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Quando arriva il terremoto il Sindaco ordina la chiusura di scuole e biblioteche. Giusta precauzione contro probabili scosse di assestamento. Se muore un congiunto, una piccola bottega (ma ne esistono ancora?) mette in vetrina un cartello: chiuso per lutto. Tutto normale, almeno fin qui. Ma nella novella Ferrara a trazione leghista basta un’influenza per interrompere un servizio pubblico. E’ storia di questi giorni. Oggi (venerdì 19 gennaio) la Biblioteca Gianni Rodari è rimasta chiusa. Ieri è stata aperta, ma martedì e mercoledì era ancora chiusa. Domani è sabato e dovrebbe aprire (così mi dicono). Sperém ben! Ma non più di tanto: visto che l’annuale virus influenzale non ha ancora raggiunto il suo picco, possiamo aspettarci altre brutte sorprese e altre porte chiuse.

Giuro, non ho mai sentito di una biblioteca di una città (una città, come Ferrara, non un paesino sperduto sull’Appennino) che chiude al pubblico perché i bibliotecari hanno preso l’influenza. E dire che io di biblioteche ne ho davvero viste a centinaia. Libri e biblioteche sono una mia passione, un mio pallino – anzi,  qualche lettore si lamenterà per il mio battere e ribattere sul medesimo argomento – tanto che, in qualunque città-paese-borgo arrivi, visito subito (nell’ordine): la piazza del mercato, la biblioteca e il cimitero. Mi sono fatto l’idea che è in quei luoghi che si può capire qualcosa della vita di una città e di chi la abita. Vita e Cultura sono la stessa cosa: la lezione l’ho appresa leggendo Fernand Braudel.

Ok, la Biblioteca Rodari  ha dovuto chiudere per qualche giorno, ma è davvero il caso di farne un dramma? No, evidentemente. Ma se si scava un po’ sotto, si capiscono tante cose. Non tanto belle. Se il Sistema Bibliotecario di Ferrara – gestito da un dirigente competente e con in servizio alcune decine di operatori capaci e appassionati del loro lavoro – ‘va in tilt’ (cioè è costretto a chiudere una biblioteca pubblica) solamente perché è arrivata la solita, periodica epidemia influenzale, significa che siamo ormai arrivati al fondo del barile. Significa che non basta più spostare qualche bibliotecario da una sede all’altra, o richiamare in servizio qualcuno che ha preso ferie per tappare il buco. Significa che il personale è del tutto insufficiente per gestire decorosamente un servizio sociale e culturale di primaria importanza.

E mica è una novità. Non sono certo il solo a denunciarlo. Su iniziativa del sindacato, lo scorso dicembre sono state raccolte più di 2.000 firme per chiedere al Sindaco e alla  Amministrazione Comunale di assumere nuovo personale per rimpiazzare coloro che sono andati e andranno in pensione. La verità – la polvere che qualcuno vorrebbe mettere sotto il tappeto – è che in vent’anni il Comune di Ferrara ha perso centinaia di dipendenti: nel 1.999 erano oltre 1.400, oggi sono poco più di 1.000. Non è finita: nel 2020 andranno in pensione non meno di 60 dipendenti, mentre il Sindaco Fabbri si è impegnato (a voce) ad assumere solo 25 giovani.

Da parecchi anni è in atto (quindi il discorso non riguarda solo la nuova Giunta) una politica di svuotamento progressivo dei servizi pubblici. Tutti i servizi pubblici. Si appalta al privato. Si riducono gli orari di apertura. Si fanno salti mortali per sostituire il personale in malattia. Una cura dimagrante che alla fine (siamo arrivati ad oggi) ci presenta il conto. Si stringe la cinghia: un buco, due buchi, tre… e alla fine non rimane che chiudere la porta. Come alla biblioteca Rodari.

Il Sindaco  ha incontrato proprio ieri il sindacato. Alla richieste dei 2.000 firmatari della petizione popolare,  Alan Fabbri ha risposto con alcune promesse: faremo un concorso e 3 nuove assunzioni nelle biblioteche, decideremo entro il 2020 dove far sorgere la Nuova Rodari per dotare la Zona Sud di Ferrara di una grande biblioteca. Non solo: entro il 2024 la Grande Rodari sarà regolarmente in funzione.

Non so se crederci – di buone intenzioni eccetera eccetera – anche perché parliamo dello stesso Sindaco Fabbri che da mesi promette ( e non mantiene) di trovare una location di pari dignità e rilevanza allo striscione di Giulio Regeni rimosso nottetempo dallo Scalone del Municipio.

Resta un’ultima cosa cui almeno accennare – il discorso sarebbe un po’ lungo. Dobbiamo chiederci (Tutti: noi governati e chi ci governa) quale cultura vogliamo a Ferrara. A me, ad esempio, piace tanto andare alle mostre. Bene la mostra di De Nittis ai Diamanti (tanto bella, tanto emozionante che tornerò a vederla), bene la Collezlone Farina al Padiglione, benissimo il nostro grande Gaetano Previati al Castello e le altre meraviglie che ci promette il nuovo presidente di Ferrara Arte Vittorio Sgarbi. Ottimo per i turisti e ottimo per i ferraresi. Ma la Cultura di Ferrara non è fatta solo di pietre (Il compianto amico Carlo Bassi ci ha spiegato una volta per tutte “Perché Ferrara è bella”), e non è fatta solo di mostre, rassegne e festival. La Cultura è vera Cultura se è quotidiana, se parte dal basso, se è accessibile a tutti. E allora: scuole e biblioteche prima di tutto. Vogliamo o non vogliamo investire su questo?

 

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Francesco Monini

Nato a Ferrara, è innamorato del Sud (d’Italia e del Mondo) ma a Ferrara gli piace tornare. Giornalista, autore, infinito lettore. E’ stato tra i soci fondatori della cooperativa sociale “le pagine” di cui è stato presidente per tre lustri. Ha collaborato a Rocca, Linus, Cuore, il manifesto e molti altri giornali e riviste. E’ direttore responsabile di “madrugada”, trimestrale di incontri e racconti e del quotidiano online “Periscopio”. Ha tre figli di cui va ingenuamente fiero e di cui mostra le fotografie a chiunque incontra.

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Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

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