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Utilizzata nel 2017 come tecnica di boicottaggio mediatico dal gruppo afroamericano Black Twitter, eletta dal Maquarie Dictionary a ‘parola dell’anno 2019’ con la definizione di ‘atteggiamento all’interno di una comunità che richiede o determina il ritiro del sostegno ad un personaggio pubblico’, l’espressione Cancel Culture è stata prelevata e rivolta contro le rivendicazioni del Black Lives Matter Movement nel 2020, prima dal senatore repubblicano Tom Cotton, poi dall’ex presidente americano Donald Trump.

Da allora in poi la distorsione della locuzione si è estesa a colpevolizzare tutte quelle pratiche iconoclaste, scatenate dal desiderio di riformulazione del passato, attraverso la rimozione e la sostituzione di statue, monumenti, memoriali e toponomastica considerati emblemi dello schiavismo, del colonialismo e della discriminazione razziale, eretti dai regimi coloniali e mantenuti dalle cosiddette ‘democrature’: finte democrazie, sistemi di governo pseudodemocratici, dittature costituzionali, nei quali i cittadini, oltre al fatto che si tengano delle elezioni, sono completamente tagliati fuori dalle decisioni di tutto ciò che concerne l’esercizio del potere e il rispetto delle libertà civili.

Mentre negli USA e nel resto del mondo, Italia inclusa, le Forze di Polizia sono divenute il volto del fallimento dello Stato nel provvedere ai bisogni fondamentali delle comunità, mentre sempre più persone si stanno convincendo che è meglio de-finanziare e ridurre l’attività degli apparati di polizia sostituendoli con soluzioni civili e non militari, il contenuto di un appello scritto negli USA a soli tre mesi dall’uccisione di George Floyd, mette di fronte alle proprie responsabilità, in materia di intolleranza culturale, non solo il revisionismo di destra, ma anche il cosiddetto ‘liberalismo di sinistra’.

Nei social media, “to cancel someone” è diventato un modo di dire per intendere “togliere il like”, “smettere di seguire” o “togliere il supporto a qualcuno”.
Sull’Urban Dictionary la definizione del 2018 è: “To dismiss something/somebody. To reject an individual or an idea”, letteralmente “Scaricare qualcosa o qualcuno. Rifiutare un individuo o un’idea”.

Utilizzato in maniera intercambiabile con il termine “woke!” (sveglia! stai in guardia! occhio!) per richiamare l’attenzione dei propri contatti su qualcuno o qualcosa che oltrepassa il limite, con “cancel culture”, traducibile come “cultura della cancellazione”, si è iniziato ad intendere quel fenomeno che riguarda movimenti e gruppi spontanei di persone che esercitano pressioni per la rimozione dalla produzione di prodotti culturali o delle persone e aziende che si sono rese colpevoli di discriminazione nei confronti di minoranze, etnie, generi e pensieri.

In questo senso, l’idea di cancellare qualcuno o qualcosa, è il primo passo delle molte altre forme di online shaming (vergogna online) come le recensioni negative, il call out, il doxing, il body shame, rivolte nei confronti di celebrità, dirigenti e personaggi politici.

La Cancel Culture è però stata concepita e viene difesa come una forma spontanea di hacktivismo digitale (hacking + activism) e indica sia le azioni rivolte contro criminali o autori di pratiche poco trasparenti da denunciare e da portare all’attenzione dei colleghi, del pubblico e delle autorità, sia quelle proprie della disobbedienza civile in rete, per protestare contro il mancato rispetto dei diritti civili e contro gli abusi di potere.

La Cancel Culture, come ideologia, non esiste, e da parola impiegata per indicare le pratiche di coloro che hanno messo in discussione l’operato di governi, partiti politici e multinazionali organizzando siti web di controinformazione, petizioni online e altri strumenti per l’abilitazione di tutti i cittadini alla libera comunicazione elettronica, è divenuta un’etichetta che la destra statunitense e, a cascata, la stampa mondiale, ha affibbiato a tutto ciò che riguarda le lotte per i diritti civili.

Evocare lo spauracchio del nuovo fantasma della cultura della cancellazione che si aggirerebbe per il mondo, fa comodo prima di tutti alla destre, ai conservatori, e si sta rivelando molto utile a spostare l’attenzione, a banalizzare concetti come dissenso e libertà di espressione, criminalizzare il boicottaggio come forma di protesta e mistificare un’infinità di fatti e significati sul tratto forte, distintivo del nostro tempo: il totale, sistematico e contraddittorio annullamento di ogni aspetto della realtà, della storia e…dell’appartenenza politica.

Nel mese di luglio 2020, negli USA, nel pieno delle rivolte per la brutale uccisione di George Floyd, 153 intellettuali di vari paesi hanno firmato una lettera-petizione e lanciato un appello contro l’intolleranza culturale.

L’idea è stata lanciata da Mark Lilla, storico delle idee e professore alla Columbia University, e dallo scrittore Chatterton Williams dopo che il direttore delle pagine editoriali del New York Times, James Bennet, si è dovuto dimettere per aver approvato la pubblicazione di un articolo di un senatore repubblicano che chiedeva una risposta militare e che “fossero mandate le truppe” per sedare i disordini dovuti alle proteste del Black Lives Matter Movement con una “dimostrazione di forza schiacciante”.

Un caso di intolleranza capitato anche ad autori i cui libri sono stati ritirati dal commercio per presunte falsità o a docenti ripresi per aver parlato in classe di specifiche opere letterarie controverse – ha spiegato Lilla – riportando tanti altri esempi di scrittori, editori e giornalisti allontanati da istituzioni e realtà lavorative per aver espresso le proprie opinioni o per non aver censurato quelle altrui: “I redattori vengono licenziati per aver pubblicato pezzi controversi; i libri vengono ritirati per presunta inautenticità; ai giornalisti viene impedito di scrivere su certi argomenti; i professori vengono indagati per aver citato opere di letteratura in classe; un ricercatore viene licenziato per aver fatto circolare uno studio accademico sottoposto a revisione paritaria; e i capi delle organizzazioni vengono estromessi per quelli che a volte sono solo errori maldestri. Qualunque siano le argomentazioni su ogni particolare incidente, il risultato è stato quello di restringere costantemente i confini di ciò che può essere detto senza la minaccia di rappresaglie”.

Tra i firmatari e le firmatarie della “Lettera sulla giustizia e sul dibattito aperto (A Letter on Justice and Open Debate), compaiono l’attivista femminista Gloria Steinem, nomi della sinistra radicale come Noam Chomsky, conservatori come David Brooks, accademici come Francis Fukuyama, scrittrici e scrittori come Meera Nanda,  Margaret Atwood, Joanne K. Rowling, Salman Rushdie, Martin Amis, Ian Buruma, Jeffrey Eugenides, giornaliste e opinionisti come Olivia Nuzzi, Anne Applebaum, Fareed Zakaria, David Frum, George Packer e personalità provenienti da svariati ambienti, come lo scacchista Garry Kasparov e il jazzista Wynton Marsalis, uniti dalla preoccupazione che il libero scambio di informazioni e idee posto alla base della democrazia, stia diventando “sempre più limitato”, “ogni giorno più stretto” e mossi dalla convinzione che “stiamo pagando un caro prezzo per tutto ciò, nella misura in cui scrittori, artisti e giornalisti non rischiano più nulla perché sono terrorizzati di quello che potrebbe succedergli non appena si discostano dal consenso e non si uniscono al coro».

Il testo si apre con una lista di rivendicazioni -è giusto chiedere giustizia sociale; è giusto chiedere una riforma della polizia; è giusto considerare la destra come una minaccia per la democrazia- che lasciano rapidamente spazio a un discorso che non ammette eccezioni: gli autori denunciano come anche negli spazi progressisti ci siano reazioni aggressive alle idee e alle critiche.

Dopo le proteste, un dipendente comunale lava via la scritta “Defund the Police” dalla strada fuori dal dipartimento di polizia di Atlanta. (Foto di Alyssa Pointer / Atlanta Journal-Constitution )

Il contenuto della lettera ha creato scalpore e consensi a livello internazionale come primo accenno di rivolta intellettuale sia contro la minaccia alla democrazia proveniente da destra che contro l’intolleranza della cosiddetta “sinistra liberale”.

Liberalismo di sinistra o sinistra liberale sono termini fuorvianti per indicare quella corrente di pensiero né liberale, né di sinistra – e che anzi su molte questioni fondamentali risulta agli antipodi di entrambe queste tradizioni politiche – portata avanti dai partiti moderati di centro sinistra che hanno preparato l’ascesa delle destre non solo con scelte di ordine economico schierandosi con i vincitori della globalizzazione neoliberista, ma anche di ordine politico e culturale, attaccando i valori e gli stili di vita di coloro che un tempo erano i loro elettori di riferimento, ridicolizzando i loro problemi, le loro lamentele e la loro rabbia, finendo con il far assumere ai propri esponenti l’identità di opportunisti voltagabbana passati dall’altra parte della barricata.

I firmatari, dopo aver osservato come le imponenti proteste per la giustizia razziale stiano portando a sacrosante richieste di riforma della polizia, insieme ad appelli più generali per una maggiore uguaglianza e inclusione sociale, sottolineano come anche le istituzioni culturali stiano affrontando un momento difficile che favorisce solo e soltanto il conformismo ideologico, in un clima di intolleranza, oscurato dalla tendenza a dissolvere questioni politiche complesse in riduttive e accecanti certezze moraliste.

Mentre ci si aspetterebbe tutto ciò dalla destra, la censura, il livellamento ideologico e il dogmatismo si stanno diffondendo anche dalla cultura di sinistra, limitando sempre di più il libero scambio di informazioni e di idee, abbassando sempre di più il livello intellettuale del dibattito e limitando la capacità di partecipazione democratica di tutti: “Noi affermiamo l’importanza delle opinioni contrarie, espresse con forza e anche in modo tagliente, da qualunque parte provengano. La strada per sconfiggere le idee cattive è smascherarle, argomentare e persuadere, non cercare di metterle a tacere o sperare che scompaiano”.

La lettera, pubblicata un anno fa sulla rivista Harper’s Magazine poi rilanciata dal New York Times e da molte altre testate internazionali, ha suscitato apprezzamenti e critiche quando il neologismo Cancel Culture era appena entrato nel lessico comune di attivisti, giornalisti, commentatori politici e artisti nordamericani, per descrivere fatti di accesa critica e tendenza all’ostracismo, alla censura, al bullismo digitale, al public shaming, avvenuti nei confronti di chi avesse espresso opinioni non in linea con quella che si caratterizza come la “cultura dominante” o come la religione civile del “politicamente corretto”.

Benché nella lettera il riferimento risulti evidente, l’espressione “cancel culture” non compare e non viene nominata, così come non viene fatto alcun riferimento al revisionismo o alla furia iconoclasta dell’abbattimento delle statue.

Compatti nel denunciare l’intolleranza culturale e nel difendere la libertà di pensiero e parola, nella lettera il gruppo di intellettuali celebra “le richieste più ampie di maggiore uguaglianza e inclusione nella società” scaturite dalle proteste, sottolineando però come insieme a queste si fosse “intensificata una nuova serie di atteggiamenti morali e politici che tendono a indebolire le norme di dibattito aperto e tolleranza delle differenze a favore del conformismo ideologico”.

Una deriva respinta rifiutando dogmi, censura e coercizione: “Le forze illiberali stanno guadagnando forza nel mondo (…). L’inclusione democratica che vogliamo può essere raggiunta solo se facciamo sentire la nostra voce contro il clima intollerante che ha preso piede in tutte le parti”.

L’ideale del liberalismo è la libertà, perché solo nella libertà, cioè in una condizione che li affranchi da qualsiasi vincolo e controllo, gli esseri umani trovano gli stimoli per dare il meglio di sé stessi e progredire intellettualmente e socialmente: il primo caposaldo del liberalismo, pertanto, è la tolleranza nei confronti delle opinioni altrui.

Il tipico liberale di sinistra, invece, si caratterizza per un atteggiamento diametralmente opposto: un’estrema intolleranza verso chiunque non condivida la sua visione delle cose e tenti di svincolarsi dall’imposizione di ideologie dogmatiche che non ammettono confronto, critica e discussione.

14 giugno 2020, Milano, un addetto del comune pulisce le scritte contro la statua di Montanelli nei giardini di Porta Venezia (Photo by MIGUEL MEDINA/AFP via Getty Images)

Oltre che negli USA, il liberalismo di sinistra ha svolto ovunque un ruolo importante nel declino e nella caduta del dibattito politico e culturale.

L’impoverimento, la precarietà, l’insicurezza sociale, l’indebolimento dei legami sociali, l’evaporare di identità collettive: sono questi i temi qualificanti della “ragione liberista” sia di centro destra che di centro sinistra.

L’imperante ”estremismo di centro” cioè quel modo d’essere politicamente dominante e “politicamente corretto” che garantisce libertà di espressione e di organizzazione politica ma che nega anche con violenza ogni possibilità di condizionare, influire, combattere ad armi pari con l’oligarchia globale, sta negando da un lungo periodo di tempo ogni vera possibilità di scelta elettorale, perché i partiti di centro destra e di centro sinistra perseguono sostanzialmente lo stesso tipo di politiche, convinti che non possano esistere alternative alla dominante globalizzazione neoliberista.

Declinato a destra con xenofobia, razzismo, elogio del libero mercato e delle differenze di classe e di censo, ammainate a sinistra le bandiere dell’uguaglianza, della libertà e della solidarietà, l’incitamento all’odio delle destre e l’intolleranza dei liberali di sinistra si stanno dimostrando vasi comunicanti che hanno bisogno, si rafforzano e si specchiano l’uno nell’altro.

Per far riferimento e proporre un metodo di analisi sull’azione congiunta svolta da entrambe le parti sul martoriato corpo delle nostre società civili o sulle implicazioni del passato storico del colonialismo, andrebbe coniato il termine e approfondito il concetto di “Cultura della Cancellazione della Cultura”.

In copertina: Banksy: Graffiti Removal, Leake Street, Londra 2008.

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Franco Ferioli

Ai lettori di Ferraraitalia va subito detto che mi chiamo, mi chiamano e rispondo in vari modi selezionabili o interscambiabili a piacimento o per necessità: Franco Ferioli Mirandola. In virtù ad una vecchia pratica anagrafica in uso negli anni Sessanta, ho altri due nomi in più e in forza ad una usanza della mia terra ho in più anche un nomignolo e un soprannome. Ma tranquilli: anche in questi casi sono sempre io con qualche io in più: Enk Frenki Franco Paolo Duilio Ferioli Mirandola. Ecco fatto, mi sono presentato. Ciao a tutti, questo sono io, quindi quanti io ci sono in me? tanti quanti i mondi dell’autore che trova spazio in questo spazio? Se nelle ultime tre righe dovessi descrivere come mi sento a essere quello che sono quando vivo, viaggio, scrivo o leggo…direi così, sempre senza smettere di esagerare: “Io sono questo eterno assente da sé stesso che procede sempre accanto al suo proprio cammino…e che reclama il diritto all’orgogliosa esaltazione di sé stesso”.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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