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Pucci [Costumi degli italiani I]

Pucci da giovane era mingherlino, timido e anche vestito male, e andava via con la testa bassa, anche storta da una parte. Forse teneva la testa così perché aveva il cervello fuori squadra, come diceva suo padre. E il primo periodo della sua vita che mi viene in mente è quando ha avuto la terza bocciatura di fila, nella scuola dove andavo anch’io.

L’edificio doveva essere un’antica prigione o forse un antico convento, e al primo piano c’era un grande salone con soffitto affrescato, dove lassù nella volta si vedevano le fatiche di Ercole.

Sui due lati maggiori di questo che ho detto salone c’erano le porte delle aule. Ogni classe chiusa nella sua aula, dalle finestre non si vedeva il cielo ma si vedevano altre finestre di altre aule dove erano chiuse altre classi. Le femmine sempre nei primi banchi perché erano più brave dei maschi, salvo qualche maschio che era bravo come le femmine. Ah quelle teste là davanti, con le mani sempre alzate per dire qualcosa! Quelle mani facevano pensare ai cani che si alzano sulle zampe di dietro per far piacere al padrone. Pucci non ha mai alzato la mano neanche una volta in vita sua, e stava nascosto nell’ultimo banco perché non aveva niente da dire.

Il primo giorno di scuola eravamo tutti come delle bocce lanciate a caso su un biliardo, qualcuna un po’ prima e qualcuna un po’ dopo, secondo l’ordine d’arrivo nei banchi. Ma Pucci notava che gli scolari arrivati nei banchi più avanti erano quelli che andavano avanti bene negli studi, e gli scolari arrivati nei banchi più indietro erano quelli che restavano indietro. Lui si trovava all’ultimo banco insieme al compagno di nome Bordignoni, ed erano i peggiori scolari di tutta la scuola, non voglio esagerare. Se lo sono mai chiesti quei due cos’erano lì a fare? Non se lo sono mai chiesti. La scuola sembrava a Pucci un posto strano, molto strano, a cominciare dal nome, «liceo-ginnasio». Bordignoni non aveva fatto caso neanche a quello e diceva che era lì per un errore di sua mamma, che voleva iscriverlo a una scuola tecnica ma aveva sbagliato portone.

L’estate che l’han bocciato per la terza volta, Pucci andava in visita dalla compagna di scuola Veratti. Stagione al bello fisso, erano venute le vacanze e ogni scolaro circolava liberamente. Però se c’era una cosa molto chiara per Pucci, era che lui non capiva a cosa serve la scuola e di conseguenza neanche a cosa servono le vacanze scolastiche. L’unica cosa che gli piaceva era andare in giro tutto il giorno per le strade a caso, trascinando i piedi lentamente e fermandosi ogni tanto a guardare la facciata di una casa a testa in su. Girando per la città in quel modo, capitava in una strada con un portico fatto a U ribaltate, dove abitava la compagna Veratti.

Portone di legno scuro, scale di marmo, terzo piano, una servetta col pizzo apriva la porta. La Veratti era una compagna che a scuola andava benissimo, mentre Pucci era stato bocciato tante volte che nella scuola non lo volevano più. Ma lei aveva una certa simpatia per quel compagno randagio che le capitava in casa senza essere mai stato invitato; il quale tra l’altro non era gradito a sua madre, signora corrosa nei nervi, che quando doveva far un sorriso a Pucci si trovava la bocca paralizzata sul lato destro. Invece la figlia lo accoglieva con quei grandi sorrisi che allargavano il cuore, e dopo si metteva a suonare il piano per fargli sentire come suonava bene.

Ragazza ben piantata che tutti dicevano bella, la compagna Veratti oltre al pianoforte e alla bravura scolastica aveva la specialità dei sorrisi smaglianti di buona educazione. Cosa che faceva molto colpo a quei tempi, perché noi non lo sapevamo ancora che si potessero fare dei sorrisi così per niente. Per cui tante volte uno si faceva delle idee, credendo di esserle simpaticissimo, mentre magari lei non l’aveva mai guardato. Può darsi che Pucci andasse a casa sua perché caduto anche lui in quella malia? Può darsi. La ascoltava suonare il pianoforte e finita la suonata andava via senza mai aprire bocca. Va anche notato che i genitori di Pucci erano contenti che il figlio fosse ricevuto a casa della compagna Veratti, perché il papà della Veratti era l’ingegner Veratti.  

In quel momento di evoluzione della sua vita il più grande amico di Pucci era Bordignoni. È Bordignoni che gli ha ispirato la famosa constatazione, che quando uno nasce gli è già successa la quota quasi totale di quello che deve succedergli. Questo si capiva bene guardando Bordignoni che era grosso dappertutto, e aveva i denti grossi, la fronte grossa, il naso grosso, gli occhi grossi, le mani grosse, i piedi come due badili, il collo che non si distingueva dalle spalle da tanto che era grosso. Poi aveva le palpebre calate sempre a metà occhio, che non riusciva a vedere il cielo, Bordignoni. Non riesco a immaginare perché volesse andare anche lui a casa della Veratti. Forse era sempre per via dei sorrisi smaglianti di buona educazione, che avevano incantato molti compagni, e figuriamoci se non facevano colpo su di lui, ragazzo popolare del quartiere Mame.

I sorrisi di buona educazione scombussolavano completamente Bordignoni, essendo per lui delle novità assolute come poniamo il telefono per quelli della Papuasia. Comunque c’è andato una volta sola a casa della Veratti, perché lei lo trovava troppo grosso e non sopportava che dicesse sempre la sua esclamazione preferita, ogni volta che qualcosa colpiva la sua immaginazione. Il sole entrava attraverso le belle tende di lino dalle finestre di casa Veratti, e Bordignoni diceva: «Càcchioli quanto sole!». Per arrivare nella stanza del pianoforte bisognava trascinarsi i piedi nei pattìni di feltro sui pavimenti incerati, e Bordignoni diceva: «Càcchioli come si scivola!». Anche ascoltando la Veratti suonare il pianoforte aveva detto: «Càcchioli come suoni bene!». Quella è stata la sua condanna e dopo Pucci doveva andarci da solo a casa della Veratti.

Nei pomeriggi Pucci e Bordignoni pascolavano per le strade, ma non sapevano mai dove andare. Andavano dove li portavano le scarpe e Pucci stava sempre zitto. Invece Bordignoni apriva la bocca, ma solo per ripetere la sua esclamazione preferita: càcchioli qui e càcchioli là, per tutto quello che vedeva in giro. Sempre così, nonostante che le palpebre calate a mezza saracinesca gli nascondessero una buona parte del panorama. Un giorno non sapevano dove andare e hanno deciso di seguire i binari del tram, per strade che uscivano dalla città, tra quartieri mai visti, giardini con grandi alberi, villette di periferia, gente in bici, camion che passano. Vanno e vanno ma i binari del tram non finivano mai e Bordignoni diceva: «Ma dove càcchioli stiamo andando?». Però non mi ricordo come sia andata a finire quell’avventura estiva.

Invece mi torna in mente una cosa che faceva sollevare le palpebre di Bordignoni più del normale, ed erano le donne con larga conformazione di petto. Qui la sua esclamazione preferita gli sgorgava dritta dal cuore: «Càcchioli, guarda quella lì che due mammelle!». Pucci aveva capito che non c’era bisogno di rispondergli per tenere in piedi le loro conversazioni: bastava trascinare le scarpe con lo stesso passo seguendo il borboglio di esclamazioni dell’amico. Pucci lo ascoltava con la stessa tranquillità che aveva ascoltando sua madre, ossia come il ronzio d’una radio che va avanti per ore e non si sa neanche di cosa stia parlando. Nelle loro camminate estive non avevano mai niente da dirsi, ma Bordignoni ogni tanto si metteva a borbogliare.

Adesso penso a quei giorni d’avvicinamento all’estate che avevano le ombre così lunghe di primo mattino, con poca gente per strada e un’aria di stanchezza dappertutto che era un piacere. Strade assolate col silenzio dei giorni vuoti, case addormentate e pacifiche allo sguardo. E il frescolino degli androni? Tra i migliori ricordi. Qualcuno passava in bicicletta nel sole e ti sembrava di essere all’equatore. Qualcuno stava affacciato alla finestra e subito ti veniva da sbadigliare. In quei giorni si stava bene ad essere svogliati e ronzare come le mosche nelle cucine di campagna, poi trascinare le scarpe verso nessuna meta come cani che vanno a zonzo in cerca di ossi. I pensieri si scioglievano nel moto dei piedi, e uno non si ricordava più di avere un padre e una madre, di avere una famiglia, neanche di avere un nome e un cognome.
[…]
Pucci e Bordignoni avevano degli itinerari che sembravano uno scarabocchio: dalla piazza centrale alla stazione e dalla stazione ai giardinetti dietro il municipio, dai giardinetti dietro il municipio al campo sportivo, dal campo sportivo al quartiere Doro e poi indietro alla stazione e alla piazza centrale.

Gianni Celati, Costumi degli italiani I, Quodlibet, Macerata 2008, pp. 11-18

Per leggere tutti i testi di Gianni Celati su questo quotidiano, clicca [Qui]

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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