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Una applicazione digitale impone al fattorino che consegna cibi a domicilio tempi, modi e ritmi di lavoro. Certo, il rider può saltare la consegna o rifiutare la chiamata, ma a suo rischio. Se rifiuta la chiamata, o salta la consegna, perchè decide di andare al pub, o perchè ha la febbre alta, o perchè sua madre è ricoverata, morente, all’ospedale, per l’algoritmo che valuta il suo rendimento non cambia nulla. Quello che cambia è il ranking, il punteggio del fattorino. Dopo qualche consegna mancata resta indietro, poi non lo chiamano più. Niente malattia, niente contributi, niente licenziamento. Non c’è nemmeno bisogno, di licenziarlo. E’ fuori dalla classifica, semplicemente. “Sei fuori!”, come la frase che pronunciava Donald Trump in The Apprentice (e il playboy prostatico Briatore nella sua versione italiana). Ma lì c’era maleducazione e soperchieria. Nel caso dei riders, l’espulsione avviene in maniera algida, impersonale, come fosse un dato di natura. Del resto, ciò che conta è la soddisfazione del cliente. Poco importa che quel cliente sia anche un lavoratore, che non si rende conto quanto grande sia il danno che quella flessibilità, che tanto apprezza da consumatore, arreca anche al suo lavoro. Perchè nessuna conquista di nuovi diritti è mai definitiva.

Come si può pensare che il lavoro di un rider sia “autonomo”? Li vedete in giro, come corrono in bici. Lo sapete, come lavorano. Persino un bambino capirebbe che sono i lavoratori meno autonomi che ci siano. Eppure i contratti che ne regolano l’attività, quelli cui ancora fanno riferimento la maggioranza delle aziende di delivery (in pratica tutte, tranne JustEat), li considerano come dei liberi collaboratori dell’azienda. Dei liberi professionisti della consegna a domicilio. Fino ad oggi, solo il Tribunale di Bologna (ne abbiamo parlato qui) e la Cassazione sezione Lavoro hanno incrinato la fabulosa narrazione che descrive il ciclofattorino come un corridore che unisce la passione per la bici all’utilità di guadagnare soldi dalla sua pedalata, anche se non è un velocista o un grimpeur. Fino ad oggi, appunto. Oggi, infatti, un signore dall’aspetto pacioso di nome Nicolas Schmit fa varare in Commissione Europea, nell’ambito del “pacchetto lavoro”, una direttiva che obbliga le imprese di delivery a dimostrare che il rider non è un lavoratore dipendente, ma autonomo. Se non ci riescono, il lavoratore sarà considerato un dipendente, con tutte le tutele che ne conseguono – tranne quella di essere assunto automaticamente a tempo indeterminato. Questa direttiva obbligherà anche a rendere trasparente la valutazione operata dall’algoritmo. Se l’algoritmo viene programmato affinchè la sua valutazione delle “mancanze” del rider sia improntata a indifferenza, insensibilità, disumanità, il fatto sarà pubblico.

Il fatto che l’azione del signor Schmit possa avere un impatto maggiore, sul futuro normativo di questi lavori, della pur meritoria sentenza di qualche Tribunale, dipende dal fatto che Nicolas Schmit non è un quisque de populo. E’ l’attuale Commissario per il lavoro e i diritti sociali nella Commissione Europea. Quindi la direttiva che oggi viene presentata – e che sembra avere i numeri per essere approvata – diventerebbe vincolante per i singoli paesi dell’Unione che dovrebbero recepirla nei rispettivi ordinamenti; e non riguarderebbe solo i ciclofattorini, ma tutti coloro che vengono reclutati per lavorare a chiamata attraverso piattaforme digitali (i tassisti di Uber, le colf, le badanti). Sembra essere giunto il primo traguardo di tappa per un inseguimento costante: le norme di tutela dei nuovi lavori sono, infatti, alla continua rincorsa di una realtà che muta molto più velocemente delle regole.

Ci sono giuristi che propugnano la libertà di questi “lavoretti” dai vincoli tradizionali, basandosi sull’assunto che non saranno i lavori della vita, che servono ad arrotondare, che spesso affiancano altre occupazioni; per cui l’elasticità farebbe comodo anche ai lavoratori, non solo alle aziende. Forse bisognerebbe rovesciare il paradigma: quando l’elasticità gioca tutta a favore dell’imprenditore, quando chi lavora non ricava alcun reale vantaggio in termini di autogestione del proprio tempo, quando non esiste nessuna rete di salvaguardia per le malattie, gli imprevisti, quando non c’è nessuna possibilità di pianificazione del proprio futuro dentro questa presunta “elasticità”, vuol dire che il lavoro non permette la realizzazione della dignità personale, ma si riduce a mero scambio mercantile tra braccia, gambe e paga (misera). In una frase, uno scambio diseguale e sperequato. In una parola, sfruttamento. Per una volta l’Europa delle libertà formali e dell’ipocrisia sostanziale, l’Europa che non riesce a gestire la vergogna dei migranti lasciati a morire di freddo alle porte di casa, per una volta l’Europa si propone come frontiera avanzata dei diritti dei lavori poveri, ammantati da una pelosa narrazione romantica.

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Nicola Cavallini

E’ avvocato, ma ha fatto il bancario per avere uno stipendio. Fa il sindacalista per colpa di Lama, Trentin e Berlinguer. Scrive romanzi sui rapporti umani per vedere se dal letame nascono i fiori.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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