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Il mio disgraziato fratello…

I.

Il mio disgraziato fratello ha sempre avuto tante pretese nella vita, e da piccolo non mi lasciava mai in pace a volermi raccontare tutte le sue storie e sogni di ragazzo. Io non sapevo neanche di cosa parlasse, ma per calmarlo facevo quella funzione di ascoltare i suoi discorsi e di applaudirlo, in quanto ero il fratello minore. Erano bei discorsi ma un po’ lunghi, mettiamo sui transatlantici che attraversano l’equatore e gli viene il mal di mare, oppure sulle isole Molucche che un giorno gli casca addosso un monsone. Oppure sugli esploratori che vanno a esplorare i ghiacci del polo. Ma quello che gli piaceva di piú erano le avventure nei sette mari, con le giunche cinesi che vanno all’arrembaggio e poi un certo signor Jim che corre via su un’isola deserta piena di cannibali che lo vogliono fare arrosto. Il fratello la sua idea sarebbe stata di partire un bel giorno per Singapore e portarmi me come aiutante indigeno. Per questo dovevo obbedirlo e star zitto quando parla, perché mi diceva: tu non vai lontano senza di me. Mi reputava poco abile a sbrigarmela da solo casomai mi trovassi in un deserto di leoni o nella steppa accerchiato dai tartari.

Mi pronunciava certe arringhe sul polo nord e sud, per via dei libri di avventure scientifiche che si leggeva avidamente quando dal padre scacciato in soffitta, e intanto si tirava un manichetto. Forse dovevano nuocergli al cervello l’una e l’altra cosa? Credo di sí. Infatti gli è venuto il ticchio di spacciarsi per Michele Strogoff, come il Michele Strogoff corriere dello zar del celebre romanzo.

II.

Il cugino dalla testa rossa sapeva tante cose a me sconosciute, però alcune che sapevo io lui non le sa. Per esempio non aveva mai imparato a dire porcherie, e si stupiva felicissimo di quella scoperta a sentirne dire tante da me senza nessuno sforzo. A me i discorsi sporchi venivano in bocca spontaneamente, senza neanche pensarci su, e per chi amasse quella musica potevo farla durare per ore e ore […] Un altro divertimento che gli ho insegnato era questo. Andavamo in chiesa e nel confessionale dicevamo: padre voglio confessarmi. E quando il prete chiede i peccati, noi fabbricavamo una storia secondo il nostro stile preferito, ossia stile sporco lurido con tante avventure di mutande e cosce e giarrettiere che ci venivano in mente. Cosa che il padre sacerdote a sentirla, voleva da noi il massimo pentimento per non restare noi bacati per la vita. Erano solo invenzioni però, e quando ce ne inventavamo una bella allora correvamo in un’altra chiesa e gliela dicevamo a un altro prete, con piú particolari scabrosi aggiunti.  […]
Dopo due o tre chiese fatte in confessione, avevamo una storia lunga come un vero romanzo di avventure porche. E il cugino se lo stava a rimuginare nell’estasi per una settimana.

III.

Quando le due amiche non mi portavano piú con loro alla domenica io andavo ai comizi con lo zio d’Australia, che era anche piú divertente. Federico e la madre questo non dovevano saperlo, essendo contrari alla politica, ma noi lo tenevamo segreto. E andavo a mangiare dallo zio d’Australia e poi alla mattina o al pomeriggio a sentire un comizio o un discorso in piazza, che ce n’erano sempre. Quei discorsi non ci capivo niente, ma era divertente lo stesso. Perché se erano discorsi giusti, cioè di un vero comunista, allora tutti battevano le mani urlando dalla soddisfazione di sentire cose giuste e ben dette. Se erano invece discorsi sbagliati di qualche nemico servo del governo, allora il pubblico gli diceva certe battute spiritose all’oratore che c’era da crepar dal ridere, e poi non la smettevamo piú. Lo zio d’Australia si andava a mettere sotto il palco e voleva sempre interrompere un oratore del governo che sbaglia. Quando non sapeva cosa dire gli chiedeva: scusi potrebbe ripetere? Oppure delle volte intanto mettiamo che un oratore di nome Casarini stava parlando con grandi gesti per far propaganda al governo, come un governo ottimo che ama il popolo, lo zio si metteva a urlare di colpo: Casarini è chiamato al telefono.
Che quello restava confuso, doveva interrompere la propaganda. I seguaci dell’oratore cercavano di farlo tacere lo zio, ma lui non accetta ordini da nessuno, se è un servo dei padroni.

IV.

C’è anche il cugino dalla testa rossa da ricordare in questo periodo, perché anche lui era nello stesso periodo della giovinezza che ognuno comprenderà molto bene, avendolo attraversato. È un periodo di stravaganze, che vengono nella testa, e uno si preoccupa avendoci per esempio una faccia tutta storta con la bocca larga come un forno, perché si dice: come andrà a finire? E va a finire che si diventa lunghi mezzi scemi, sia per la tara di famiglia ereditata dal padre, sia per gli avvenimenti che succedono. E questo è il famoso sonno della giovinezza quando si fanno tanti sogni, e poi qualcuno riesce a svegliarsi e altri no.

Gianni Celati, La banda dei sospiri, Feltrinelli, Milano pp. 7, 79-80, 87-88, 126

Per leggere tutti i testi di Gianni Celati su questo quotidiano, clicca [Qui]

Puoi visitare l’esposizione NEL MIO DESTINO DI DISAVVENTURE PERPETUE: OMAGGIO A GIANNI CELATI presso la Biblioteca Bertoldi di Argenta fino al 31 gennaio 2022.

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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