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Con il nuovo anno vorrei riproporvi una scrittrice forse un po’ malinconica ma dalla penna meravigliosa che amo molto e seguo da anni. La amo perché i personaggi sono profondi, descritti quasi come nei manga da cui si prende la leggerezza, le situazioni paradossali, i dialoghi spesso veloci e disinvolti, la forza espressiva, la nostalgia, i colori, il contatto con delicati particolari della cultura e della vita giapponese.

Banana Yoshimoto, pseudonimo di Mahoko Yoshimoto, nata a Tokio nel 1964, ha scritto molto, romanzi e collezioni di scritti che hanno venduto milioni di copie in tutto il mondo, ma mi piace farvela conoscere nei suoi 10 libri a mio avviso meglio riusciti, nel suo incantato, riservato e affascinante Giappone. Liberi poi di scoprire tutti gli altri… Buona lettura.

Kitchen, Feltrinelli, 1991, 148 p.

Il primo romanzo (scritto nel 1988 ma pubblicato in Italia nel 1991, con oltre 60 ristampe nel solo Giappone), da cui è stato tratto anche un bellissimo e ormai introvabile film, è un vero excursus sulla solitudine giovanile. Le cucine nuove e vissute che riempiono i sogni della protagonista Mikage, giovane universitaria rimasta sola al mondo dopo la morte della nonna, rappresentano il calore di una famiglia sempre tanto desiderata.

Alla scomparsa della nonna, con la quale ha vissuto dopo la morte dei genitori da bambina, Mikage si ritrova sola e deve lasciare la casa in cui abitava e riorganizzare la propria vita. Ad aiutarla arriva Yuichi Tanabe, factotum part-time del fioraio dal quale si serviva abitualmente la nonna di Mikage, molto affezionato all’anziana signora. Yuichi invita Mikage a vivere da lui, il, tempo che le serve a riprendersi. Inizia così per Mikage la convivenza con il giovane e la bellissima transgender Eriko, prima padre e poi madre del ragazzo. Il tempo passa, Mikage lascia gli studi per fare del suo amore per la cucina una professione e diventa apprendista chef. Ha cambiato casa da tempo, quando Yuichi torna nella sua vita: ora è lui ad aver bisogno per vincere la solitudine e il vuoto creatisi dopo la scomparsa di Eriko, assassinata da un ammiratore sconvolto dalla scoperta della doppia natura sessuale della donna. Da questo incontro di solitudini nasce una timida e complicata storia d’amore… La grande illuminazione del libro è che la famiglia si possa, non solo scegliere, ma inventare. Così il padre del giovane amico della protagonista può diventare o rivelarsi madre e Mikage può eleggerli come propria famiglia, in un crescendo tragicomico di ambiguità e calore.

Sonno profondo, Feltrinelli, 1994, 139 p.

Una raccolta di tre racconti – “Sonno profondo”, “Viaggiatori nella notte” e “Un’esperienza” – con per protagoniste ragazze (Terako, Shibami e Fumi) che vivono una vita sospesa tra il sonno e la veglia, tra la vita e la morte. Filo conduttore la notte, quell’oscurità che fa confrontare con il dolore di un lutto, la paura della solitudine, la ricerca di una luce che apra una speranza. Accomunate da tale dimensione onirica, emergono temi tipici della narrazione di Yoshimoto: l’amore, il sesso, il suicidio, la famiglia, la malinconia, il sovrannaturale e, infine, la morte percepita come elemento assolutamente necessario.

Al centro del primo intenso racconto troviamo la giovane Terako, che trascorre le giornate in uno stato apatico di sonno profondo, da cui il titolo. A svegliarla sono solamente le telefonate notturne dell’amante, sposato con una donna che a causa di un incidente stradale è ridotta a uno stato vegetativo. Impotenza, fragilità e malinconia sono i sentimenti che invadono e pervadono le pagine. Solo nel sonno immobile si placa o svanisce il dolore, la coscienza dimentica, la tristezza vola via, la pace arriva.

Nel secondo racconto, Shibami e Marie brancolano nell’oscurità e nel silenzio di notti innevate, affrontando la perdita del fratello e del fidanzato segreto. Nel freddo inverno giapponese, ricordano, piangono, soffrono fino a trovare consolazione nell’affetto reciproco. Anche nella tristezza e nella perdita, c’è sempre spazio per gli altri.

Nel terzo racconto, in una notte di tempesta, un medium mette in contatto la giovane protagonista con la sua amica scomparsa da tempo.

Temi delicati ma, alla fine, resta, comunque, forte la sensazione che c’è sempre una speranza davanti a sé, anche quando tutto sembra cristallizzarsi in un tempo sospeso.

Tsugumi, Feltrinelli, 1994, 159 p.

Si tratta del quarto romanzo di Banana Yoshimoto, scritto nel 1989 ma edito in Italia solo nel 1994. Al centro, insieme al mare, Maria, l’io narrante, una ragazza candida, dolce e semplice, che ritorna al suo paese natìo da Tokyo. Durante il soggiorno estivo nella località marittima trascorre il suo tempo nell’albergo degli zii con le sue due cugine: Tsugumi e Yoko. Tsugumi, la vera protagonista, è, invece, una ragazza particolare, di salute cagionevole, dal carattere impossibile: appare cattiva e viziata, vendicativa e poco leale ma anche terribilmente intelligente. Eppure, sotto questo solido guscio di diffidenza, legata alla convivenza forzata con una malattia che la rende fragile nel quotidiano, batte un cuore, si nasconde un animo delicato e uno spirito libero. Maria è una delle poche persone che riesce a scalfire la sua scorza e ad arrivare al suo cuore e alla sua anima, che si rivela sensibile e forte. La crescita interiore di Tsugumi, che avviene anche grazie all’amore, culmina nell’aggravamento delle sue condizioni di salute che le fa indirizzare una lettera d’addio alla cugina Maria. Pur rassegnata, Tsugumi rivela un forte attaccamento alla vita e alla famiglia, ripercorrendo ricordi fatti di passeggiate e di nottate di chiacchiere. Inaspettatamente, però, le sue condizioni di salute migliorano e può tornare alla sua tranquilla esistenza. Il miracolo dell’amore e della vita, della magia dell’estate. Scritto, come sempre, con immensa delicatezza.

H/H, Feltrinelli, 2001, 95 p.

H/H, ovvero Hard Boiled e Hard Luck, tratta di uno dei temi a più cari alla scrittrice, quello della morte, la “fatale quiete”. Nel primo racconto, Hard-boiled, una giovane ragazza passeggia da sola, senza meta, in un bosco, all’arrivo della sera. Un albergo non distante l’attende ma la paura di quel posto lontano comincia ad assalirla. Tra presenze oscure e ricordi indelebili del passato, riemerge l’immagine di una donna, Chizuru, la sua ex. Un incontro-scontro con il proprio io, con cui fare i conti. Raggiunto l’hotel, dove può rilassarsi e farsi un bagno caldo, si accorge che al passato non si sfugge e proprio lì, alla ricerca di riposo e nel mezzo della notte più profonda e cupa, presagi e fantasmi le rifaranno vivere un passato doloroso, un amore non convenzionale finito male, perché non era forse riamata, una donna che non c’è più e di cui lei sente comunque la mancanza. Quel giorno è l’anniversario della sua scomparsa, lei lo ricorda come se fosse oggi. Forse la morte non è veramente una fine, forse capiremo dai nostri errori…

L’altro racconto di H/H è Hard luck. Qui Kuni, la sorella della giovane protagonista, è in coma a causa di un’emorragia celebrale: doveva sposarsi ma un incidente al lavoro l’ha condotta in ospedale, inerte. Il suo fidanzato si è prontamente dileguato e la sorella, con tutta la famiglia, aspetta che quella attesa tra la vita e la morte finisca. Sakai, il fratello del promesso sposo di Kuni, è rimasto per la protagonista: si è innamorato di lei e anche la ragazza inizia piano piano a conoscerlo e a provare qualcosa per lui. Ma un viaggio in Italia per studio programmato chiama la giovane: i due ragazzi non possono mettersi subito insieme ma si daranno appuntamento in Italia. La vita avrà un significato diverso dopo l’incidente della sorella e la catturerà in un’atmosfera mai conosciuta prima.

Due storie con protagoniste anonime, che trattano con serenità di un tema tanto difficile come la morte, dove la fine ma non sarà la fine ma solo un nuovo inizio.

L‘abito di piume, Feltrinelli, 2005, 132 p.

La ventiseienne Hotaru ritorna al paese natale, piccolo borgo tranquillo attraversato da un fiume, per dimenticare le sue infinite pene d’amore. Per otto anni, infatti, ha abitato a Tokyo, dove ha vissuto una burrascosa e clandestina relazione con un uomo sposato più anziano di lei che, inaspettatamente, l’abbandona per restare con la moglie. L’amore idealizzato era a senso unico, la delusione è cocente. Ferita, delusa, costernata e incredula, tornare al paese è un ritorno all’infanzia, è ritrovare pace e serenità nell’affetto degli amici e dell’amata nonna. La madre è morta e suo padre, noto psicologo, è in viaggio di lavoro in California. Hotaru trascorre le sue giornate aiutando la nonna nel suo caffè, intimo, caldo e familiare, sulla sponda del fiume lento. Si stabilisce nel magazzino di quel piccolo locale, vuole restare sola e non pensare. Rivede i luoghi e le persone del passato, rivive il profumo del ramen che cucinava suo padre, sfiora il fragore del fiume e, soprattutto, si riavvicina a Rumi, sensibile amica di un tempo, una quasi sorella. Il calore dell’amicizia ritrovata, quelle che erano, quelle che restano per sempre. Un bel giorno, dopo una lunga passeggiata immersa tra i ricordi, incontra un ragazzo, giovane istruttore di sci, Mitsuru, che le lascia un’insolita sensazione di déjà vu. L’ha già incontrato in passato? Dove? Quando? Il legame fra i due giovani matura, la madre del ragazzo è misteriosamente malata ma grazie a lei guarirà. Hotaru seguirà un percorso che le farà ritrovare la perduta serenità e, guarita dal folle dolore, potrà riappropriarsi della sua gioventù. Ritornata alla sua cittadina d’origine, Hotaru si sente avvolta dal lieve calore di un abito di piume, grazie all’appoggio dell’amica Rumi e alla sua nuova, nascente vita. Senza più inquietudine. Perché ogni guarigione origina e inizia in noi.

Il coperchio del mare, Feltrinelli, 2007, 140 p.

Terminati gli studi a Tokyo, Mari decide di tornare al suo paese natale, un posto in riva al mare circondato da montagne, oggi triste, in declino e in quasi totale abbandono. Qui l’inquinamento delle nuove fabbriche ha tolto ogni luce e rigogliosità, quella di un tempo che fu, fatto di turisti sorridenti e spensierati. Il mare non dà più i suoi frutti, sono tutti scappati. Il declino impera, la malinconia avvolge i pochi abitanti rimasti. Ma Mari decide di perseguire il suo sogno di sempre, quello di aprire un chiosco di granite. Le sue sono granite particolari: non ci sono i tradizionali gusti ricavati dagli sciroppi industriali e finti, ma sono preparate usando i frutti delicati e tipici del territorio. Mentre Mari prepara quelle specialità con precisione, delicatezza, cura e meticolosità fatta di lenti gesti quotidiani, sempre accanto al mare amico fedele, la madre decide di ospitare per l’estate Hajime, figlia di un’amica di famiglia, rimasta sfigurata in un incendio nel quale la nonna, pur di salvarla, ha tragicamente perso la vita. Periodo difficile per quella giovane vita. E così due mondi apparentemente opposti s’incontrano, quello di Mari, forte, decisa, tenace e combattiva, e quello di Hajime, gracile, debole e fragile ma sensibile. Il terzo personaggio a loro molto vicino è il mare, con la ricchezza dei pesci e dei coralli, ma anche il ricordo di un periodo di abbondanza passato; quel mare vivo, intimo, avvolgente, fedele e travolgente che, alimentando le loro aspettative e sedando le loro delusioni, dona alle due ragazze il sollievo necessario per ricominciare una nuova vita, in un legame di profonda e solida amicizia. Lasciando loro un immenso senso di pace, speranza e serenità. Bellissimo.

Un viaggio chiamato vita, Feltrinelli, 2010, 192 p.

In questo libro Yoshimoto, che si dichiara, nella postfazione dell’edizione italiana, non portata per i saggi, racconta le sue vicende personali, 47 brevi racconti riguardanti episodi di vita e di viaggio della scrittrice, divisi in tre sezioni. Un oggetto, un profumo, un dettaglio portano alla mente della scrittrice delle sensazioni e dei ricordi particolari della sua vita. La vita è un viaggio e, come tale fatta di ricordi.

La prima sezione raccoglie particolari dei viaggi in Asia, Italia, Egitto e Sudamerica, con una riflessione sulle differenze con il Giappone. Il profumo del rosmarino la porta in Sicilia, il freddo le ricorda l’inverno trascorso alle terme in Toscana. Da qui riflessioni sulla vita, sull’importanza dei ricordi e sul legame dell’uomo con l’uomo stesso, la natura e gli animali.

La seconda sezione è una raccolta di esperienze, persone, ricordi sparsi. La terza sezione si concentra sulla vita, sulle persone, sulla morte: un bar o un cibo ricordano un caro amico scomparso, la morte del cane o la nascita del figlio. Spesso si fa riferimento alla società moderna, così distante dall’adolescenza della scrittrice degli anni Settanta: si è perso il contatto umano, la quotidianità dei gesti è freddezza. Così come dei viaggi, tutto ciò che rimane della vita sono i ricordi, che col tempo diventano piacevoli anche se legati a dolori. Il tempo modifica e guarisce.

Moshi moshi, Feltrinelli, 2012, 206 p.

La protagonista di Moshi moshi (che, in giapponese, significa pronto di quando si risponde al telefono), è Yoshie, una ragazza che, dopo la morte del padre, che pare essersi suicidato con l’amante, decide di trasferirsi in un quartiere di Tokyo conosciuto per i suoi locali alternativi e il suo stile: Shimokitazawa, lontano dal caotico centro cittadino. Spera qui, in questa nuova e originale dimensione, di poter ritrovare serenità, lavorando in un ristorante dopo aver frequentato una scuola di cucina. La ricerca di questo tanto agognato equilibrio viene però interrotta e turbata dall’improvviso arrivo della madre, che, ancora scossa per la morte del marito (doppio suicidio-doppio tradimento…), decide di trasferirsi da lei. La vita torna a essere messa a soqquadro, ci sono da condividere spazi, momenti, oggetti e pensieri. Entrambe, insieme, dovranno cercare di superare una perdita da una parte e una nuova vita dall’altra. Una rinascita interiore, fatta di silenzi, pazienza, amore, dolcezza, delicatezza e profonda eleganza. La penna della Yoshimoto anche qui è magistrale.

Il giardino segreto, Feltrinelli, 2016, 138 p.

Quando una storia d’amore arriva al capolinea, lo si percepisce in un attimo che diventa eterno, in un momento secco e tranciante si tocca l’incertezza di non avere più punti fermi. Ciò che è destinato a fallire prima o poi finirà, anche se si finge di non capire, perché non si vuole ammettere un fallimento, magari l’ennesimo. E allora o si è comunque felici di avere avuto accanto una persona meravigliosa che rimarrà sempre una gemma della propria vita o non si riesce a farsene una ragione. E tutto crolla. Inutile dire che la prima soluzione, quella più difficile, è prerogativa di pochi forti. E mentre la giovane Shizukuishi cerca casa con il suo Shin’chiro, tutto finisce. Perché destinato a finire. È la fine di dolcezze e malinconie di un Giappone avvolgente, quello de “Il giardino segreto” di Banana Yoshimoto. Sullo sfondo, un misterioso serpente di giada, un ricordo dell’amore della nonna. Il tutto avvolto dal giardino d’infanzia dell’amico di Shin’chiro, il dolce Takahashi scomparso prematuramente per problemi di cuore e una malattia alle gambe che lo aveva costretto su una sedia a rotelle fin da piccolo. Quel giardino miracoloso e spettacolare avrebbe accompagnato sempre, come un’ombra imponente, la vita di Shin’chiro, insieme alla madre dell’amico. Una presenza del passato che rafforza il senso di precarietà della storia d’amore fra i due giovani. Questo giardino è però il centro di tutto il romanzo, la sua bellezza e la sua energia, il suo vero significato. Nonostante la disabilità, Takahashi lo aveva sempre seguito e curato con immensa passione e amore, un luogo che pare svelare la risposta a molte domande di Shizukuishi. Forse bisogna accontentarsi della natura, forse ci ostiniamo a riprodurla perché la si ritiene un frammento della già meravigliosa opera degli dei. Il mondo di quel giovane e abile giardiniere era fatato, il paradiso racchiuso nel cuore di ogni essere umano, l’espressione visibile dei suoi sogni, desideri, della sua esistenza.

Su un letto di fiori, Feltrinelli, 2021, 128 p.

L’ultimo romanzo da poco pubblicato in Italia, dedicato al padre, è un condensato della poetica della Yoshimoto, un inno alla vita semplice e infinita, quella di un quotidiano in cui riconoscere la bellezza. È la storia di Miki, abbandonata e trovata su un soffice letto di alghe wakame in riva al mare: da quel momento la sua vita è stata all’insegna dell’amore. Quello degli Ohira, soprattutto, la famiglia che l’ha adottata, composta da nonno, mamma e papà scultore, che gestisce un bed & breakfast in una cittadina a strapiombo sull’oceano. Miki è così felice da sembrare sciocca ma non le importa, perché ha tutto ciò che si può desiderare. La sua quiete è però turbata da alcuni inspiegabili episodi: una strana signora che si aggira intorno alla loro casa, dei sassi misteriosi comparsi nel vialetto sui quali inciampa spesso, dei mucchietti di ossa spuntati nel giardino della casa accanto. Insieme alla sua famiglia e al vecchio amico Nomura, Miki imparerà che la vita è più grande di quanto pensi, che il mondo è molto più ricco di misteri e meraviglie e scoprirà che l’amore, come l’odio, può essere il motore di tante storie inattese.

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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