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10 Settembre 2019

C’è Rousseau e Rousseau

Tempo di lettura: 4 minuti


Il vizio delle parole, anche se nomi e cognomi di persona, è quello di parlare. Se dici Rousseau, ecco che inizi ad ascoltare, seppure in silenzio, quanto ha da dire.
Perfino il presidente della Repubblica ha atteso Rousseau, non il ginevrino, ovviamente, pace all’anima sua, ma il responso della Pizia del blog formato Casaleggio e Associati. Pare che ne fosse in attesa l’intero mondo, come se si trattasse di una meraviglia della tecnica e del progresso.
Guarda cosa ti va a combinare la storia, uno che aveva una buona reputazione di pedagogista, dopo secoli si ritrova a prestare il suo nome ad una piattaforma digitale.
D’altra parte se si volesse immaginare un Rousseau del ventunesimo secolo non lo si potrebbe pensare che all’avanguardia della società dell’informazione.
Ma nulla cancella il sospetto nei confronti di questo personaggio che, dopo aver messo al mondo cinque figli, abbandonandoli alla carità pubblica, si fa prestare i figli degli altri e semmai te li porta in campagna, lontano dalla pazza folla, pretendendo di educarli. Educare, il termine in questo caso è usato correttamente, nel senso di condurre fuori, estrarre il buono che è in ciascuno di noi. Si sa che per il ginevrino l’uomo in natura nasce buono e che è la società a corromperlo. “Tutte le cose sono create buone da Dio, tutte degenerano tra le mani dell’uomo”. Questo l’incipit dell’ Émile ou De l’éducation. Allora eccoti la piattaforma Rousseau in cui i pentastellati compiono il lavacro purificatore della democrazia “in diretta” che riconduce l’uomo alla sua vera natura, libero dai vincoli aberranti del contratto sociale.
Di qui la loro vocazione profonda a rieducare la società politicamente degradata.

Viene da chiedersi se di fronte ai social siamo società o siamo popolo. O solo uno che vale uno. E si sa che la somma degli uno fa numero. Ad esempio 79.634 quanti gli iscritti che hanno votato al referendum sul Conte bis. Non fanno una società, al massimo un social, non fanno neppure un popolo, al massimo una popolazione.
La società si compone con lo stare insieme sulla base di un accordo, tipo contratto sociale, che prevede di rinunciare a parte della propria libertà in nome della sicurezza comune, richiede di non essere insofferenti delle regole e di rispettare le norme pattuite. Insieme si è società, da soli forse si è popolo, ognuno per sé sommato all’altro.
La democrazia rappresentativa è difficile da condividere, richiede mediazioni che il device tecnologico non pretende, appagato com’è della sua solitudine. “Macchine che non pensano, e che si fanno pensare meccanicamente” direbbe Diderot della piattaforma Rousseau. Il freudiano disagio della civiltà combattuto a suon di dicotomie: città/campagna, natura/cultura, ragione/passione, civiltà/sauvagerie, centro/periferia, fino al mito della decrescita felice.
E se scoprissimo che Rousseau era un reazionario, cosa sarebbe dei palingenetici bagni nella democrazia diretta come sale della politica? Se le nuove tecnologie sono reazionarie, da un simile ossimoro come se ne esce?

I lumi della ragione si spengono nel pessimismo rousseauiano e dei suoi seguaci. Riti e sette si ergono a mura difensive della propria individualità collettiva, nella coltivazione degli ermitage e dei giardini, che il botanico Rousseau tanto apprezzava. Comunità e convivenze fuori del tempo, apologie di vite rurali e ambientaliste, di vite pacificate dai no Tav e dai no Tap, primordialità di moderni cybernauti, ritorno agli stati natura, senza presente e senza futuro, sempre coniugati al passato. Amerindi di un’età dell’oro sognata e rincorsa, autarchie di un idillico progetto politico.
Il Rousseau reazionario del romanzo epistolare più noioso della storia “Julie ou la Nouvelle Heloïse”, 859 pagine di luoghi banali, di ameni giardini, di sentimentalismi pseudo borghesi. Heloïse, prima di morire, affida al proprio precettore, amato perbenisticamente invano, l’educazione dei propri figli.
Questa pretesa di educare gli altri, di convertire, il latente calvinismo fanno di Rousseau e dei Cinque stelle dei reazionari. Prevaricatori delle libertà individuali in nome di un preteso messaggio salvifico, decine di migliaia di adepti contro i milioni di una società libera. Libera di sbagliare, libera di camminare per le strade alla ricerca del progresso e del futuro, senza subire la coercizione della decrescita felice, del ritorno ad un mitico stato di natura che Rousseau ha sempre pensato per gli altri ma non ha mai praticato per sé, tanto da scrivere il Contratto sociale. L’idea cioè che sia possibile, senza dover necessariamente tornare allo stato di natura, costruire uno stato civile più giusto, migliore, senza chiudere porti e porte in faccia a nessuno, capace in tanto di rimediare ai danni morali e materiali in cui gli uomini ancora si dibattono: questa è la democrazia, questa è la politica.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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