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In questi giorni di anniversario mi è capitato di ripensare alle categorie di storia, memoria, distanza su cui si basa l’opera narrativa di Giorgio Bassani. A renderle più vive si è aggiunto il ricordo di incontri, e il trovarmi davanti a qualche dedica e a una manciata di cartoline. Mi soffermerò su tre di queste ultime, visto che, intrecciandosi stranamente tra loro, mi portano a riflettere sulla vita, la morte, l’impegno, la testimonianza, e su quel che hanno significato per lui. Ma non riesco prima a non parlare delle strutture inclusive (quasi barriere/prigione) che nel Romanzo di Ferrara inglobano la borghesia ferrarese responsabile, come quella dell’intera nazione, di connivenza con il fascismo; o della voce narrante che, da impersonale, esterna, giudicante, nel passaggio da un romanzo all’altro gradualmente si consegna ad un ‘io’ parzialmente autobiografico, a cui spetta il compito di ridestare il ricordo di un mondo perduto. Un mondo a cui lega una strana appartenenza e a cui non si può testimoniare che un’irrevocabile fedeltà. Un mondo al quale ci si può avvicinare soltanto riuscendo ad unire la consapevolezza alla pietas. Fino a farsi cantore delle vittime, raccontando la storia di chi non ha potuto o non ha voluto vivere (esemplare da quest’ultimo punto di vista il suicidio malinconico di cui ci parla l’Airone, non a caso uno dei romanzi più coraggiosi, più veri, più belli dell’intera narrativa del nostro secondo Novecento). Per questo non mi limiterò a citare soltanto i racconti, i romanzi e la città che vi domina – una città divenuta mitica per tanti lettori che, condotti dal desiderio triangolare, si spostano alla ricerca di un inesistente giardino – o i personaggi/persone, parimenti indimenticabili, che vi si muovono dentro, ma devo sottolineare l’importanza della poesia, divenuta per il nostro autore, una volta conclusa la sua polifonica, complessiva opera suddivisa in sei libri, l’unica modalità di espressione, l’ultimo mezzo per una confessione sempre più soggettiva e privata.

Dall’interno di un colloquio/epitaffio modulato nei toni dello Spoon river (penso alle splendide raccolte del 1974 e del 1978: Epitaffio e In gran segreto), Bassani, sotto l’influenza della poesia/prosa violenta e risentita degli ultimi americani, ha coinvolto se stesso e i suoi ‘eroi’ in un viaggio che procede ormai oltre e al di là della morte. L’iscrizione funebre elevata a forma metrica, perduto il suo carattere di eccezionalità, si è allargata ad inglobare tutto il circostante (passato, presente, futuro, paesaggi, storia familiare e sociale), come se niente potesse salvarsi dallo sguardo distante, pietoso e celebrativo dell’io/poeta, collocato, rispetto al mondo, come dall’altra parte. Ma dall’altra parte di chi e di cosa, potremmo chiederci; e su chi, su che cosa, si stende il suo canto funebre? È l’io ad essere vivo mentre è morto il mondo, o non succede piuttosto il contrario?  Un testo come Rolls Royce, con un viaggio in macchina che porta a riattraversare in pochi secondi la vita, sembra suggerire che è la morte a essersi ormai impadronita di tutto, e che l’unico percorso possibile è quello a ritroso in un tempo che non ci appartiene più e che pure è l’unico davvero nostro, popolato com’è da ombre destinate subito a sfumare, a fuggire. Lettera, col racconto di uno allegorico incontro in un hotel di Maratea, lo confermerà, in un gioco di specchi in cui l’io e l’altro si moltiplicano e sdoppiano intorno a un improvviso, inspiegato eppure comprensibile suicidio, che altro non fa che mettere in scena per interposta persona la propria morte (“Della mia stessa età / come mi assomigliava […] mentre così ragionavo fra me e me rimirando / me stesso morto”).

“Quando mi rimproveri di non occuparmi nei miei libri / che di Ferrara e del territorio immediatamente limitrofo”: è con questo attacco che Bassani, nella Porta Rosa, invita una giovane interlocutrice a ricordare le rovine di Velia, e le necropoli di ogni popolo, di ogni tempo, richiedendo e rivendicando, in una coincidenza totale di finzione e di biografia, a sé, all’ ‘io’/’io autore di epitaffi’, il dominio sull’unico luogo a cui riconduca l’affetto. Visto che il sepolcro non ha più lo scopo (genetico) di ricoprire, ma quello di rivelare, per lui l’epitaffio si fa struttura dell’anima, punto di emergenza di una voce endeuillée, che solo alzandosi sulla Valle dei morti riesce a dare anche a se stessa un approdo definitivo. Una tomba luminosa come quella del cimitero marino di Paul Valéry, di cui mi capitò di scrivergli da Montpellier, dopo una visita a Sète, davanti ad un mare che rendeva ad un tratto comprensibile Le cimetière marin: un mare solcato da vele e da spuma, in un affocato mezzogiorno a un tratto percorso da un vento a cui si può affidare una speranza di vita (“Le vent se lève! . . . il faut tenter de vivre!”). Di pochi giorni dopo, dell’agosto del 1985

Bassani da Roma 15-8-85

La sua risposta, che mi si incrocia adesso con un altro suo saluto postale di sei anni dopo (del 12 maggio 1991)

12-5-1991

dove a colpirmi è soprattutto l’immagine del Compianto di Botticelli spedita dalla Alte Pinakothek di Monaco. Il mio sguardo si ferma sul braccio sinistro di Cristo, abbandonato, teso verso il suolo ad accettare la morte, quasi a mostrare conclusa quella lotta tra obbedienza e abbandono, fatica di vivere e anelito della fine che caratterizza la messinese Resurrezione di Lazzaro del Caravaggio nella straordinaria lettura che ebbe occasione di farne Bassani.
Al marzo 1997 risale invece un ultimo affettuoso saluto di risposta al ricordo di un incontro che aveva avuto con i miei studenti trentini nel maggio del 1991.

19-3-1997

Nelle pagine pubblicate in una rivistina del nord inviategli pochi giorni prima, rievocando i miei cinque anni d’insegnamento in un “italico rigore asburgico”, avevo accennato anche all’atmosfera di intenso pathos che si era creata intorno alla suggestiva lettura che, in un’Aula Magna strapiena della Facoltà di Lettere e Filosofia, aveva fatto di In risposta VII e di alcune delle sue ultime poesie. Ricordo ancora l’applauso lunghissimo che aveva accompagnato il suo congedo e la commozione ben visibile sul volto di tanti ragazzi. C’era in particolare una giovane (si chiamava Marta, mi pare) che ho visto piangere a lungo in un angolo per non farsi vedere. Perché quelle lacrime? per una giovinezza difficile, o per l’intuizione improvvisa di quel che può trasmettere la poesia? per la luce appena intravista di cui parlavano le liriche (o meglio per il suo desiderio, nostalgia, sogno), o per la leggera balbuzie vinta dalla sicurezza della scansione, per l’eco provocata dalla voce di un poeta reso fragile dall’età, ma che mostrava di avere vinto (e quel pianto lo provava) la scommessa più importante della sua vita, quella con l’Arte?
“Non lo si lasci andare da solo l’uomo vecchio attenti / che non s’allontani senza compagnia […] Attenti a non permettere che lui affronti senza una mano / amica stretta nella propria il deserto”, mi ripeto in questi giorni. E mi chiedo se Marta, se era davvero questo il suo nome, ascoltando i bollettini della Protezione Civile di queste settimane, memore di uno dei momenti più significativi della sua università, scandisca, come a me capita, questi suoi versi.

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Anna Dolfi

Anna Dolfi, professore emerito dell’Università di Firenze (dove ha insegnato fino al 2018 Letteratura italiana moderna e contemporanea), è Socio Nazionale dell’Accademia dei Lincei. Tra i maggiori studiosi di Leopardi, di leopardismo, di ermetismo, di narrativa e poesia del Novecento, ha progettato e curato volumi di taglio comparatistico dedicati alle “Forme della soggettività” sulle tematiche del journal intime, della scrittura epistolare, di malinconia e malattia malinconica, di nevrosi e follia, di alterità e doppio nelle letterature moderne, e raccolte sul tema dello stabat mater, sulla saggistica degli scrittori, la riflessione filosofica nella narrativa, il non finito, il mito proustiano, le biblioteche reali e immaginarie, il rapporto tra notturni e musica, letteratura e fotografia, ebraismo e testimonianza. Dopo due libri su Tabucchi (“Antonio Tabucchi, la specularità, il rimorso”, 2006; “Gli oggetti e il tempo della saudade. Le storie inafferrabili di Antonio Tabucchi”, 2010), ha curato per la Feltrinelli l’ultimo, postumo libro di saggi dello scrittore (“Di tutto resta un poco. Letteratura e cinema”, 2013). Su Bassani imprescindibili i suoi libri che ne leggono l’intera opera alla luce della malinconia e delle strutture e proiezioni dello sguardo (“Giorgio Bassani. Una scrittura della malinconia”, 2003; “Dopo la morte dell’io. percorsi bassaniani ‘di là dal cuore'”, 2017). A sua cura l’edizione critica e commentata delle “Poesie complete” di Bassani (Feltrinelli, 2021).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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