non ne usciamo. E non c’è destra, sinistra e persino governi tecnici che tengano: tutti allineati nel ripetere il mantra del riordino dei conti pubblici.

Ma è proprio così? Oddio, su burocrazia e sprechi ben pochi darebbero il sangue, ma secondo Gallino le cose non stanno così.
L’analisi prende spunto dalle due cause della grande crisi globale (Gcg): un eccesso di credito concesso dal sistema bancario, e trasferito fuori bilancio nel labirinto della finanza ombra, e un eccesso di debito contratto dalle famiglie, spinte a comprare da un colossale programma tipo “a me gli occhi”, volto a sostenere gli acquisti per ovviare al problema strutturale della stagnazione, tendenziale esito del ciclo produttivo capitalistico. Un ceto medio, occorre aggiungere, nel frattempo lasciato in modo miope con le tasche vuote a causa di un colossale trasferimento di redditi e ricchezza dal basso verso l’alto.

Il risultato è un’enorme bolla finanziaria, e cioè denaro creato dal nulla e senza alcun riferimento all’economia reale, tanto che ancora oggi questa montagna di capitali fittizi varrebbe cinque volte il prodotto dell’economia mondiale.

La traduzione di questo disastro è stato un debito ciclopico accumulato dalle banche, che per non farle fallire, e ridurre sul lastrico milioni di risparmiatori, gli Stati si sono offerti a coprire. È accaduto negli Usa, in Irlanda, Gran Bretagna, Germania, Francia, Spagna e anche in Italia, nonostante ci abbiano sempre detto che il nostro sistema bancario è solido e sostanzialmente immune dall’infezione finanziaria.

Secondo il presidente della Commissione europea, Manuel Barroso, in una dichiarazione resa nel 2011, il totale della spesa pubblica in Ue per coprire i buchi del sistema bancario è stato di 4,6 trilioni di euro. Un Everest di soldi che equivale a oltre il 32 per cento del Pil dell’intera Ue.

Così negli anni della crisi i deficit dei bilanci pubblici sono effettivamente cresciuti in media di dieci volte, mentre i debiti pubblici sono lievitati di una ventina di punti passando da una media del 60 all’80 per cento del Pil.
Sia chiaro che qui non è il caso di alzare le mani in aria in segno di vittoria, se in Italia siamo attorno al 130 per cento.

Parallelamente, però, la media della spesa sociale durante gli stessi anni si è mantenuta costantemente attorno al 25 per cento della ricchezza prodotta in Europa.
“Ne consegue – scrive Gallino – che è del tutto scorretto imputare alla spesa sociale l’aumento del debito pubblico”.
Quindi ci troveremmo di fronte ad una colossale menzogna detta e ridetta come in una seduta di ipnosi, per convincerci che la colpa è nostra e che in questi anni abbiamo vissuto – altra formula magica – al di sopra delle nostre possibilità.
Omettendo, tra l’altro, di dire che un capitolo della spesa sociale, e cioè quella previdenziale e parte degli ammortizzatori sociali, sono il frutto di contributi di lavoratori e imprese e non spesa pubblica.

E invece pare sia ormai assodato che sul banco degli imputati debba stabilmente starci non chi ha causato questo crac planetario, ma un intero sistema di protezione sociale che costituisce uno dei pilastri fondamentali dello stare insieme e della qualità civile dell’Europa.

Una delle travi portanti della casa europea, volutamente issata da chi ha a lungo sognato questo edificio, al di là delle sue traduzioni nei rispettivi modelli scandinavo, cristiano-sociale tedesco, francese e catto-socialdemocristiano italico.
Un sistema, tra l’altro, i cui primi vagiti risalgono alla Gran Bretagna di Churchill e alla Germania di Bismarck, e cioè a quel medesimo mondo liberale che oggi vorrebbe usare il bisturi e rinnegare se stesso e le proprie radici.

Da qui l’attacco alla democrazia in Europa che sarebbe in atto e pure i pericoli irresponsabilmente non calcolati di una tensione sociale che può finire nelle braccia di nuovi populismi sempre dietro l’angolo.
Irresponsabilmente non calcolati, si badi, specie da chi ha usato modelli matematici come se piovesse, e con l’aiuto di pezzi importanti del mondo accademico, per produrre questo disastro.
E adesso sono gli stessi che avrebbero deciso di mettere le mani sull’ultimo, forse, diaframma che distingue ancora un continente democratico dal pianeta delle scimmie.
Ma allora che si fa il maggio prossimo davanti all’urna?
Ve l’avevo detto di non aspettarvi granché da queste righe.
Eppure, se si iniziasse a riflettere e discutere, innanzitutto se questo ragionamento tiene, forse non sarebbe tempo perso.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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