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“Quando ero piccolo mio padre mi regalava sempre dei giocattoli ed io li rompevo sempre, perché volevo capire quello che c’era dentro. Allora io non capivo niente perché ero piccolo, ma adesso che sono grande e capisco i soldi che costano i giocattoli, me li conservo gelosamente per ricordo della mia infanzia.”.
(Da: Racconti impensati di ragazzini, a cura di E. De Vivo, Feltrinelli) 

Per tante ragioni, nonostante il copioso sudore che mi viene a trovare ogni anno, l’estate è sempre stata la mia stagione preferita… fin da quando ero bambino (nei primi anni ’60). L’anno scolastico terminava, mettendo la sordina ai pensieri di noi bimbi e il caldo ci aiutava a non avere molti problemi su che cosa metterci addosso. Una maglietta a righe o a tinta unita (non firmata), un paio di braghine corte e i sandali.

Anche il maestro Alceste girava in bici per Argenta in canottiera ed era un avvenimento!

Si mangiava presto la sera e poi si correva subito in strada, sicuri di trovare degli amici con cui giocare al pallone, a spanna coi semi di pesca, a mondo, a figurine (a muro, a taglio), a biglie (a buca), a nascondino, a bandiera, a carte, a pulce . Si finiva sempre tardi, col buio, ben oltre Carosello. I grandi non avevano ancora inventato l’ora legale.
Ogni tanto, capitava di essere invitati dalla signora Bolognesi a vedere la TV in biancoenero (Campanile sera o Lascia o raddoppia). Io e mio fratello ci vestivamo un po’ meglio… poi, dopo un po’, mia madre restava a chiacchierare e noi uscivamo a giocare correre saltare e… sudare.

Un discorso a parte lo meritano i soldatini ed i tappi in lega d’alluminio delle bottiglie (detti anche coperchini).

Quando andavo in vacanza dai nonni, per me era una gioia. Ero sicuro di incontrare Piero, Ivan, Michele con cui preparavo delle vere e proprie sfide. Ognuno di noi si portava i propri soldatini… Io avevo un misto: indiani di diversi tipi, tedeschi dell’ultima guerra, cowboy, marines, nordisti, sudisti, alcuni David Crockett (tutti rigorosamente diversi), qualche cavallo e altro che non ricordo.
Nel cortile dietro casa c’erano cespugli d’erba, piccoli mucchi di terra, pietre, cassette della frutta. Insomma, tutto l’occorrente per ‘riprodurre’ un grande canyon. Ognuno disponeva il suo gruppo di soldatini sul terreno, metteva dei ripari o utilizzava quelli naturali che, però, non dovevano impedire al ‘nemico’ di colpirlo, poi s’incominciava la sfida. Si usavano tappi di sughero o piccoli sassolini per non buttare giù gli avversari senza romperli. Lo scontro era in contemporanea e ognuno era contro tutti. Finita la scorta dei dieci o quindici tappi, ci si fermava, si raccoglievano le ‘munizioni’ e si riprendeva un secondo giro. Vinceva chi rimaneva con un cowboy o un indiano in piedi.

Coi tappi delle bottiglie, invece, io e mio fratello avevamo inventato diversi modi per giocare. Gli si toglieva il sughero per farli andare più veloci e, dopo aver preparato tanti piccoli cerchi con lo stesso diametro dei coperchini su un foglio bianco, si scrivevano i cognomi di calciatori (intere squadre con le riserve) o di ciclisti. Si prendeva il foglio, ogni cerchio e si premeva sul tappo fino a quando il pezzo di carta non si staccava e vi restava dentro.
A quel punto, le strade dei tappi ciclisti e dei tappi calciatori si separavano. Il campo di calcio era o il tavolo da pranzo o una parte del pavimento della sala da pranzo, delimitata da libri o panni vecchi; in corrispondenza delle porte c’erano due spazi vuoti; la palla era un bottone; non esistevano fuorigioco o corner e gli unici falli, con relative punizioni, si ‘fischiavano’ quando un tappo si rovesciava.

Per i tappi ciclisti, si facevano le piste col gesso sui marciapiedi attorno a casa oppure nei sentieri dell’orto (se non era piovuto o se non era prevista l’annaffiatura immediata delle piante). Quando un tappo si rovesciava, tornava al ‘cicco’ precedente. Ogni tanto, al posto dei pezzi di carta mettevamo le foto colorate tolte dalle biglie di plastica che si erano rotte. I tappi li usavamo anche senza ‘modifiche’, cioè gli lasciavamo il sughero e, dopo aver trovato uno spazio sufficientemente liscio e lungo alcuni metri, li ‘ciccavamo’ e vinceva chi faceva arrivare il proprio tappo più vicino al muro o ad una riga in gesso senza che si fosse rovesciato. In queste gare e nelle corse ciclistiche, la presenza di amici concorrenti era assicurata, sul versante calcio ci siamo sempre tenuti l’esclusiva.
D’estate era anche il momento in cui si costruivano nuovi gruppi o ci si ritrovava per rifare la banda. Ad Argenta, solo nella mia zona (via Aleotti e dintorni) c’erano tre gruppi e, poco più in là, quello molto temuto della ‘chiavica’…

Grandi battaglie con cerbottane e ‘piroli’ di carta, per la… gioia dei netturbini il giorno dopo.

Oppure si costruivano ‘armi’ con elastici ricavati dalle camere d’aria delle ruote delle biciclette… Si andava dalla ‘pistola’ ad un colpo, alla doppietta fino ad una ‘mitragliera’ (o, meglio, elastichiera) portatile da dodici colpi. Della sua efficacia (chi era colpito tre volte era fuori da quel giro) e del bruciore alle cosce ne ho fatto esperienza personale perché ero rimasto isolato ed accerchiato e senza elastici di scorta. Mi scaricarono due dozzine di colpi, eliminandomi dal gioco. Il ricordo mi porterebbe a scrivere tante altre cose, episodi, aneddoti, ma il significato di queste righe potrebbe smarrirsi. Nessun confronto tra la creatività di allora e l’omologazione (presunta) di oggi. Sarebbe un’inutile dimostrazione retorica.

Invece, un ultimo vissuto diffuso. Non ci si arrabbiava o si facevano i capricci se mancavano i giochi nuovi. QUELLI arrivavano solo a Natale e ci si giocava solo durante le vacanze.
Poi la scuola tornava ad imporre i suoi ritmi, i compagni giocattoli dell’estate tornavano fuori ogni tanto, ma di nascosto, perché erano fuori stagione.

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Pierluigi Guerrini

Pier Luigi Guerrini è nato in una terra di confine e nel suo DNA ha molte affinità romagnole. Sperimenta percorsi poetici dalla metà degli anni ’70. Ha lavorato nelle professioni d’aiuto. La politica e l’impegno sono amori non ancora sopiti. E’ presidente della Associazione Culturale Ultimo Rosso. Dal 2020 cura su Periscopio la rubrica di poesia “Parole a capo”.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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