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Si sono dunque conclusi gli Stati generali dell’Economia promossi dal governo e, in primis, dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte.
Mi pare sbagliato etichettarli come una semplice passerella dei vari soggetti, né peraltro si può dire che, al di là dei titoli del piano di rilancio annunciato per settembre, essi siano approdati a decisioni chiare e definitive. In realtà, quest’appuntamento è semplicemente servito ad evidenziare meglio le posizioni in campo sul come affrontare la profonda crisi economica e sociale che si è aperta con il Coronavirus. Andando per schemi, quello che si può dire è che, intanto, è emersa con una certa forza la ricetta del tandem Colao-Confindustria.
Li metto insieme non perché le proposte siano coincidenti, ma perché accomunati da una medesima filosofia. La si può così sintetizzare: per uscire  dalla crisi, bisogna semplicemente affidarsi alla centralità dell’impresa e del mercato e l’intervento pubblico deve limitarsi a svolgere un ruolo ancillare a questo fine. Tutto discende da lì: è l’impresa che crea ricchezza e occupazione ed essa va sciolta dai ‘lacci e lacciuoli’ che le impediscono di esprimere fino in fondo questa sua vocazione. Da qui il sostegno indiscriminato alle imprese, la semplificazione amministrativa – leggi: meno vincoli e controlli, a partire dalla revisione del Codice degli appalti –  rilancio delle Grandi Opere, eliminando il ‘potere di veto’ degli Enti locali e spingendo ulteriormente le privatizzazioni nei servizi pubblici, a partire da quello idrico, turismo, arte e cultura letti unicamente in chiave economica, come brand per il Paese: E niente su scuola e sanità, con la scusa che non era questo il campo su cui la commissione Colao doveva esercitarsi.
Per certi versi, quanto espresso da Confindustria traduce quest’impostazione in una logica ancora più grezza, della serie “prendi i sodi e scappa”, addirittura presentando in termini rivendicativi il rimborso alle imprese per 3,4 miliardi relativo alle accise sull’energia elettrica, con un’idea per cui bisogna alzare ancor più la posta, per intavolare una trattativa con il governo da posizioni di forza.

Il punto è però che, sia pure ammantata da affermazioni roboanti sulla modernizzazione del Paese, questa è una ricetta vecchia e che non funziona. In fin dei conti, è la medesima ricetta che ci è stata proposta dalla crisi del 2008 e nei gli anni seguenti, forse un po’ meno pesante viste le condizioni sociali oggi ancora più aggravate da allora, ma sempre ispirata dagli stessi assiomi di fondo. Facendo finta di non vedere l’evidente: e cioè che l’idea di una crescita trainata dalle esportazioni, cui ci si è affidati negli anni passati, non regge più. Non a caso si stima che nel 2020 il commercio internazionale potrebbe crollare di circa il 10% e che la ripresa non avverrà in tempi brevi e uniformi nei vari Paesi: A partire dall’autunno, una volta fuoriusciti dai provvedimenti emergenziali di questi mesi, si prospetta una drammatica crisi sociale e un forte impoverimento.
Dunque una ricetta vecchia e inefficace. Ce lo dicono con chiarezza i dati di questi anni e quello che sta producendo la crisi da Coronavirus, come ci ricorda la Corte dei Conti nel suo ultimo Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica: “l’attuale recessione colpisce l’Italia in uno stadio nel quale il prodotto interno lordo ha recuperato solo la metà delle perdite registrate a seguito della doppia recessione del 2009 e 2012 (pari a circa 9 punti di prodotto). Solo le componenti esterne della domanda aggregata hanno superato da qualche anno il livello del 2007. Sia durante le recessioni post crisi 2008, che nelle fasi di ripresa del biennio 2014-15, il differenziale di crescita rispetto al complesso dell’Area dell’euro e ai principali partner è rimasto ampio e si è anzi allargato”.
La Banca d’Italia stima una riduzione del Pil nel 2020 che può andare dal 9 al 13%, un debito pubblico superiore al 155% del Pil, una caduta occupazionale che può riguardare dalle 900.000 a 1milione e 200.000 unità lavorative. Insomma: il motore del mercato si è inceppato, non è più in grado di prospettare una ripresa dello sviluppo e dell’occupazione neanche in termini quantitativi, né qualche presunto intervento ‘modernizzatore’ – da un nuovo grande piano di infrastrutturazione alla digitalizzazione dell’economia – riuscirà a eludere questo dato di realtà. Eppure non si vuole riconoscerlo, con la conseguenza che questa riproposizione del Pensiero Unico rischia di essere ‘egemone’ ( ma sarebbe meglio dire espressione di comando).

Questo mi sembra anche il portato dell’atteggiamento  del governo, che in modo balbettante fa capire che l’impostazione di Confindustria è troppo ‘estremistica’, che non si può assecondarla fino in fondo, che andrà mediata anche con altre esigenze e quindi occorrerà destinare risorse anche al welfare, in particolare alla sanità, e tutelare un po’ di più il lavoro rispetto alle pretese padronali di azzerarne diritti e passare direttamente ai licenziamenti. E che si vuole produrre un intervento sul fisco, magari abbassando un poco l’IVA con un occhio di riguardo verso i ceti medi. Ma in ogni caso il governo non sembra affrancarsi dalla ricetta neoliberista proposta (imposta) da Confindustria, rimanendone infine subalterno e imprigionato.

Non è da questa dialettica tra Confindustria e governo che possiamo aspettarci una risposta positiva per la condizione della gran parte delle persone, gravate oggi, e ancor più da prossimo e vicinissimo autunno, dal peso della crisi economica e sociale. Altri soggetti devono scendere in campo e far sentire  la loro voce: dal sindacato, finora troppo schiacciato in una logica difensiva e poco impegnato nella definizione di un’altra idea di modello produttivo e sociale, al variegato mondo dei movimenti sociali – i soggetti che in questi anni si sono battuti per l’affermazione dei Beni Comuni e dei diritti fondamentali, dall’acqua pubblica alla scuola, come il movimento delle donne e quelli che rivendicano la giustizia climatica e ambientale-  che si trovano davanti alla necessità di superare la frammentazione e costruire una nuova dimensione progettuale del proprio agire.

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Corrado Oddi

Attivista sociale. Si occupa in particolare di beni comuni, vocazione maturata anche in una lunga esperienza sindacale a tempo pieno, dal 1982 al 2014, ricoprendo diversi incarichi a Bologna e a livello nazionale nella CGIL. E’ stato tra i fondatori del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua nel 2006 e tra i promotori dei referendum sull’acqua pubblica nel 2011, tema cui rimane particolarmente legato. Che, peraltro, non gli impedisce di interessarsi e scrivere sugli altri beni comuni, dall’ambiente all’energia, dal ciclo dei rifiuti alla conoscenza. E anche di economia politica, suo primo amore e oggetto di studio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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