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“ Dormi sepolto in un campo di grano / non è la rosa non è il tulipano / che ti fan veglia dall’ombra dei fossi / ma sono mille papaveri rossi.”

La poesia dei papaveri è tutta qui: rossi come il sangue, poveri come un’erbaccia, sontuosi nella loro incredibile fragilità ed eleganza; anarchici sempre. Amanti del vento, riempiono di colore fossi, crepe di muri e cantieri assolati, oppure costruiscono paesaggi incredibili quando ai contadini scappa il controllo delle infestanti e ai bordi di un campo di grano, formano strisce drammatiche di rosso acceso, un richiamo ricco di poesia a coloro che i campi li hanno irrigati con il sangue, come nel caso del papavero delle Fiandre che cresceva nelle campagne devastate dalla prima guerra mondiale nel Nord della Francia. Chi non conosce le parole della canzone di De Andrè? Quante volte l’abbiamo cantata e ascoltata, o solo pensata, quando i nostri occhi si sono appoggiati sul miracolo di questo fiore. Un fiore plebeo vestito di seta pura, conosciuto e coltivato dai tempi dei tempi per il suoi semi preziosi e per la linfa così ricca di sostanze calmanti e anti-dolorifiche, da poterlo veramente definire una pianta “stupefacente”.
Un po’ di storia: il genere dei papaveri comprende circa un centinaio di specie, per lo più originarie delle regioni del Mediterraneo e del Medio Oriente, fino all’India, coltivate poi nei secoli, in tutte le regioni temperate e sub-tropicali. I Romani conoscevano bene le virtù terapeutiche di questa pianta e nonostante il suo colore sia una sferzata di energia, i miti e le divinità a cui veniva collegata erano quelle dei sogni, del sonno e dell’oblio. Una leggenda narra che Tarquinio il Superbo, re di Roma, per far capire al figlio Sesto Tarquinio che il modo migliore per sottomettere la città di Gabi fosse eliminarne fisicamente gli uomini di potere, per rendere esplicito il consiglio, andò in giardino e decapitò, con un colpo netto di bastone, le teste dei papaveri più alti. Da questa leggenda è derivato il modo di indicare i potenti con l’espressione: “alti papaveri”. Questo episodio è stato immortalato sulla tela dal pittore romantico Lawrence Alma-Tadema. Nel quadro tra le figure immobili come statue, spicca il movimento dei petali che esplodono letteralmente per il colpo secco inferto dal re.
Leggende a parte, il fatto che gli storici del tempo raccontino questo episodio, mi fa pensare che nei giardini dei primi re di Roma, i papaveri crescessero liberi e tranquilli, in aiuole e prati ben lontani dall’idea leccata che abbiamo dei giardini di lusso dei grandi del passato.
È possibile coltivare papaveri in giardino, a patto di accettarne la loro assoluta imprevedibilità. I papaveri di campo e i più raffinati papaveri orientali, hanno in comune di non amare i trapianti. Il seme deve cadere dove crescerà la pianta, ma essendo molto difficile distinguere le piantine appena germogliate da altre erbacce, di solito finiscono per fare una brutta fine. Si hanno buoni risultati seminando i minuscoli semi nei vassoi tipo Multipot (quelli che usano nei vivai) oppure, si possono fare esperimenti casalinghi con le vaschette di cartone delle uova. Il terreno deve essere fine e leggero (un terzo terra, due terzi sabbia di fiume) e quando i semi cominciano a germogliare, bisogna diradare le piantine e poi metterle a dimora prima che le radici siano troppo sviluppate. Non ho mai provato, ma se si usano le vaschette delle uova, forse è sufficiente tagliare il fondo della vaschettina di cartone e piantare tutto insieme, in questo modo la terra non si dovrebbe mai staccare dalle fragilissime radici. Per avere i papaveri in un prato rustico e fiorito bisogna seminare in pieno campo e in pieno sole, sperando che in primavera, le giovani piantine non siano soffocate da altre erbe. I migliori risultati si ottengono quando il prato è giovane e la concorrenza ridotta, ma negli anni, i fiori e le erbe cominceranno la loro lotta per la sopravvivenza e i papaveri cercheranno spazio ai bordi o dove la vegetazione è più rada. I papaveri orientali si comportano allo stesso modo, però sono più grandi di quelli di campo e offrono una varietà di colori che vanno dal bianco puro, al rosso ciliegia, fino alle sfumature più raffinate del rosa antico. Nel mio giardino ho cercato di farli fiorire dove volevo io, senza mai riuscirci, però ho avuto la soddisfazione di ammirarli dove volevano loro: qualche estate fa insieme ad una spettacolare fioritura blu di borragine, e ormai da qualche anno, sul ciglio della strada, liberi di andare o di restare.

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Giovanna Mattioli

È un architetto ferrarese che ama i giardini in tutte le loro forme e materiali: li progetta, li racconta, li insegna, e soprattutto, ne coltiva uno da vent’anni. Coltiva anche altre passioni: la sua famiglia, la cucina, i gatti, l’origami e tutto quello che si può fare con la carta. Da un anno condivide, con Chiara Sgarbi e Roberto Manuzzi, l’avventurosa fondazione dell’associazione culturale “Rose Sélavy”.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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