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di Maria Paola Forlani

Fino al 19 febbraio 2017 la Galleria Borghese di Roma presenta “L’origine della natura morta in Italia – Caravaggio e il Maestro di Harford”, mostra con cui – proseguendo l’opera di valorizzazione del proprio patrimonio artistico – si analizzano le origini della natura morta italiana nel contesto romano della fine del XVI secolo, seguendo i successivi sviluppi della pittura caravaggesca dell’inizio del Seicento. La mostra è curata da Anna Colliva, storica dell’arte e direttrice della Galleria Borghese, e da Davide Dotti, critico d’arte che si occupa di barocco italiano e in particolare di paesaggio e natura morta tra Seicento e Settecento.

La natura morta è una rivoluzione iconografica e concettuale che si deve soprattutto a Caravaggio, che intorno al 1597-98 dipinse a Roma la celeberrima “Canestra”, conservata alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano e presente in questa mostra. Intorno al 1591-92 il giovane Merisi scese a Roma, dove svolse poi gran parte della sua attività. Lavorò in un primo momento presso alcuni pittori locali, il più noto dei quali era il mediocre (ma allora abbastanza qualificato) Giuseppe Cesari detto Cavalier d’Arpino, che lo mise – secondo quanto narra il Bellori – “a dipinger fiori e frutti”, ossia proprio a svolgere l’attività di pittore di “nature morte”, che sarà fondamentale per tutta la sua pittura.
La natura morta, infatti, non è un soggetto ‘nobile’ che possa essere interpretato, come un tema religioso o mitologico, secondo canoni consolidati dall’uso secolare; non è una storia da narrare per insegnare al popolo una qualsiasi dottrina. La natura morta è solo se stessa, in tutta la sua ‘presenza’ di oggetto reale e quindi più adatta a diventare pittura senza sottintesi allegorici, senza significati nascosti, più adatta a esprimere il mondo interiore dell’artista, pittura fatta soltanto di colori, di luci, di ombre. La natura morta aiuta poi il Caravaggio a capire la realtà di per sé, non una realtà abbellita secondo la norma classica, ma la realtà quotidiana nella quale l’uomo vive.
Dell’attività compiuta per studio scolastico, niente è giunto fino a noi, ma senza questi studi non esisterebbe probabilmente la “Canestra di frutta”, l’unico esempio di natura morta autonoma di Caravaggio, dove l’umile oggetto naturale diventa protagonista, rilevandosi contro il fondo chiaro compatto, vivendo plasticamente, quasi tangibilmente, per i rapporti fra luci e ombre, per il brillio degli acini d’uva, per la rotondità lucente della mela, del limone e della pesca, per la rugosità dei fichi, per il distendersi o accartocciarsi delle foglie. Questa verità di riproduzione non è banale copia: nella sua straordinaria evidenza, nell’equilibrio compositivo fra pieni e vuoti, nel rapporto reciproco dei colori, la canestra assume una vitalità intensissima e si colloca fra i capolavori della pittura caravaggesca. La tela, documentata e quindi sicuramente autografa, viene per lo più datata intorno al 1596 per la maturità di stile, sia pure in un periodo giovanile.
Ancora alla Galleria Borghese appartiene il “Fanciullo con canestro di frutta” di Caravaggio (1593-94). La cura nell’esporre dettagli, quali la foglia ingiallita in procinto di cadere, la spaccatura sanguigna del fico maturo o la butteratura delle foglie a stelo, corrisponde alla prima formazione lombarda dell’artista: il naturalismo scientifico leonardesco aveva sortito precoci affondi nella rappresentazione di elementi propri della natura morta che in ambito padano contribuiva a enfatizzare il tono domestico di molte rappresentazioni. Allo stesso ambito è riferibile il valore naturalistico del cono luminoso che taglia lo sfondo, nelle accorte rifrazioni, come quella del collo del fanciullo, o nei sottili passaggi di bianchi nella camicia. La luce contribuisce a creare lo spazio entro il quale si muove la figura, evidenziandone la mobilità della posa – le labbra socchiuse, il collo reclinato all’indietro – e la caducità dell’istante in cui sono colti il fanciullo e la cesta che sorregge.


Se Caravaggio licenziò l’archetipo della natura morta italiana, il Maestro di Hartford -pittore attivo nella cerchia del Cavalier d’Arpino – si guadagnò un ruolo chiave per la diffusione della nuova iconografia, diventando il più antico specialista di natura morta attivo a Roma tra XVI e XVII secolo. Oltre i due capolavori della Galleria Borghese, alla tela eponima del Wadsworth Atheneum Museum of Art di Hartford e alla “Allegoria della Primavera” ultimata da Carlo Saraceni, sono esposti altri quattro dipinti del misterioso pittore, alcuni mai presentati al pubblico, rinnovando un appassionante giallo del mondo dell’arte.
Il grande critico e storico Federico Zeri in un articolo del 1976 assegnò un ristretto gruppo di tele alla prima attività del Merisi, al tempo del suo passaggio presso il Cavalier d’Arpino. Una tesi affascinante, che però divise la critica: per tale motivo venne creata la personalità del “Maestro di Hartford”, indefinita ma distinta da quella di Caravaggio, come quella di un misterioso artista che operò forse al fianco del giovane Merisi nell’atelier del d’Arpino, sviluppando così la sua specializzazione nel campo della natura morta.
L’opera, più antica, del Maestro di Hartford della Galleria Borghese, prende il titolo “Fiori, frutti e vegetali”.
Su un largo piano di pietra sono posati in apparente disordine zucca, cavolo, cipolle, uve diverse, agrumi, mele, noci, melagrane, fragoline di bosco, carciofo, cardo e altri vegetali dell’orto: al centro un vaso di fiori in ceramica, a destra una cesta di vimini contenente fichi, mele, uva e un’anguria accanto al vaso di fiori, un ramarro e una lucertola. Ѐ un’opera di ampio respiro e di notevole impegno, di cui si devono sottolineare ancora una volta le eccellenti qualità pittoriche, rilevate anche da Federico Zeri.
Per attestare come la lezione del Maestro di Hartford venne raccolta da vari naturamortisti, nella seconda sezione della mostra campeggiano rare tele del Maestro del vasetto e del Maestro delle mele rosa dei Monti Sibillini. La terza sezione presenta i pittori che frequentarono l’Accademia istituita dal marchese Giovanni Battista Cresenzi nel suo Palazzo alla Rotonda, adiacente al Pantheon.
Sulla scorta di fonti antiche sono esposte tele di Pietro Paolo Bonzi detto il Gobbo dei Carracci, del Maestro della natura morta Acquavella – che la critica è propensa ad identificare con Bartolomeo Cavarozzi – e dello stesso Crescenzi.

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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