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Di questi tempi di clausura che molti definiscono come ‘tempo sospeso’, faccio molta difficoltà ad ordinare le idee, che mi si accavallano in pensieri sovrapposti e a cui tento, con grande sforzo, di dare un ordine logico. Sarà dovuto alla mancanza di contatto con altre persone che, solitamente, con la loro fisicità, mi aiutavano a dare confini all’indefinito dello spazio. O forse al fatto che la realtà, pur restando sempre complessa, nella singolarità della condizione a cui questa pandemia costringe il mondo, mostra la mancanza di un pensiero complesso che di questa realtà sappia essere specchio e descrizione. Provo a trovare il bandolo delle mie riflessioni, per capire cosa stia succedendo e pensare ad una possibile via d’uscita.

Intanto, questa situazione, questa crisi in quanto tale, conferma, secondo me, che la definizione di complessità che mi sono data è quella che più mi permette di capire il momento attuale. Cioè che la complessità non è un insieme di giustapposti avvenimenti e circostanze, ma è un momento di sintesi che comporta un salto di qualità da cui solo si può comprendere ciò che è accaduto, a patto, però, di leggerlo da quel punto di novità.
Non si può pensare che una città sia la somma dei suoi edifici più la somma dei suoi abitanti più la somma delle sue strade, dei suoi ponti e parchi. La città è più complessa di una semplice somma e, per capirla e coglierla nella sua complessità, occorre salire sulle montagne e guardarla da un punto di vista nuovo, con l’orizzonte di fronte a sé.

Un fatto emerge, ed è anche, a mio avviso, in parte causa di questa crisi: siamo tutti inesperti circa la simultaneità (e perciò anche complessità) che sperimentiamo oggi tra la realtà dei fatti che avvengono nel mondo e l’informazione globale, e credo che dovremmo avere l’umiltà di ammetterlo.
Nessuno sa ancora con chiarezza cosa significhi vivere nel mondo in modo simultaneo. Un mondo in cui ciò che avviene in ogni suo punto, influenza direttamente e simultaneamente ogni altra parte del pianeta. Non solo come conoscenza scientifica o generica informazione, ma come esperienza diretta. Non c’è esperienza, non c’è linguaggio, non c’è pensiero su questa complessità.

Dovremmo fermarci a riflettere per sviluppare la cultura della complessità.
Questo implica un cambiamento radicale: a livello politico ogni paese come l’Italia dovrebbe, e anche urgentemente, elaborare progetti di governo che abbiano almeno la dimensione dell’Europa. L’Europa dovrebbe pensarsi almeno a livello intercontinentale e così via per arrivare in futuro a pensare a come poter governare l’intero globo.
Dobbiamo essere consapevoli che è un processo che richiede tempi di crescita insopprimibili. Un processo di apprendimento durante il quale è fondamentale mantenere i punti di riferimento della democrazia e dei diritti umani già conquistati. Abbiamo sufficiente creatività per poterlo fare.
Tutto ciò che c’era prima, è solo il punto di partenza, ed è insufficiente e inadatto alla nuova realtà che dobbiamo costruire. Tutto quello che manca è da reinventare.

Un ambito in cui gli operatori devono prendersi urgentemente un momento di riflessione è il mondo dell’informazione. Un mondo che utilizza gli strumenti tecnologici che sono il mezzo per cui si vive questa condizione di simultaneità ed è quindi direttamente coinvolto in questa trasformazione.
In questa contingenza, i giornalisti hanno dimostrato di non rendersi conto dell’effetto che la simultaneità dell’informazione produce sugli avvenimenti che accadono nel mondo. Hanno raccontato l’epidemia come se fosse uno scoop, un’indagine giornalistica da Premio Pulitzer. Avrebbero, invece, potuto e dovuto prepararci ad affrontare quello che sarebbe capitato a noi in tempi brevissimi. Non hanno potuto farlo perché, a loro come a noi, manca ancora l’esperienza della simultaneità. Il rapporto tra la notizia e la ricaduta sulla realtà complessa è responsabilità del professionista dell’informazione; poiché è questo che fa capire il valore trasformativo della notizia, nel bene e nel male.

L’altro elemento che mi ha fatto riflettere molto su ciò che è avvenuto è che l’informazione istantanea si sia fusa con i comunicati degli scienziati che volevano informare su cosa stesse succedendo. Solo che ciascuno raccontava la verità scientifica che la sua propria specializzazione gli faceva conoscere come verità assoluta, mentre era una verità solo parziale: col risultato che le informazioni sono entrate in contraddizione proprio perché comunicate simultaneamente. Questo ha prodotto sia confusione, nei più informati, ma soprattutto sfiducia o paura nelle persone comuni, finendo così per ridicolizzare la scienza: togliendo la percezione del pericolo o, al contrario, aumentando la psicosi. In questo particolare caso, l’ossessività dell’informazione ha amplificato l’informazione stessa, ma al contempo non ha lasciato lo spazio per riflettere sulle implicazioni del fatto. Ha provocato da una parte estraneità e dall’altra panico e questo ha avuto un effetto devastante sulla vita dei popoli dei vari paesi coinvolti.

Tutti noi dobbiamo imparare a non pensare alla scienza come se fosse magia; non dobbiamo pretendere che predica il futuro: anche la scienza è un processo di conoscenza che si sviluppa in un tempo. Il compito della scienza è conoscere la natura e la natura umana e come mettere in relazione, e non in conflitto, queste due complessità. Per fare questo, deve renderci consapevoli che la conoscenza fortemente specializzata della cultura scientifica ha bisogno di mettersi in relazione con tutte le altre specializzazioni per avvicinarsi alla descrizione della realtà. Questo traguardo è la responsabilità della scienza.

In ultimo, mi fa sempre meraviglia che, nonostante sia evidente che il mondo della scuola e  dell’educazione, della ricerca, della cultura e dell’arte abbiano permesso e continuino a permettere che la società non cada nel caos e nella violenza, i governanti non pensino di metterle al primo posto nel programma di investimenti e sembra non abbiano cura nel farne oggetto di un massiccio progetto di investimento e di sviluppo. Come non capire che scuola, ricerca e cultura, come ambito, hanno lo stesso valore prioritario per la sopravvivenza della civiltà e della qualità della vita, alla pari del primato della necessità delle produzioni alimentari?
Mi chiedo quando i politici capiranno che l’unico strumento di sviluppo per la società è investire in modo prioritario nel fornire strumenti di riflessione e di consapevolezza della vita, nel vasto mondo della cultura. E mi rispondo che ci vuole per prima cosa il coraggio. Il coraggio di considerare prioritaria l’educazione alla conoscenza di sé e del mondo come strumento per sapersi relazionare e vivere una vita degna di essere vissuta. Il coraggio di prendere coscienza del fatto che solo così, potranno esserci davvero pace e prosperità per tutti.

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Grazia Baroni

Grazia Baroni, è nata a Torino nel 1951. Dopo il diploma di liceo artistico e l’abilitazione all’insegnamento si è laureata in architettura e ha insegnato disegno e storia dell’arte nella scuola superiore durante la sua trentennale carriera. Ha partecipato alla fondazione della cooperativa Centro Ricerche di Sviluppo del Territorio (CRST) e collaborato ad alcuni lavori del Centro Lavoro Integrato sul Territorio (CELIT). E’ socia e collaboratrice del Centro Culturale e Associazione Familiare Nova Cana. Dal 2016, anno della sua fondazione, fa parte del gruppo Molecole, un momento di ricerca e di lavoro sul bene, per creare e conoscere, scoprendo e dialogando con altre molecole positive e provare a porsi come elementi catalizzatori del cambiamento. Fra i temi affrontati dal gruppo c’è lo studio e dibattito sulla Burocrazia, studio e invio di un questionario allargato sulla felicità, sul suo significato e visione, lavori progettuali sulla felicità, in corso.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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Francesco Monini
direttore responsabile


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