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di Emilia Graziani

Da LONDRA – Entro in uno dei pochi pub che sono rimasti autenticamente inglesi, di quelli periferici con il bancone di legno scuro, lucido, dichiaratamente appiccicoso e l’aria buia e impregnata dell’odore grasso di fish and chips, che qua è buona norma mangiare a tutte le ore. Mi siedo su uno dei tanti sgabelli che si affacciano sul bar e inutilmente cerco di attirare l’attenzione del giovane barista che sta annegando in un mare di ordini e birra.
Alla mia sinistra quattro ragazzi in jeans e maglietta parlano a voce molto alta, sono di fianco a me ma non capisco ciò che dicono se non per un occasionale vale o cerveza che li identifica come spagnoli; alla mia destra un uomo grassottello sulla cinquantina, palesemente inglese, tracanna l’ultimo sorso della sua birra mentre carica di tabacco la pipa e borbotta tra sé e sé parole a me incomprensibili.
Finalmente il barista si accorge di me. Ripasso mentalmente le regole della pronuncia e con il mio migliore accento londinese chiedo una pinta di Camden Hells. La reazione a cui ormai sono abituata non tarda ad arrivare: “Scusa, sei italiana? Ma dai, anche io. Di dove sei?”

Sono a Londra da tre mesi per seguire un corso di giornalismo e onestamente ho avuto troppe poche interazioni in inglese per rendermi conto di essere in Gran Bretagna.
Ho conosciuto e ascoltato le storie di ragazzi diplomati, laureati, specializzati che sono scappati tanto da paesini di provincia quanto dalle grandi città e si sono trasferiti in terra albionica con la speranza di fare “qualcosa, qualsiasi cosa”. La sensazione è che venire a fare il cameriere a Londra non sia più il rito di passaggio destinato a concludersi con la fine dell’estate che era fino a quattro-cinque anni fa. Oggi è una richiesta di speranza e di indipendenza a una città che inspiegabilmente sembra in grado di accogliere e dare lavoro a tutti quelli che dimostrano di avere buona volontà.
O almeno questo è quanto appare dall’esterno.

Per quanto possa suonare strano per una nazione che si è costruita su commercio e colonialismo, la Gran Bretagna si sta evolvendo in maniera nettamente protezionistica: fedeltà alla sterlina, nessun senso di appartenenza all’Europa (quante volte ho sentito i locals dire “voi europei”) e sconfinato orgoglio per il Made in Gb, che si parli di oggetti o di persone.
L’abbondante flusso di immigrati, polacchi in primis, ma di certo non mancano giovani dai Piigs, sfocia nel lavoro manuale e commerciale, che, pur essendo considerato con più rispetto che in Italia, non è l’obiettivo primario dei tanti “cervelli in fuga”.
Il messaggio negli annunci di lavoro della maggior parte delle grandi aziende inglesi è sottile, ma chiaro: per essere considerato idoneo, il candidato deve essere madrelingua e cittadino europeo. Facile dedurre che questi criteri includono unicamente gli abitanti del Regno Unito, con buona pace dei tanti laureati eccellenti dal resto d’Europa.

La buona notizia è che almeno nella terra d’Albione il tanto familiare essere “troppo qualificato/a” non pare essere un problema. Quindi, fedele al motto “fatta la legge, trovato l’inganno”, un giovane straniero, seppur con fatica e affrontando tanta competizione, può sperare di riuscire a entrare nel mondo del lavoro britannico frequentando corsi e master in Inghilterra e tentando di inserirsi nelle aziende tramite tirocini e collaborazioni “per arricchire il curriculum”.
Con questo non voglio scoraggiare nessuno dal mettere la pergamena di laurea o del diploma in valigia e imbarcarsi sul primo volo per Londra. Sarebbe terribilmente ipocrita da parte mia. Però è bene sapere che, una volta atterrati, non ci si trova nel paese dei balocchi dove tutto è facile o diverso dalla madrepatria. Più a lungo si vive in Gran Bretagna, più si notano atteggiamenti e situazioni simili al mondo del lavoro italiano.

A tutti coloro che aspirano a venire a Londra per trovare lavoro, dico: non abbiate paura a rimettervi a studiare, a offrirvi per uno stage non pagato, a proporvi per una posizione “inferiore” alla vostra qualifica o a essere il 1200esimo candidato per 4 posti di lavoro.
Londra non è la terra promessa, ma delle promesse noi italiani abbiamo imparato a non fidarci da un pezzo.

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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