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Pare che economia ed economy non siano la stessa cosa. Quando parliamo di economia la nostra mente corre con il pensiero all’industria, alla finanza, al debito pubblico, al prodotto interno lordo, ai bilanci e ancora altro. Se entriamo nel mondo dell’economy il paesaggio cambia radicalmente, ci immergiamo in un fiume di espressioni inglesi come sharing economy, mesh economy, peer to peer economy, economy on demand, rental economy, crowd economy. Non più lo spettro dell’implosione finanziaria, ma il panorama rassicurante di un’economia della collaborazione, di una economia della condivisione.
Mentre l’economia tradizionale, per come la conosciamo, è in crisi e ci fa pagare prezzi altissimi, si sono andate affermando forme di pratiche sociali, di uso delle risorse materiali e immateriali tutte fondate sulla condivisione.
La condivisione è anche scoperta del capitale umano, di un capitale umano buono per il mercato del lavoro, ma finora ignorato dallo Stato, considerato più che altro come soggetto passivo dall’amministrazione pubblica. Eppure dal 2001, con la legge di revisione costituzionale, l’ultimo comma dell’articolo 118 della nostra Costituzione sancisce che i poteri pubblici: ”favoriscono le autonome iniziative dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale”. Si chiama principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale.
Basta visitare il sito internet di Labsus, laboratorio di sussidiarietà, per comprenderne l’importanza e la portata. http://www.labsus.org/
Sussidiarietà e condivisione propongono un’idea di polis che non è la vuota arena della chiacchiera politica, ma il rimboccarsi le maniche per fare, per mettere a disposizione i propri talenti a fianco dell’amministrazione locale per la gestione del bene pubblico, che non è proprietà privata dello Stato, ma bene in uso di tutti, che richiama la responsabilità di ciascuno non solo nell’utilizzazione, ma anche nella sua cura e conservazione.
È uscire dal proprio individualismo privato, dal proprio egotismo, per rendere il proprio privato pubblico, al servizio di quello che non è né mio né tuo ma è di tutti e quindi chiama al senso di responsabilità ciascuno singolarmente.
È l’epoca della co-città, della città condivisa, della fine della contrapposizione tra chi amministra e chi è amministrato, perché l’epoca del cittadino semplice utente è destinata a tramontare per sempre.
È il tempo della solidarietà. Della alleanza, della condivisione, della responsabilità di ciascuno nei confronti di quel bene comune che è la propria città, abitata non da soggetti passivi, ma da soggetti attivi, portatori di risorse proprie, sotto forma di capacità, esperienze e idee disposti a metterle a disposizione della comunità in una banca delle competenze e del tempo. Ecco la città che ha bisogno dell’altro, perché si apprende l’uno dall’altro, perché si stende un’ampia rete di scambio e di condivisione, una rete gratuita che è l’esito della cittadinanza di ciascuno, che non accetta d’essere solo gestita, ma che chiede di partecipare facendo.
La città della conoscenza che cresce nel quotidiano, mettendo a disposizione e conducendo all’unità di un progetto, di un’idea del modo di vivere la città, come comunità solidale, intelligente, che vuole essere parte della sua storia e della sua cura, della sua crescita.
È la città della collaborazione civica e della sussidiarietà circolare, basata sulla governance collaborativa dei beni comuni urbani, sul partenariato pubblico-privato. La città che con la regia dell’amministrazione locale coinvolge nella gestione e nella tutela dei beni comuni i cittadini attivi, le autorità pubbliche, le imprese, le organizzazioni della società civile, le scuole, le università, le accademie culturali. È ciò che propone “LabGov” il laboratorio per il governo dei Beni Comuni creato su impulso del Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss.
Le nostre amministrazioni locali sono ancora distanti dal dotarsi dei regolamenti necessari alla gestione dei beni comuni da parte di una cittadinanza attiva. Come al solito nel nostro Paese si predica l’educazione alla cittadinanza attiva a partire dalle scuole, ma poi evidentemente le idee chiare su cosa essa sia effettivamente scarseggiano e con questo i provvedimenti per renderla concretamente praticabile. Ancora può apparire assurda la sola idea di un cittadino che, senza essere iscritto ad associazioni di volontariato o similari, abbia la voglia e le capacità per prendersi cura dei beni comuni insieme con altri cittadini e con l’amministrazione.
Questo dimostra la portata rivoluzionaria del principio di sussidiarietà dettato dalla nostra Costituzione, perché significa che la cittadinanza attiva male si coniuga con l’idea del cittadino semplice utente o amministrato, mentre apre la strada ad una pratica della cittadinanza responsabile e solidale che in piena autonomia collabora a fianco dell’amministrazione pubblica nell’interesse generale, ovvero nella cura dei beni comuni.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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