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La testa mi martellava, sembrava avessi una corda di chitarra tesa nel cervello che costantemente veniva pizzicata provocando un suono ossessivo, maniacale. I brividi mi percorrevano la pelle, come se un treno in piena velocità mi passasse a due centimetri di distanza, il sudore mi colava sulla fronte mentre mi mordevo continuamente il labbro inferiore.

La riunione si stava prolungando più del dovuto, bisognava ancora decidere qualche particolare, ma non rilevante. La parte economica era già decisa: la casa editrice mi offrì una cifra notevole diversi milioni per pubblicare la mia autobiografia. Una bella somma che mi accontentava a pieno, anche se avevo visto molti più soldi per la pubblicazione dei miei libri, ma quella somma andava bene e il successo poi sarebbe venuto da sé.
Quello era stato il frutto dei miei sacrifici, delle mie frustrazioni giovanili in cui volevo sempre arrivare e arrivare, ma poi mi trovavo sempre lì, e anche se a scuola tutto filava liscio, avevo costantemente la sensazione di restare immobile negli anni. Poi arrivò l’università. Avvertii un senso di movimento, ma tutto durò pochi mesi, il tempo di un paio di esami.
“Bisogna studiare sodo.” Mi ripeteva mio padre.
Lui, mio padre, era un contadino ed era il classico buon padre che si fa in quattro per promettere un futuro migliore ai figli, ed io, di mio padre contadino ero l’unico figlio, sul quale scaricare tutta la sua costernazione di umile uomo, dalle spalle curve, il volto rigato e i calli alle mani.
Sarei dovuto diventare io il suo successo personale, questo mi ripeteva, nonostante mi portasse nei campi, anche in piena estate, anche pochi giorni prima dall’esame, anche pochi giorni dopo l’esame.
“Perché bisogna lavorare.” Ripeteva “la vita è difficile e non bisogna mai starsene fermi, altrimenti si cade.”
Quando alla fine mi laureai, con il massimo dei voti, finalmente riavvertii quel senso di movimento, ma anche allora mentre aspettavo il lavoro, lui mi portava ancora nei campi.
“Questi sono gli ultimi sforzi che farai per me” diceva.
I racconti, li incominciai a scrivere già ai tempi delle medie, prima ancora erano solo frasi e presunte poesie, poi man mano che crescevo, mi venivano fuori pezzi più lunghi, ed ogni volta che finivo di scrivere l’ultimo, dicevo: “Questo è il più bello.”
Lo dissi di tutti, poi persi questa convinzione quando iniziai a farli leggere ai miei professori, che li commentavano in questo modo.
“Buona l’idea, ma scritto con i piedi, allenati e vedrai che migliorerai.”
Avrei voluto dirglielo ai professori, che non avevo tempo perché mio padre mi portava a lavorare nei campi.
Avrei voluto dirlo a mio padre che non avevo tempo per i campi, perché dovevo allenarmi per la scrittura.
Continuai a scrivere nei ritagli del tempo, poche pagine alla volta. Spesso mi veniva l’ispirazione proprio nel bel mezzo dei campi, cercavo di ripetermi la storia in continuazione nella mente, subito mi sembrava brillante, e non vedevo l’ora di riportarla su carta, poi quando arrivavo a casa e mi mettevo alla scrivania con carta e penna la storia era volata via, oppure man mano che andavo avanti mi accorgevo che veniva fuori tutt’altro rispetto a ciò che avevo in mente.
Non glielo rinfacciai mai a mio padre di tutte quelle storie che avevo perso lì nei campi, anche se lo avevo pensato miliardi di volte, aspettavo solo l’occasione, magari dopo essere diventato uno scrittore famoso, forse glielo avrei detto.
A questo pensavo quella sera…

Stavo davanti alla tv. Tarantino sfoggiava la sua genialità con quelle scene di Jackie Brown.
Quella lentezza nei primi piani di lei, Jackie. Oppure, le camminate da paraculo di Ordell. Lento ma bello, pensai. Bello perché bisogna godere su certi primi piani. Ed io godevo.
Fermai le immagini, mi alzai per andare a prendere la pistola, la impugnai e la puntai contro l’immagine fissa al televisore dell’agente che interroga Jackie. L’immagine non era nitida, c’era quella maledetta riga che faceva su e giù per il televisore.
Corsi verso il divano, mi ci buttai su e rotolando puntai la pistola contro la televisione, imitando lo sparo della pistola.
Era una cosa che facevo sempre da bambino, ma allora lo facevo con le pistole giocattolo.
“Adesso la vita è cambiata” pensai.
Poi uscii di casa.

A questo pensavo quella sera: rinfacciare a mio padre tutte quelle storie che avevo perso per stare dietro a lui a coltivare i campi.
Non lo avrei certo fatto, non adesso. Adesso sono uno scrittore di successo, ma chissà se fossi diventato uno qualunque se ne avessi avuto il coraggio, credo proprio di sì, del resto come sarebbe stato capace lui se oggi non fossi quello che sono.
No, non c’è motivo per accusarlo ora, che dopo anni e anni di sacrificio sono diventato quello che volevo. Scrivo, ho successo e tanti soldi, una casa in città, una al mare e un’altra in montagna, con tanto di moglie e figli felici. Sono l’orgoglio di famiglia, me ne rendo conto alle cene di Natale, quando tutti i miei parenti mi guardano con occhi conquistati.
Mi fermai al semaforo.

Aveva una macchina da capogiro, grigia metallizzata. Se ne vedono pochissime in giro e avevo letto su una rivista di automobili che costava un mucchio di soldi.
Era ferma al semaforo.
Attraversai la strada deserta, fu una fortuna che non ci fosse nessun’altra macchina nei paraggi.
C’era un uomo al volante.
Un uomo ricco pensai.
Mentre attraversavo la strada, alzai la mano destra, facendogli segno di aspettarmi.

“Cosa diavolo vuole questo.” Dissi a voce bassa.
Mi guardai attorno, non c’era anima viva ed ero indeciso se tirar giù il finestrino o ripartire. Alla fine, mi decisi e abbassai il finestrino.
“Sì?”

Quello stronzo era riluttante, non si fidava.

“Sì?”

“Buonasera, mi si è fermata la macchina, potrebbe darmi un passaggio fino al self-service? È qui, a pochi chilometri!”
Ci pensò per qualche attimo.
“Ci impiegheremo solo pochi minuti, la prego.” Insistetti.
Poi l’uomo accettò, ma si vedeva lontano un miglio che non era sicuro della sua scelta.
“Un attimo solo, vado in macchina a prendere una tanica per metterci la benzina. “Dissi allontanandomi.

“Non è stata affatto la scelta più intelligente che potessi fare” dissi tra me.
Guardai quell’uomo avvicinarsi alla sua macchina, stava aprendo il portabagagli, tirò fuori qualcosa.
Sembra tranquillo, non dovrebbe crearmi problemi, pensai.
“Anche se una macchina del genere potrebbe fare gola a chiunque” dissi. Poi mi diedi un pugno sul volante “perché cazzo ho accettato.”
Guardai oltre il finestrino.
Potrebbe essere chiunque, pensai ancora.
“Devo andare. Vado via.”
Feci per mettere in moto e lui era lì, a due passi dalla mia macchina, con in mano un recipiente. Feci un balzo quando lo vidi.

Gli stronzi si trovano sempre, pensai, mentre ritornavo verso la mia macchina. Aprii il cofano, lanciai uno sguardo verso la mia vittima, e lui era lì, a fissarmi. Ero sicuro che avesse paura e che era tentato di scappare.
Passavano poche macchine quella sera.
Presi il recipiente che avevo sempre in macchina per recitare in velleità del genere, poi feci ritorno verso il riccone con la macchina grigia metallizzata.
Aveva paura, di questo ne ero certo. Quando mi avvicinai alla sua macchina stava mettendo in moto e scommetto non per partire con me.
Gli piombai di fianco alla macchina e trasalì quando mi vide comparire. Questo confermò che aveva paura.
Feci il giro della macchina e salii a bordo.
“Hey amico, ti ho spaventato, scusami non volevo” dissi “comunque ti ringrazio, da queste parti è difficile che qualcuno si fermi, del resto non è che abbiano tutti i torti visto i delinquenti che ci sono oggi giorno, sfido chiunque a non avere un po’ di paura”

Appena entrò nella macchina iniziò a parlare, non capii esattamente cosa dicesse, avevo paura, e ne avevo ancora di più dal momento in cui me lo ero visto piombare davanti al finestrino in quel modo.
Non partii subito, e quando lo feci non ero sicuro di aver preso la strada giusta.

“Comunque io mi chiamo Samuel” mi presentai.

“Piacere Enrico” risposi.

“Mi sembra di averti già visto da qualche parte” dissi.

“Può darsi, forse in giro. Credo.”
Mi ha detto il suo nome, ma scommetto che non è quello vero.

Mica uno che chiede un passaggio di notte è necessariamente un malintenzionato.
I pensieri mi fluttuavano nella mente senza un discorso coerente. La paura si mostrava a tratti generosa a tratti misera, ma sempre egoista.

“Ma certo! tu sei lo scrittore Enrico LaMonica.”

Annuii sorridendo. Non sapevo se questo potesse essere un punto a mio favore oppure il contrario.

“Ho letto il suo ultimo libro, Storie di pomeriggio, davvero bello, rilassante.”

“Trova?” chiesi. Ma in realtà in quel momento non me ne fregava assolutamente nulla di cosa potesse pensare del mio libro.

“Certamente, l’ho letto durante le vacanze estive, sul balcone della mia camera d’albergo, al sole e con davanti il mare. È così che quel libro va letto.” Raccontai. “Ed è piaciuto anche mia figlia, anche lei lo ha trovato davvero bello. Complimenti.” Aveva paura, glielo si leggeva negli occhi e in quel suo ostinato silenzio. Chissà se pensava che io potessi essere un delinquente o un uomo per bene.
“Mi sa che hai sbagliato direzione” dissi.

“Che stupido, non me ne ero accorto.”

Che affermazione del cazzo, pensai nella mia tranquillità di conduttore di quella storia a fine perverso. Fece marcia indietro e una piccola manovra per ritornare sulla giusta strada.

È davvero intenzionato ad andare al distributore.
Forse è realmente rimasto a piedi, ed ha bisogno di aiuto.
Forse…

Arrivammo al Self-service qualche minuto dopo. Guardai Enrico, sembrava più rilassato. Adesso non aveva più paura. Al distributore automatico c’erano quattro macchine, erano troppe e bisognava stare calmi.

Quando arrivammo al Self Service per mia fortuna c’erano altre persone. Mi sentivo più leggero, anche per via di quella luce bianca che emanava la grande insegna.
Scese dalla macchina in attesa del suo turno.
Fu molto veloce nelle sue operazioni mentre con gli occhi cercava di guardarsi attorno. Me ne accorsi.
Era assurda quella situazione, mi sembrava davvero una lotta contro il tempo, con la speranza che arrivasse qualcuno che dovesse fare gasolio dopo di lui, come se sapessi con certezza che quell’uomo era davvero un male intenzionato.
Buttai via questo pensiero, anche se mi fece sentire per un attimo al sicuro.

Cercai di fare più presto possibile, non pensavo molto in quei frangenti, ma sapevo che lui si stava scervellando, perché lui lo sapeva che io ero un assassino.
“Ecco fatto.”

“Ecco fatto.” Disse.
Quella sua voce ogni volta mi faceva tremare, nei miei pensieri.
Tornammo in macchina, feci per mettere in moto.

“Dì, come ci si sente?” chiese a bruciapelo.
“Cosa?”

Tirai fuori la pistola.
“A sapere di avere i minuti contati.”

Mi puntava la pistola alla tempia, era fredda, ed io sudavo.

“Già stai sudando. Allora, come ci si sente.”

“Male.”

“Ma già lo avevi intuito? Vero?!”

Annuii.

“Allora perché mi hai dato il passaggio.”

“Non lo so.”

“Coglione.”

“Bastardo!”

Sorrisi.

Tremavo.

Aveva paura e mi sentivo soddisfatto.
Un colpo in pieno cervello spiaccicato contro il vetro della macchina da ricco scrittore di successo, borghese e seduto, soddisfatto della propria vita.

“Mi dispiace per te.”
Gli dissi poco prima di bergli d’un fiato la vita.

Io. Bambino felice. Di sogni già fatti ma che dalle mie parti ancora dovevano vivere.
Io. Ragazzo, nei campi insieme a mio padre contadino, a lavorare, a sgobbare per una vita, per arrivare ad una vita che ho sempre sognato.
I sogni, la scuola e l’università. I primi racconti mai pubblicati, le corse a casa per scrivere quello che mi era nato dentro mentre lavoravo nei campi. Storie perse e storie raccontate ogni giorno. Poesie tra i banchi di scuola. Poesie scritte alla fermata dall’autobus.
La laurea, i successi, i primi racconti, i complimenti. Mia moglie felice insieme a me, con le mie figlie. Una sera.
Quella sera avevo firmato il contratto per pubblicare la mia autobiografia, ma mancava ancora l’ultimo capitolo da scrivere, quello non scritto da me.
Ma più che un capitolo poteva essere una poesia. L’ultima poesia. Una poesia per la fine del libro che racconta la mia vita.
Ed una sera un maniaco la scrisse. Scrisse la poesia più bella della mia vita. Non tra i banchi di scuola, non alla fermata dell’autobus, ma al capolinea della mia vita.

* * *

Non avevo un criterio definito nello scegliere le mie vittime, anche se l’istinto mi portava verso quelle che apparentemente sembravano persone benestanti.
Non era certo per una questione di invidia, del resto io ero soddisfatto della mia vita e di tutte quelle opere che compivo in quelle sere. Opere, certo, la mia era arte.
Arte dell’uccidere.
Arte nel dare la morte a chi ne era degno.
E nessuno mai aveva parlato di serial killer.
Dopo aver compiuto un’opera, dopo essermi liberato del cadavere e dopo aver appreso l’identità della vittima, cercavo di conoscere più a fondo quella che era stata la vita della persona uccisa, cercavo di capire chi fosse, cosa faceva nella vita, il suo passato, i suoi trascorsi, le abitudini come una perversa mania, come un voler confermare a me stesso che forse quella vita, di quel finale era degno.
Mi segnavo tutto su un diario, il nome e cognome, dove abitava, il suo lavoro, se aveva figli, se fosse sposato oppure no e una volta soddisfatta la mia curiosità prendevo quegli appunti e gettavo tutto nel fuoco del camino. L’unico di cui non ebbi mai notizie fu la mia ultima vittima. Lo adocchiai una sera umida, i vetri delle macchine appannate e i marciapiedi della città zuppi e scivolosi. Aveva i capelli lunghi fin poco sopra le spalle e indossava un paio di jeans scoloriti, un maglione largo che si intravedeva sotto il cappotto lungo e nero, ai piedi un paio di clarks marrone chiaro.
Uscii furioso da quel locale, la musica a tutti volume mi infastidiva, l’aria consumata dal fumo delle sigarette pure.

“Adesso mi sentiranno.” Dissi.
Camminavo piuttosto velocemente e respiravo a ritmo elevato. Era una serata umida e i vetri delle macchine erano appannati. Ero troppo nervoso e nonostante i miei vestiti fossero impregnati dal fumo del locale decisi di fermarmi a fumare una sigaretta. Mi appoggiai con la schiena ad una macchina rossa su cui avrei lasciato la sagoma del mio culo sulla portiera. Sfilai una sigaretta dal pacchetto e l’accesi mentre davanti mi passavano decine di persone.
Sbuffai il fumo che andava a contrastarsi con quello causato dalla differenza di temperatura. Mi guardavo a destra e a sinistra nervosamente, poi decisi di tornarmene a casa. Feci qualche passo e poi buttai la sigaretta per terra.
Infilai le mani nelle tasche del cappotto per ripararle da quell’umidità bestiale che mi entrava nelle ossa. I capelli lunghi e il calore del locale invece mi facevano sentire la testa e le orecchie infuocate. Camminavo guardando fisso a terra, lo sguardo accigliato e pensavo che gliene avrei dette quattro a quei figli di puttana.
“Me la pagheranno cara” dissi a voce bassa “bastardi!”

Camminava con passo frenetico e facevo fatica a stragli dietro, poi si appoggiò ad una macchina rossa e si accese una sigaretta.
“Mi sa tanto che ha un appuntamento e non si fa nulla” pensai.

Era piuttosto agitato e voltava la testa una volta a destra e una volta a sinistra.
“Ti è andato qualcosa storto.” Dissi tra me.
Poi all’improvviso si staccò dalla macchina rossa e riprese a camminare con passo svelto. Non guardava dove andava, probabilmente non aveva una meta prefissata e decisi di seguirlo. Svoltò in una stradina a sinistra e lo persi di vista. Attraversai la strada di corsa per cercare di raggiungerlo, era lontano ma lo vedevo, corsi a piccoli passi, poi quando gli fui di nuovo vicino ripresi a camminare.

Non mi davo pace, quei figli di puttana mi avevano preso per il culo, credevano che io fossi un coglione, credevano che io fossi uno qualunque.

Tagliò ancora per altre stradine.

“Figlio mio, potevi prendere la macchina” dissi col fiatone.

Mi ero avvicinato abbastanza da non perderlo più di vista, abbastanza da capire con certezza che era davvero furioso.
Continuai a pedinarlo, aveva rallentato e mi avvicinai troppo, cercai di rallentare, ma mi divenne difficile mantenere un equilibrio di distanza.

Avvertii qualcuno alle mie spalle.

– È uno di loro, mi stanno pedinando – pensai – cosa cazzo vogliono da me?!

Rallentai per capire se mi seguisse, rallentò anche lui, feci qualche altro passo, lo sentii troppo vicino e accelerai di colpo, sentii l’uomo dietro di me mormorare qualcosa, aguzzai le orecchie, ma non percepii nulla.
Il fiatone mi appesantiva nei movimenti e i capelli umidi mi confondevano le movenze dell’uomo che mi inseguiva.

Si è accorto di me.
Ha paura.
“Dove cazzo sei diretto?!” dissi a voce bassa.
Stava andando troppo in là. Mi voltai. Era una stradina deserta e buia, alzai la testa, dalle poche finestre non sbucava nessuno. Era la situazione adatta. Mi rivoltai verso il ragazzo ma quel bastardo non era più davanti a me.

Ero indeciso se voltarmi oppure no, avevo paura di confermare il mio timore ma era l’unico modo per sapere come comportarmi. Alla fine con qualche sforzo, mi girai.
L’uomo dietro di me guadava verso l’alto. Questo non confermò la mia paura, ma mi venne istintivo allungare il passo per svoltare l’angolo.

Corsi e feci appena in tempo a vedere il portone chiudersi, mi ci buttai contro per non farlo chiudere, caddi per terra, ma ci riuscii. Entrai.
Sentivo i suoi passi rimbombare nella tromba delle scale.

In un attimo mi ritrovai nel palazzo in cui abitavo, diedi uno spintone al portone per chiuderlo, ma non ci riuscii data la sua pesantezza di vecchio portone d’epoca. Salii le scale non troppo di fretta perché stando lì dentro avvertivo una certa sicurezza.

Era sicuro del luogo, mente salivo le scale lanciai un’occhiata al piano di sopra e lui era lì che camminava pacatamente. Non sapevo se lui abitasse in quel palazzo o se quello fosse solo un rifugio momentaneo. Decisi di rallentare il passo, cercando di non far percepire i miei passi. Mi accostai il più possibile al muro come fossi una sardina. Feci qualche passo, poi lanciai uno sguardo verso l’alto.

Mi stavo avvicinando al mio appartamento. Lo stato di sicurezza paradossalmente era terminato, adesso che ero vicino al posto più sicuro, avvertii paura. Paura che lui fosse lì dentro con me, pronto a farmi chissà cosa. Come prima, anche adesso avevo paura di voltarmi per sapere la verità, ma riuscii solo a gettare uno sguardo nella tromba delle scale. Sembrava non esserci, ma questo non mi rese affatto più sicuro.

Mi avvicinavo sempre di più. Mi cercava, con gli occhi e con le orecchie, lo si capiva dai suoi atteggiamenti apparentemente tranquilli. Cercai di controllare il respiro affannato, gonfiavo i polmoni più che potevo e buttavo fuori l’aria lentamente. Poi ripresi a salire con passo silenzioso ma svelto, piccoli passi in punta di piedi.
Poi mi ritrovai a pochi scalini da lui, non se ne era accorto ma non potevo sparargli in mezzo alle scale, il rimbombo avrebbe svegliato tutto il quartiere.
Vidi quel bastardo avvicinarsi ad una porta.

Infilai le chiavi nella serratura, girai la chiave e aprii la porta. Appena vidi i primi mobili dell’ingresso mi sentii più forte e sicuro. Con uno scatto velocissimo entrai in casa, feci per chiudere la porta ma si frenò seguito da un suono sordo. Dopodiché mi trovai scaraventato per terra.

Stava aprendo la porta, quello era il momento giusto. Fu veloce, ma io lo fui più di lui. Mentre chiudeva la porta piantai la pistola tra la porta e il muro per bloccarla. Lui dall’interno ne fu sorpreso e mi bastò una spallata per spalancare la porta e ritrovarmi all’interno della casa.
Lui era lì, a terra.

Mi piombò davanti con una forza impressionante. Rimasi immobile per alcuni secondi, mentre guardavo fisso negli occhi l’uomo che avevo davanti.
Non lo conoscevo, quei figli di puttana avevano mandato qualcun altro pensai.

Aveva una paura fottuta e mi guardava con occhi pieni di terrore. Gli puntai la pistola contro e con un calcio chiusi la porta. Nel frattempo, lui fu agile nel muoversi.

Mi puntò la pistola contro, era lì per uccidermi quel figlio di puttana. Perché, mi chiesi. Sentii un rumore e d’istinto rotolai e aggrappandomi ad una sedia mi rialzai. Mentre mi muovevo mi aspettavo da un momento all’altro un colpo di pistola.

Non avevo intenzione di ucciderlo subito, del resto non poteva sfuggirmi.

Non sentii nessuno sparo. Pensavo a cosa potessi fare. Adesso eravamo uno di fronte all’altro, lui aveva la pistola in mano ed io ero disarmato.

“Non ce la farò” pensai.

Sentii che quella era la fine, ma qualcosa dovevo pur farla. Respiravo con affanno e la fronte mi grondava di sudore. Sul mobile alla mia destra c’era un vaso. Non ci pensai due volte, fui una molla.
Con il palmo della mano spinsi il vaso contro l’uomo che avevo di fronte.

Ecco cosa si prova ad avere davanti una tua vittima inerte: comodo piacere.
Sì, comodo piacere. Lui era lì, di fronte a me, disarmato. Aveva paura. Tremava, e quelli erano i suoi ultimi attimi di vita.

Il vaso gli fini addosso e poi per terra in frantumi. In quell’arco di tempo corsi verso la camera da letto, chiusi velocemente a chiave e mi diressi al comodino. Ne tirai fuori una pistola.

Il vaso di ceramica mi piombò addosso. Fui colto alla sprovvista, e in una frazione di secondo avevo intravisto il suo movimento ma i miei riflessi non furono felici.
Quando rialzai lo sguardo, l’uomo era sparito. Mi addentrai nel corridoio e sentii una porta chiudersi a chiave.
Mi avvicinai verso la porta da cui provenivano i rumori e senza rincorsa ma con molta decisione diedi una spallata alla porta che crollò in attimo.

…LA MORTE

“Accadde tutto ad una velocità estrema.
Erano uno di fronte all’altro nella medesima posizione: gambe divaricate, pistole puntate contro e braccia protese in avanti.
Tutto durò un attimo d’istante di una vita protesa verso la fine.
Senza calcoli e senza sentenze ognuno provocò la morte dell’altro.
Uno di fronte all’altro come se una vita si buttasse nelle braccia dell’altra per abbracciarmi.”

Non si sono mai amati, eppure sono sempre stati lì, il mio equilibrio e la mia instabilità. Sembravano perfetti.
Un connubio perfetto.
Fatto apposta per rendere una persona consapevole dei propri errori inconsciamente volontari.
Ed io ero consapevole di essere bilanciato e squilibrato al tempo stesso e questi sono i due estremi del mio modo di essere.
Ma tra due estremi c’è sempre in mezzo una parte vuota.
Ed io tra i due me, me ne stavo in mezzo.

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Vincenzo Contreras


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

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