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Mese: Novembre 2013

taverna

Linguaggio da Taverna, “meglio chiudere il Senato”

Gli onorevoli Gasparri e Gelmini sono concordi: il fatto che in Senato ci sia una persona come la capogruppo 5 stelle Paola Taverna è un motivo in più per abolire quel ramo del Parlamento. Che ha combinato la senatrice Taverna per fare infuriare i suoi colleghi di Forza Italia? In un comizio di paese ha affermato che è tentata dallo sputazzare Berlusconi. Dissentire dal colorito lessico della Taverna è certamente legittimo.
In Senato e alla Camera in questi anni sono circolati cappi e mortadelle e si sono inscenati atteggiamenti tali far arrossire i padri costituenti e tutti coloro che ancora credono nella dignità delle istituzioni. Ma se questo capita la responsabilità è degli individui. Quando in casa c’è sporco si fa pulizia, non si bombarda la casa per eliminarlo.
D’altra parte l’idea di chiudere un’assemblea democratica perché al suo interno si esprimono opinioni non gradite non è neppure una trovata originale. Qualcuno già ci aveva pensato e lo aveva fatto nel ’25 e il ventennio che ne è seguito non è stato per l’Italia un fulgido esempio di democrazia e libero confronto.

studenti unife

Ferrara vista dai “fuori sede”, una rassicurante bomba inesplosa

di Alessandro Oliva

Rassicurante, tranquilla, a misura d’uomo. Ma anche una bomba inesplosa o “una periferia”, cioè un luogo distante dal palpitare della vita. Ferrara, vista con gli occhi di chi studia qui, appare così, nella sua ambivalente dimensione. Sede universitaria sin dal 1391, da una quindicina d’anni si è consolidata nell’immaginario collettivo come una “città per studenti”, evidentemente attratti da un ateneo che attualmente offre ben 50 corsi di laurea. Gli iscritti si attestano, secondo dati recenti, a 17.961, il 37% dei quali rientra nella categoria dei fuori sede. Ma chi sono i “fuori sede”? Ragazzi e ragazze provenienti da altre località che risiedono più o meno stabilmente a Ferrara per motivi di studio e popolano gli appartamenti del centro storico, riempiono i bar e le biblioteche, si radunano sotto il duomo il mercoledì sera e affollano via San Romano e le enoteche di Carlo Mayr. Sono il cuore giovane della città, una spinta continua alla sua vitalità, uno spunto per rinnovarsi e modificarsi. I fuori sede sì studiano, ma soprattutto vivono Ferrara e vivacizzano la città. E’ una presenza per nulla scontata, corpi che si muovono e occhi originali che osservano.

Forse per questo loro essere fuori contesto, le impressioni che esprimono sul luogo in cui si trovano sono meno banali di quanto ci si potrebbe aspettare. E, pur nella pluralità delle voci, emergono alcuni punti di accordo.
Unanime è, per esempio, il gradimento circa l’ottimo livello di vivibilità di Ferrara, una città “tranquilla e a misura d’uomo”, come dichiara Andrea (21 anni, Medicina, di Belluno, qui da tre anni). Una qualità fondamentale che garantisce, aggiunge Zeno, (22 anni, da due in città per frequentare Medicina), la possibilità di “muoversi agevolmente” e il fatto che ci siano “strutture, dedicate a studenti e giovani in generale, abbastanza centrali e quindi facilmente raggiungibili”.

Ma la realtà è più sfaccettata e mostra anche risvolti un po’ meno positivi. La pur accogliente e paciosa Ferrara non brilla certo per senso dell’accoglienza stando ai racconti degli studenti, specie quelli provenienti dalle regioni più lontane, che da noi trovano accoglienza e integrazione quasi esclusivamente all’interno dell’ambito universitario. Restano, per questo, studenti senza sentirsi pienamente cittadini. La città, anziché essere il primo motore di inclusione e coinvolgimento, delega questo ruolo all’università, al di fuori della quale ci si sente distanti, ai margini di qualcosa di cui si vorrebbe far invece pienamente parte. Per questo Carmelo, catanese iscritto a Biologia, 23 anni dei quali gli ultimi tre trascorsi qui, definisce Ferrara come “una bomba che ha fatto cilecca”; per questo Sara (21 anni, Scienze della Comunicazione, di Lecce, qui da tre anni) dichiara che “in realtà vivere a Ferrara da studentessa fuori sede è un po’ come vivere ai margini di una città, in periferia”. Parole forti, che portano a galla quella che se non è una colpa è sicuramente una mancanza, un’ambivalenza che però ipoteca una possibile evoluzione.
Indubbiamente lo studente fuori sede si trova a Ferrara per studiare. Questo è il suo scopo primario e l’indirizzo del suo presente, che si incarna fisicamente nell’università, perno comune su cui si fondano legami, amicizie e giornate. Però è inevitabile uscire fuori dal guscio, varcare il microcosmo universitario. Nello spazio condiviso della città molti fra gli intervistati dichiarano di sentirsi se non propriamente esclusi quantomeno trascurati. E’ una carenza che ha riflessi variegati: dalla mancanza di un servizio di trasporto pubblico per il CUS, molto difficoltoso da raggiungere soprattutto d’inverno, a insufficienze sul versante comunicativo che limiterebbero la conoscenza degli eventi a quelli di ambito strettamente universitario, trascurando gli altri circuiti cittadini; infine, qualcuno addirittura lamenta atteggiamenti di totale chiusura, che portano – come sottolinea Nicolò, ventunenne bellunese che da un triennio frequenta le aule di Architettura, a considerare “gli studenti che vengono da fuori ‘un cancro’ mentre sono la vera anima di Ferrara”.
Ma il disagio evidentemente è sopportabile perché, pur in questo scenario nebbioso, l’università cresce e nel 2013 ha segnato un incremento di iscrizioni del 4,9%. Più persone che abitano tra le mura estensi, popolano il centro, fanno la spesa nei negozi e nei supermercati, frequentano i bar. “Più persone che – come afferma il ventiduenne veronese Sirio, iscritto a Medicina – si attendono che la città nel week-end offra qualche alternativa al mesto ritorno a casa”.
Per “esplodere” Ferrara dovrà accompagnare la crescita universitaria scrollandosi di dosso il suo strato di polvere. Gli studenti chiamano e attendono risposte, perché a nessuno piace stare in periferia. E tantomeno rimanere dei protagonisti mancati.

emma

ACCORDI
il brano musicale
di oggi

 

Ogni giorno un brano intonato a ciò che la giornata prospetta…
(per ascoltarlo cliccare sul titolo)

 

Sabato 30 novembre 2013 – Emma, Dimentico tutto
Venerdì 29 novembre 2013 – Gerardina Trovato, Ma non ho più la mia città
Giovedì 28 novembre 2013 – Eugenio Finardi, Extraterrestre
Mercoledì 27 novembre 2013 – Ivano Fossati, La decadenza
Martedì 26 novembre 2013 – Giorgio Gaber, La libertà

 

travasoni

L’uomo dal furgone blu che alimenta il passaparola della solidarietà

di Silvia Poletti

A vederlo si direbbe uno dei tanti furgoni a noleggio che ci sono in circolazione. Ma se ti capita di aggirarlo, invece della scritta “Amico Blu” che ti aspetteresti, ti sorprende un più sobrio e quasi impersonale “Centro di Solidarietà-Carità”. E la cosa curiosa è che una volta che lo hai notato (da quanti anni, magari, senza farci caso?) continui a vederlo sempre, preferibilmente nei tardi pomeriggi della fine del mese, nella canicola come tra i nebbioni.
“Molti ci scambiano per la Caritas – racconta divertito Massimo Travasoni, che del Centro è vice-presidente”, invece anche la Caritas, come un centinaio di altri enti caritativi e di assistenza del nostro territorio, si rivolge a lui per ricevere gli alimenti con cui far funzionare la mensa cittadina e assistere le famiglie.
Questa è una storia che merita di essere raccontata. Uno, perché è quasi sconosciuta ai più. Due, perché ribalta il tradizionale rapporto tra pubblico e privato (ma questo non è così infrequente nel Terzo Settore e si chiama “sussidiarietà”), laddove un’associazione gestita da volontari diventa un soggetto insostituibile, organizzato, capace di offrire servizi anche alla rete territoriale dei servizi sociali.
E tre perché, tra le righe, dimostra che il “come” può essere più importante del “quanto”.
La giornata di Travasoni, di professione bancario, inizia molto presto; se va bene pochi minuti prima dell’apertura della filiale, ma a volte anche alle cinque e mezza di mattina, quando c’è il furgone da caricare per il pomeriggio. Chiuso l’ufficio inizia “il giro”, che si sa quando inizia ma non si sa quando finisce. Via Bologna, Barco, via Oroboni sono i quartieri più battuti; il copione è lo stesso: campanello, consegna del pacco alimentare, due chiacchiere, come va, come stanno i figli, cosa c’è di nuovo. Ma le scene sono tutte diverse: “alcuni ti accolgono in garage, altri non ti fanno entrare in casa per timore che i vicini vedano, ma con altri il rapporto si approfondisce, nascono amicizie che durano anni, si sviluppano reti di aiuto che coinvolgono altre famiglie”.
Un po’ come tornare alle origini, a quel 1997 in cui Travasoni iniziò a seguire una famiglia in difficoltà nel Basso Ferrarese. “A loro ho portato i primi scatoloni di cibo, forniti dal Banco Alimentare di Imola. Poi il passaparola ha fatto il resto e due anni dopo abbiamo fondato, con gli amici di Comunione e Liberazione di Ferrara, il Centro di Solidarietà-Carità. Che, in convenzione con il Banco, distribuiva cibo alle persone in difficoltà e anche agli enti di assistenza, in base al principio dell’aiutare chi aiuta.
E se nel 1999 gli enti erano 30 e le persone raggiunte 3.000, oggi gli enti sono un centinaio e le persone 17mila in totale. Ecco perché l’organizzazione dev’essere ferrea, benché su base completamente volontaria. Nei magazzini – due al Mercato Ortofrutticolo di Ferrara e uno a Comacchio – avviene il confezionamento dei pacchi per le famiglie e la distribuzione agli enti. Il resto si gioca sul rapporto individuale e sull’assunzione di responsabilità: “Al chi ci segnala altre persone in difficoltà chiediamo di farsene carico consegnando loro i pacchi – spiega Travasoni – . Questo ha permesso alla rete di allargarsi, ma sulla base di rapporti di fiducia”. Entrare in casa, scambiare due chiacchiere, chiedere aiuto: sono questi i detonatori più comuni dell’amicizia, e può capitare – e capita – che il cibo diventi anche il pretesto per incontrarsi, per avere qualcosa da aspettare.
“E sai qual è il paradosso? Che entrare così profondamente nella vita delle persone ti dà disagio, perché non puoi rispondere a tutti i bisogni che vedi. Ma allo stesso tempo ti regala una gioia, proprio una letizia… che ti dice per cosa siamo fatti, com’è fatto il cuore dell’uomo. Ci muove l’incontro con il cristianesimo, che ci insegna ad avere lo stesso sguardo di misericordia sull’uomo che ha avuto Cristo. Ci educa, letteralmente, perché ci dà un criterio con cui stare di fronte a tutto”.
Gli alimenti distribuiti dal Centro di solidarietà carità di Ferrara provengono dal Banco alimentare, dalla Comunità europea (tramite il programma Agea, che però terminerà alla fine di quest’anno, sottraendo almeno il 30-40% delle risorse alimentari disponibili), da aziende locali (a Ferrara: Due valli, Mazzoni, Coldiretti, Conserve Italia e alcune aziende agricole) e dalla Colletta alimentare, in programma per sabato 30 novembre in tutti i supermercati di città e provincia.

Voltini castello

Voltini sporchi e bui. E metterci una luce?

Non solo sono sporchi, ma sono anche bui. I voltini del castello sono un passaggio caratteristico nel cuore della città, sormontato dall’antica “via Coperta” che congiunge la fortezza estense con il palazzo Ducale, attuale sede del municipio. E’ l’elemento di cesura e insieme di congiunzione, proprio tramite il varco costituito dai passaggi a volta, fra piazza Savonarola e piazza Castello. Ebbene questo elemento architettonico così rilevante della città storica spicca per trascuratezza. Da sempre, va detto, non da oggi. Sono stati sempre inspiegabilmente lasciati all’incuria, scrostati, ammuffiti, considerati alla stregua del sottoscala di casa, dove si ammonticchiano cose inutili, sormontate da polvere e ragnatele. Addirittura alla notte, complice la totale oscurità in cui versano, si prestano, in funzione di impropri orinatoi, ad alleviare le necessità di ineducati viandanti.
Solo un breve fulgido momento hanno vissuto nella loro storia recente: fu trent’anni fa in occasione della visita di papa Wojtyla. In quell’occasione anche loro, al pari di tutta la città, furono tirati a lucido come mai erano stati. E così, dignitosamente, rimasero sino a quando la pittura prese a scrostarsi e i muri ad ammuffirsi, per tornare ad essere ciò che furono e ciò che attualmente sono. Eppure basterebbe davvero poco per renderli attraenti: un imbianchino e – già che è stata inventata la luce elettrica – magari pure un elettricista: illuminati, la sera donerebbero un tocco di suggestione in più alla piazza e forse dissuaderebbero pure le incursioni degli incontinenti.

cattani

Cattani: “Investire per superare la crisi. Carife? Un fallimento politico”

“Dalla crisi si esce se rilanciamo il volano degli investimenti”. Così Luigi Cattani, una vita nel sindacato, immagina la fine del tunnel che ci attraversa: “La soluzione – spiega – non sta certo in una maggiore flessibilità contrattuale, da 15 anni battiamo questa strada e i risultati… si vedono! C’è a monte certamente un problema di ambiguità del quadro di riferimento, 47 normative che disciplinano il mercato del lavoro dentro le quali ci sta tutto e il suo contrario. Ma un conto è semplificare e razionalizzare, altro è avere mano libera come pretenderebbero gli imprenditori per cancellare ogni forma di regolamentazione e seppellire una volta per tutte i contratti collettivi”.
Gli imprenditori però sostengono che la flessibilità favorirebbe una maggiore fluidità anche in ingresso nel mercato del lavoro…
“E infatti la disoccupazione ha raggiunto punte record, specie quella giovanile! Certo, molta parte di responsabilità va ascritta alla crisi. Ma c’è anche una chiave di interpretazione diversa: nonostante l’introduzione di numerose forme di contratti atipici la realtà documenta un aumento medio dell’orario settimanale di lavoro a 47/48 ore. Il lavoro si concentra sugli occupati. Questo significa che la medicina della flessibilità ha fallito clamorosamente il suo obiettivo”.
Resta il fatto che per investire servono i capitali. E le banche nicchiano.
Qui la situazione è al limite della legalità. Gli istituti ricevono denaro con un tasso di interesse dello 0,25% e prestano normalmente al 7/8%. Quando prestano…”
C’è chi immagina che la soluzione sia uscire dall’Euro così, svalutando, si recupera competitività e al contempo, in un regime di autarchia, ci si affranca dai rigidi vincoli alla spesa imposti dall’Unione europea.
“La storia dell’Euro è il solito modo per non affrontare i problemi: l’Italia deve sì rivendicare una maggiore elasticità nei vincoli di spesa dai quali rischia di rimanere strangolata, ma non risolverà i suoi guai isolandosi. Penso piuttosto che la Banca centrale europea, oltre che stampare moneta per il circuito bancario il quale poi la gestisce con le storture indicate, dovrebbe anche stampare moneta immediatamente trasferibile ai cittadini tramite lo Stato”.
In che maniera?
“Per esempio attraverso forme dirette di sostegno o di finanziamento agevolato a progetti. E un pool di banche, debitamente disciplinate, dovrebbero accantonare la propensione commerciale per recuperare quella di servizio e di supporto all’impresa e ai cittadini”.
Come del resto sarebbe nella natura delle banche popolari e delle casse di risparmio, tipo Carife…
“Già, la Carife però, ormai da decenni, ha smesso di fare ciò che lo statuto le imporrebbe. Ha puntato tutto sulle sulle grandi imprese benevise dal potere politico trascurando le piccole e medie”.
E a proposito di Carife, quali sono le ragioni del tracollo?
“Alla base c’è il fallimento di una strategia sbagliata, quella di puntare sull’industria del mattone, indotta dalle intrusioni di una classe politica miope. I crolli della Coop Costruttori e poi della Cir di Mascellani si sono tirati dietro anche la Cassa di risparmio. Paradossalmente, a doversi fare carico del problema in primis sono i lavoratori, con licenziamenti e riduzione dei salari. E poi ci sono gli azionisti, spesso piccoli risparmiatori che hanno investito parte dei loro risparmi in quote che oggi hanno perso gran parte del loro valore”.

1 – SEGUE

Leggi la seconda parte

Unicità della rosa nella natura morta che passa per Ferrara

Bicchiere con acqua e una rosa su un piattino di metallo. E’ una natura morta dipinta da Francisco de Zurbarán in mostra a Palazzo dei Diamanti, Ferrara, fino al 6 gennaio 2014. Un olio su tela piccolino, prezioso e luminoso, che riallaccia i fili della pittura – e in questo caso, in particolare, della natura morta – in una triangolazione internazionale che vola sopra i confini di spazio e tempo.

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“Bicchiere con acqua” di Zurbaran, 1630

In questa tela di dimensioni minute, come in altre nature morte del “Caravaggio spagnolo” , persino il clamore classico e quello barocco che caratterizzano la sua arte sembrano mettersi un po’ in disparte. La lezione di realtà della pittura caravaggesca, fatta di luci e ombre, diventa strumento per dar voce a un linguaggio moderno. L’opera lascia parlare gli oggetti, tanto più significativi quanto più comuni, veri. Per evidenziare l’attualità di Zurbarán ci vengono in aiuto alcune opere, sempre legate in qualche modo alla città estense. Ecco allora Jean Siméon Chardin, protagonista qualche anno fa di un’altra grande mostra di Palazzo dei Diamanti. Anche in quel caso un autore non particolarmente noto, che anziché rappresentare l’atteggiata aristocrazia della Francia del ’700, si dedica a soggetti un po’ marginali, con scene di vita minore e con quelle nature morte piene di umiltà e sentimento cui deve la fama.

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“Il cestino di fragole selvatiche” di Chardin, 1761

A mettere insieme queste opere e questa poetica artistica arrivate dalla Francia del ’700 e dal Spagna del ’600 dà un contributo decisivo Giorgio Morandi, che dalla confinante Bologna raccoglie l’eredità di questa poetica e la rilancia facendo apprezzare questo genere nel mondo.

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“Vaso di fiori” di Giorgio Morandi, 1950

I quadri morandiani pieni di bottiglie, vasi o paesaggi ci dicono perché quelle nature morte sono ancora attuali. Per farlo basta uno dei vasi con i fiori di Morandi. Zurbarán trasfigura la rosa alludendo alla Madonna, bianca e virginea come il bicchiere, pura come l’acqua, splendente come lo specchio. Morandi, che ama molto l’opera di Zurbarán, quello stesso messaggio raccoglie e riscrive in una chiave laica, novecentesca, usando una gamma ridotta di colori che rende il fiore scabro, intimo, poetico. Una rosa irrinunciabile non più come regina floreale o divina, ma come quella del Piccolo Principe, unica perché annaffiata, protetta e curata da lui: la rosa addomesticata, la rosa del cuore, che ti emoziona perché è proprio quella lì. Staccata dal giardino del re o oltre un umile muro con in cima cocci di bottiglia poco importa, è la sola per noi, ora, davanti al quadro.

Economia? Poca. Luci accese anche di notte

Sarà uno spreco piccolino, ma è pur sempre uno spreco del tutto ingiustificato. Le luci dell’androne centrale della facoltà di Economia restano accese tutta la notte, tutte le notti. Peraltro lo storico palazzo Bentivoglio di via Voltapaletto, nel quale la facoltà ha sede, è stato dotato pure di un impianto anti-piccione, il cui effetto è dubbio (abbiamo osservato piccioni accovacciati sui rumorosi dissuasori, evidentemente sordi o del tutto incuranti del disturbo sonoro), mentre certi sono il costo di acquisto, di installazione e di mantenimento. Bene, il fastidioso ciak ciak che dovrebbe mettere in fuga i volatili, ha forse come unico risultato un effetto collaterale, quello di vivacizzare le conversazioni di chi fa capannello davanti all’ingresso, rallegrando le chiacchiere con il ritmo di maracas che sortisce dal dispositivo. Davanti a Economia
In ogni caso va apprezzata la coerenza: anche l’impianto antipiccione, al pari di quello di illuminazione, resta in funzione pure la notte. Vien da pensare che un banale temporizzatore potrebbe disattivare l’uno e l’altro. Ma forse non lo si fa, perché magari si va a caccia del mitologico piccionpistrello o si sta sperimentando l’effetto sulla zanzara doc, attratta dalla luce e poi stordita dal fastidioso antipiccione…

siccita

Vittime dell’acqua: un miliardo senza la potabile, cinque milioni i morti

L’acqua è un problema di tutti ed è una risorsa delicata e strategica per il nostro futuro. E’ proprio di quest’ultimo periodo infatti il frequente richiamo istituzionale e dell’opinione pubblica sull’emergenza idrica. Sono più di un miliardo le persone nel mondo che non hanno acqua potabile e dunque grave è la mancanza di condizioni igieniche di base. Le malattie determinate dall’acqua sono cresciute in questi ultimi tempi e si calcola che abbia causato oltre 5 milioni di vittime. La crisi idrica mondiale già oggi rappresenta una delle minacce maggiori e una della principali cause di conflitto. Purtroppo fa spesso notizia l’accesso idrico come fonte di controversie internazionali (che a volte sfociano addirittura in guerre; ad es: conflitto tra Giordania, Siria, Palestina ed Israele; tensioni tra Egitto e Sudan; le dighe in Turchia sul Tigri e sull’Eufrate che ridurranno notevolmente l’afflusso di acqua di tali fiumi in Iraq e in Siria; purtroppo tanti altri casi, spesso non dichiarati, ma pesantemente perseguiti).
Le minacce per l’ambiente e le dichiarazioni di difficoltà si susseguono in molti forum e si è impegnati a dimezzare il numero di persone che non hanno acqua potabile e soprattutto di accelerare i piani di efficienza idrica in tutti i Paesi. Talvolta consideriamo lontane da noi queste problematiche e ne prendiamo coscienza solo quando ci toccano da vicino; questo succede sempre più spesso.

Al centro dell’attenzione vanno tutti i corsi d’acqua; gli ecosistemi di acqua dolce forniscono infatti servizi fondamentali alla biodiversità, al ciclo idrogeologico e alla capacità di autodepurazione. Bisogna allora fare delle valutazioni globali sulla crisi idrica e sulla sostenibilità della risorse naturali, analizzando anche l’impatto dei cambiamenti climatici sul ciclo idrogeologico.
In verità in Italia l’allarme è ormai esteso ad un terzo dei Comuni italiani a forte rischio idrogeologico; molte riserve idriche, soprattutto al centro-sud sono a secco e si stimano danni all’agricoltura per alcuni miliardi di euro.
La necessità di avviare iniziative per ridurre i prelievi di acqua e di incentivarne il riutilizzo è ormai improcrastinabile; diventa dunque obiettivo fondamentale limitare il prelievo di acque superficiali e sotterranee, la riduzione dell’impatto degli scarichi sui corpi idrici ricettori, il risparmio attraverso l’utilizzo multiplo delle acque reflue.
L’Italia è tra i maggiori utilizzatori di risorse idriche e dunque bisogna in particolare proprio incentivare il risparmio della risorsa acqua in settori, come quello agricolo che oggi ne assorbe circa il 60% (mentre l’attuale fabbisogno irriguo del comparto agricolo potrebbe essere coperto potenzialmente da acque reflue recuperate).

teatrocomunale

Ecco biblioteca e archivio, un atto d’amore per il teatro

È festa. Festa perché è nata: piccola, ma capace di sorprenderci. E c’è da sorprendersi per il solo fatto che sia nata. In questa temperie, alla fine del 2013, in Italia, a Ferrara, è nata una biblioteca. E per giunta pubblica. C’è di più: una biblioteca-archivio teatrale. Da far svenire non solo ex-ministri dell’economia, ma anche giovani amministratori sparsi per la penisola che all’occorrenza “cultura” associano il solo termine di “produttività” senza invece collegarla a quella galassia concettuale che riveste all’interno di un’unica pellicola “patrimonio”, “cittadinanza”, “saperi condivisi”, “creatività”, “socialità” e anche “benessere” e “redditività”.
A Ferrara dunque, all’interno del teatro Comunale, si aprono una biblioteca e un archivio, fotografico e multimediale, dedicati a quella che è l’arte più effimera, il teatro, un’arte che si consuma nel momento stesso in cui si produce, ma che è capace di mantenere un deposito attivo nell’esistenza di un essere umano perché è di esperienza, e di esperienza umana che si tratta. Una biblioteca di un’arte effimera assume un valore doppio: alla memoria storica, per studio o per diletto (i due termini non sono in contrasto), si accompagna il re-incontro con un’emozione stavolta non più immediata, ma riflessa. Le centinaia di migliaia di scatti fotografici di uno dei grandi maestri della fotografia di scena quale è Marco Caselli Nirmal, che da sempre collabora con il Teatro Comunale di Ferrara, colgono frazioni di vita che va ricostruita e, al tempo stesso, evocano segmenti di emozione. La mediateca conduce nella visione dello spettacolo nella sua integralità e finitezza; l’archivio fa entrare nei meandri dei materiali di scena, quelli conosciuti dal pubblico (i programmi di sala, per esempio) ricomponendo anche le fasi dell’evoluzione del gusto e dell’esperienza estetica così come di quelli al pubblico nascosti, i ferri del mestiere (taccuini, note, appunti).

biblioarchivio teatro
biblioteca teatro Comunale

Il teatro è un atto d’amore e di testardaggine e una biblioteca ha bisogno di amore e testardaggine per nascere. Piene di amore per questo progetto lo sono sempre state le sue animatrici, prima Bruna Grasso, poi Alessandra Taddia e Francesca Castagnoli coadiuvate e sostenute dall’Istituto beni culturali e dalla Regione Emilia-Romagna così come da tutto il personale del Teatro Comunale e dalle dirigenze che si sono succedute negli ultimi dieci anni oltre che dalla fondazione Cassa di risparmio che oltre dieci anni fa credette nel progetto.
E’ festa, a Ferrara è aperta la Biblioteca-Archivio del Teatro Comunale.

grecia

Per sopravvivere si condannano a morire. Ma l’Ocse smentisce se stessa

La notizia è sconvolgente. Al punto da apparire incredibile. Ma la fonte è autorevolissima – l’Organizzazione mondiale della sanità – quindi degna del massimo credito. In Grecia uomini e donne rimasti senza lavoro, disperati per gli effetti della crisi, si iniettano il virus del Hiv per ottenere il sussidio statale di 700 euro. Per sopravvivere si condannano a morire. Agghiacciante. In Grecia, a due passi da noi. Nella culla della civiltà. Questo è il mondo in cui viviamo.

A seguito del clamore assunto dalla notizia, l’Ocse si è affrettata a ridimensionarne la portata, precisando che i dati, contenuti nel rapporto che ha originato l’interesse di tanti organi di informazione, fra i quali “La stampa” e “Il mondo”, sono in realtà stati sovrastimati dagli estensori della relazione dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico “a causa di un errore di editing”: in realtà sono riferibili “a un numero aneddotico” di casi. Ne prendiamo atto con sollievo, domandandoci peraltro l’esatto significato di “numero aneddotico”…
In effetti, prima di commentare questo allucinante episodio, fiutando profumo di bufala, avevamo atteso eventuali smentite o precisazioni. Che, tardive, sono poi arrivate. Ma ormai la notizia ha invaso il web e occupa oltre sette pagine degli indici di Google.

gaia

Giallo di zucca, noir ferrarese

Un cane particolarmente espressivo, l’intricarsi di curiose vicende quotidiane e alcune riconoscibili macchiette cittadine completano l’intreccio di “Giallo di Zucca”, che è valso alla scrittrice e blogger Gaia Conventi il terzo posto 2009 a “Delitto d’autore” e la menzione speciale al premio “Adamantes”. Si tratta dell’ultima uscita per l’autrice nata a Goro ma da molti anni approdata in città. E’ un giallo verace e casalingo che riporta un ironico protagonista alle sue origini estensi per indagare su quattro bizzarri e, per definizione, inspiegabili delitti.

Una prima precisazione: il terzo posto a Delitto d’Autore è del 2009, ma Giallo di Zucca esce a settembre 2013…
«Giusto. Il romanzo è stato scritto qualche anno fa, solo in seguito è arrivata la casa editrice Betelgeuse che ha deciso di pubblicarlo».

Parliamo di genere, quello letterario: il quarto romanzo giallo dopo svariati racconti, sempre noir?
«Sempre. Un giallo all’inglese, un po’ alla Agatha Christie (se posso permettermi!). Vuole essere leggero e umoristico pur seguendo un filone ben definito, ormai una costante per me. Sono convinta che ogni autore scriva di quel che ama ed io ho una passione per i gialli».

Come ha iniziato a scrivere?
«Per gioco: ero davanti al computer ed ho immaginato il primo racconto. Da lì ha preso vita la serie i Delitti di LittleTown, che inizialmente ho pubblicato a puntate, online».

Non solo narratrice ma anche autrice del blog “Giramenti”.
«Un’occupazione che mi diverte moltissimo. Un blog di satira editoriale, in cui parlo di tutto quello che va storto in questo settore: credo che l’editoria sia un grande castello di carte, dalle fascette che declamano i successi dei libri ai concorsi letterari, dalle case editrici a pagamento fino al nuovo reality per aspiranti scrittori di Rai3, Masterpiece»

Veniamo al romanzo, sequel di “Una scomoda indagine” e “Un cane fetente”… Un attore co-protagonista a quattro zampe che compare anche in Giallo di Zucca?
«Esattamente. E’ Poirot, il pastore belga del nostro Luchino, fotografo della scientifica. Tra i personaggi forse è quello che preferisco: è il più furbo, dorme tutto il giorno e mangia pizza. Fa indubbiamente una gran bella vita».

Altra protagonista indiscussa è senz’altro Ferrara, come la descriverebbe?
«Ferrara è la vera prima donna del romanzo. Il bello di questa città è la sua capacità di racchiudere tutto in una piccola dimensione: da anni fotografo i suoi scorci, le sue volte e mi rendo conto che potrei non smettere mai. Ci saranno sempre nuovi spunti per fare la turista a casa mia, perché in fondo Ferrara è come una torta a sorpresa da cui non esce una ballerina, ma la storia».

A questo proposito il libro ha ricevuto il patrocinio della Provincia ed esibisce la prefazione della sua presidentessa, Marcella Zappaterra.
«Una vicenda che dipende dalla mia faccia tosta. Cogliendo il suggerimento di mio marito, mi sono buttata: ho cercato l’indirizzo e ho inviato una mail alla presidentessa Marcella Zappaterra. Da questo è seguito uno scambio di corrispondenza e l’invio del mio manoscritto. In pochi giorni tutto è stato fatto, un’opportunità bellissima di cui ancora la ringrazio»

Nel romanzo ci sono molti riferimenti al cibo, soprattutto a pietanze della tradizione ferrarese. Nascondono una passione per la cucina?
«Certamente, ma lungi da me dichiararmi una cuoca. Sorrido se penso che appena è uscito Giallo di Zucca mi hanno chiesto come si cucina la vera salama da sugo; io ho spiegato loro che al massimo sarei stata in grado di consigliare un buon ristorante in cui gustarsela»

La trama invece, pura invenzione o nasconde davvero qualche intrigo ferrarese?
«Innanzitutto riempio spesso i miei romanzi di persone realmente esistenti: amici e conoscenti. Senza contare che in questo caso i nomi di alcuni protagonisti sono stati scelti grazie a un piccolo concorso lanciato su Facebook. Poi ci sono i luoghi, c’è Ferrara: tutti i riferimenti sono riconoscibilissimi. Insomma il libro è colmo di cose e persone reali ed esistenti, ma c’è da stare tranquilli, sono ancora tutti vivi».

Progetti per il futuro?

«Continuare a promuovere il mio libro, scrivere e mantenere una vivace discussione sul mio blog. Inoltre, di recente mi hanno proposto di fare del romanzo un gioco di ruolo»

Prima di lasciarci, ci svela chi è l’assassino?
«Assolutamente no! Ma posso dirvi che, a conti fatti, aveva i suoi buoni motivi»

diamanti

Ferrara rinnega la politica della cultura. Bisogna tornare a pensare in grande

Una importante conferenza tenuta da Fiorenzo Baratelli a conclusione del ciclo “Europa, una vecchia, buona idea” programmato dall’Istituto Gramsci di Ferrara e dall’Istituto di storia contemporanea era imperniata sul testo, ormai un classico ,di Norberto Bobbio, Politica e cultura in cui il grande filosofo dialogava con gli intellettuali più rappresentativi della propria generazione, comunisti e non, e proponeva la sua idea di di politica della cultura che, commenta Baratelli, è “la politica degli uomini di cultura in difesa delle condizioni di esistenza e di sviluppo della cultura” in opposizione a ciò che Bobbio chiama la politica culturale che è sempre nelle parole di Baratelli “la politica fatta dagli uomini politici per fini politici” In altre parole, la cultura come libero dialogo la prima, mentre la seconda si presenta come cultura fatta dalla politica per fini politici. Proviamo ora ad analizzare alcune delle scelte che la politica ferrarese nelle sue istituzioni ha perseguito nel tempo in cui sono stato testimone diretto, vale a dire quella operata tra la fine degli anni Sessanta del secolo scorso e la contemporaneità. In quegli anni nasce il progetto di intervento (e il conseguente forte interesse politico culturale) sul grandissimo patrimonio che la città e il suo territorio offrivano. Un immenso patrimonio ancora non sfruttato adeguatamente ma segnalato dall’azione di un eroico gruppo di intellettuali di estrazione borghese che vanno da Luciano Chiappini a Giorgio Franceschini, dalla figura carismatica di Giuseppe Minerbi a quelle di Paolo Ravenna e Carlo Bassi, da Franco Giovannelli ad Adriano Franceschini, da Franco Farina al musicologo Adriano Cavicchi, al gruppo dei giovani artisti che all’interno dell’Istituto d’arte Dosso Dossi seguendo le scelte di Nemesio Orsatti o di Gianni Valieri elaborano una originale proposta artistica e sono Goberti, i fratelli Bonora, Sergio Zanni. In concomitanza, fuori le mura, i ferraresi “emigrati” raggiungono notorietà nazionale e internazionale: Giorgio Bassani, Michelangelo Antonioni, Florestano Vancini, Guido Fink, Roberto Pazzi o “i ferraresi” che provengono da altre terre e da altre esperienze: Giuseppe Dessì, Claudio Varese, tra gli altri, accomunati nel momento delle grandi speranze dell’immediato dopoguerra. Nel decennio di fermento tra il Sessanta e il Settanta del secolo breve Ferrara con l’aiuto determinante dell’amministrazione di sinistra che, dal dopoguerra a oggi, caso quasi unico nel panorama italiano, ha governato ininterrottamente Ferrara, si attuano progetti vincenti: il restauro del Teatro Comunale sede di sperimentazioni audaci e fondamentali dal Living Theatre a Carmelo Bene da Luca Ronconi a Claudio Abbado con la stanzialità delle giovani orchestre da lui formate. Sono gli anni dello sperimentalismo delle mostre del Palazzo dei Diamanti ideate da Franco Farina che accanto alla minuta esplorazione della cultura figurativa dei ferraresi a cominciare da Boldini propone artisti indimenticabili che hanno fatto il Novecento: Vedova, Burri, Piero Manzoni tra gli altri. Nasce il progetto del restauro delle mura e la fama mondiale di Bassani accende i fari sulla nostra città. In quegli anni sembra che le istituzioni imbocchino la strada della politica della cultura. Gli artisti di qualsiasi provenienza hanno accesso alla utopia di quel grande progetto che negli anni Ottanta-Novanta si trasforma in quello slogan fortunato “ Ferrara città d’arte e di cultura” in cui tuttavia poco alla volta la formula della politica culturale fatta da e per i politici prevale sul primo intento. Una svolta che si concretizza anche nella scelta di affidarsi quasi esclusivamente per il management economico alla banca di riferimento: la Cassa di Risparmio di Ferrara e in seguito alla Fondazione Carife. Ecco allora che due istituzioni molto forti e motivate investono nella cultura senza un dialogo con altre realtà. Il sostanziale disinteresse dell’industria privata alla esigenze della cultura, la conflittualità dei commercianti che non vedono alcun riscontro economico nell’investire in cultura sono tra i principali se non unici motivi della sclerotizzazione in politica culturale del primitivo progetto. La ricchissima e meritoria schiera delle associazioni culturali che si danno da fare in modo commovente e degno di rispetto e di plauso si adoperano in modo esemplare a svolgere il loro compito. Chiedono tavoli di confronto, sinergie, ma soprattutto di essere messe al corrente della progettualità culturale della città, ma sostanzialmente vedono eluse le loro richieste. Hanno la porta spalancata nei luoghi storici dove possono svolgere la loro attività, sono ospitate in diverse sedi, alcune molto prestigiose, altre in un anonimo appartamento di proprietà della Cassa di Risparmio che ora dopo le note vicende chiede l’affitto! E come forse si temeva quel sistema di politica culturale crolla per una duplice causa: la crisi economica e il terremoto. Si fa largo quella decisionalità dei tagli orizzontali che al grido del “non ci sono più soldi” compie una serie di ridimensionamenti in cui la cultura (intesa come fatto politico) subisce una pesante sconfitta perché in fondo è considerata l’ambito meno pressante di cui ci si deve occupare. Si abbandona la via della progettualità e si tagliano senza confronto e con scelte spesso univoche le grandi imprese culturali che avevano sollevato la città da quella quieta grandezza che era stato il suo stato e il suo fascino. D’altronde chi può dar torto a un’amministrazione che per salvare i servizi essenziali, scuole, biblioteche, archivi decide di disfarsi di progetti considerati “faraonici” quali Ermitage Italia che aveva stanzialità e rappresentanza a Ferrara o il ridimensionamento dell’Istituto di Studi Rinascimentali che perde la sua autonomia economico-culturale per diventare formalmente ufficio dei Musei d’arte antica o il drastico ridimensionamento degli spettacoli teatrali? Ciò che appare stridente e non accettabile è che le scelte vengono fatte attraverso una politica culturale autoreferenziale e non certo attraverso la politica della cultura che li aveva ispirati. In questo momento la cultura è sconfitta nella sua progettualità e penso a un libro di forte impatto: Quando si pensa in grande una raccolta di interviste di Rossana Rossanda che difende l’idea del “pensare in grande” come utopia vincente. Da qualche tempo, ma non solo nell’attuale amministrazione, il pensare in grande sembra sia un pericolo che deve essere evitato in nome dei conti in ordine, del concreto aiuto a chi non riesce ad arrivare a fine mese o perde il posto di lavoro. Pensiero nobile e degnissimo che, a mio parere, non dovrebbe però cancellare nel futuro ciò che oggi non appare possibile. Lasciarsi aperta una via che rimandi a tempi meno miserandi l’attuazione dei progetti nati come “politica della cultura”. Dialogare, progettare, discutere non costa nulla. E si creano sinergie. Ma un carattere tipico degli italiani è avere la memoria grigia. Sembra quasi che sia meno pericoloso cancellare ciò che un tempo è stato oggetto di adesione e di convinta politica culturale (ciò che ho sentito sulle “spese pazze” degli spettacoli di Ronconi, dei concerti di Abbado, delle pubblicazioni dell’ISR docet). A mio modesto avviso non si demonizza ciò che ha fatto crescere la città, che le ha permesso di porsi al passo con quelle altre città che dal loro passato hanno saputo cogliere i semi di un’autorevolezza conquistata nel libero scambio di idee: Mantova e il festival della letteratura, Modena e il festival della filosofia, Ravenna e il Ravenna festival, per citare alcuni esempi a noi vicini. Ma in questo ripiegamento del pensare in grande non è solo la politica che ci perde ma la città intera divisa e combattuta come ben racconta il memorabile affresco di casa Minerbi dove le lotte interne della città murata simbolicamente rappresenta una “ferraresità” che mi pare pericolosa e fuorviante. Invito perciò a pensare in grande non foss’altro che per dare una speranza a chi ci seguirà come ben ha saputo cogliere nella sua amara constatazione il Michele Serra de Gli sdraiati.

sondaggio centrodx

Ex pidiellini alla ricerca di un buon partito

Si contorcono, si interrogano, si domandano: e non sciolgono la riserva. Tanti, anche nel Pdl ferrarese, devono ancora decidere che strada intraprendere, da che parte andare. Ma possibile che gente così navigata, con tanta esperienza in politica, sempre così pronta a sentenziare, possa nutrire tanti dubbi circa la propria fisionomia ideologica? O magari invece stanno solo soppesando il negozio elettoralmente più propizio…

farmacia

Farmaci generici, consumatori incerti fra risparmio e prudenza

Costano meno, a volte anche la metà dei loro più blasonati concorrenti, e hanno teoricamente le stesse proprietà curative poiché impiegano i medesimi principi attivi. Ma sull’utilizzo dei farmaci generici grava ancora la zavorra della diffidenza. Così, nonostante la crisi, la gente in maggioranza preferisce indirizzarsi sui medicinali di marca, tant’è che l’Italia, secondo i dati dell’Ocse, risulta agli ultimi posti in Europa nell’utilizzo degli “equivalenti”, con un uso limitato appena all’otto per cento del totale (in termini tecnici si parla di “volumi”). I dati ufficiali sono però in parte sovvertiti da quel che emerge a Ferrara.
Carol Peretti titolare della (quasi omonima) centralissima farmacia “Perelli” che ha sede in corso Martiri sotto il palazzo comunale puntualizza: “Da noi si vendono bene, direi che almeno un 20 percento dei nostri clienti li sceglie, forse anche più. E il trend è in aumento, la crisi si fa sentire. Però non sono proprio la stessa cosa come qualcuno un po’ sbrigativamente afferma: il principio attivo è il medesimo, gli eccipienti no, quindi è differente la formulazione e questo può influire sull’assunzione e l’efficacia del farmaco”. Di ciò sembrano avere coscienza i consumatori, tant’è che per alcune patologie mostrano particolare cautela. “Quando si tratta di malattie cardiache o ipertensive in genere tutti quanti preferiscono affidarsi ai farmaci più noti e conosciuti. La delicatezza del problema suggerisce la massima prudenza”. Ed emerge anche una curiosità, relativa al Viagra. “Il brevetto è scaduto un paio di mesi fa e subito sono stati messi in commercio una serie di prodotti che costano circa il 20 per cento in meno e hanno conquistato il favore degli utilizzatori, in maggioranza individui della fascia 35-50 anni. Ma poi ne è arrivato uno che rispetto ai circa 90 euro dell’originale ne costa 22 e ha letteralmente sbaragliato il mercato…”.
Decisamente differente è la situazione se dal centro ci si sposta verso la periferia. “Qui la maggioranza dei nostri clienti sceglie i ‘generici’, parlo del sessanta, settanta per cento del totale”, afferma con convinzione Elisa Eleopra, titolare della farmacia Jublin di via Bologna, nel cuore del denso quartiere popolare della città. “La tendenza è in netto aumento in questi ultimi anni. Prima gli acquirenti erano soprattutto giovani, ora anche gli anziani hanno superato la diffidenza e arrivano qui con la ricetta o il foglietto in cui il medico ha già scritto il nome del prodotto ‘equivalente’. E’ una scelta principalmente economica, la crisi sta mettendo tutti in grande difficoltà”.
Alla luce di questa testimonianza appare in parte sorprendente il dato aggregato di vendita che ci ha comunicato la direzione di Afm, l’azienda che gestisce le farmacie comunali: si tratta del 15 per cento, pur sempre quasi il doppio della media nazionale, ma decisamente meno di quanto ci saremmo attesi.
Il ricorso ai farmaci “non griffati” resta dunque un fatto minoritario. Eppure l’uso dei “generici” nel nostro Paese è stato introdotto quasi 20 anni fa, nel 1995, ed in seguito la denominazione è stata mutata in “equivalenti” proprio per evitare che il termine “generico” potesse indurre il consumatore a ritenere che si trattasse di un medicinale meno efficace del suo più noto corrispettivo. Apparentemente l’unica differenza è che “l’originale” ha potuto giovarsi dell’assenza di concorrenza per il periodo di durata del brevetto, durante il quale è riuscito ad affermare il proprio marchio come elemento di riconoscibilità. In seguito, scaduto quel vincolo, anche i concorrenti (gli “equivalenti”) hanno potuto commercializzare i loro prodotti, formalmente analoghi. Su questa presunta analogia però non tutti concordano.
Il dottor Bruno Di Lascio, presidente dell’Ordine dei medici, precisa: “Più che di diffidenza parlerei di doverosa prudenza. Ci riferiamo a medicinali simili ma non uguali, ciascuno quindi con le proprie specificità. Siccome le peculiarità non sono evidenziate, la scelta del consumatore tende a orientarsi esclusivamente in base al prezzo. C’è un problema però. I nostri farmaci, parlo specificamente di quelli europei e di quelli italiani in maniera particolare, sono sottoposti a verifiche minuziose e controlli persino assillanti, ma utili, poiché garantiscono la qualità del prodotto. Chi mi assicura che lo stesso scrupolo sia osservato nella produzione di prodotti che arrivano per esempio dall’India, dalla Cina o da altri Paesi? Ciò che la legge prescrive è la bioequivalenza, ma qui si ferma. Quello dei controlli dunque è un aspetto rilevante. Pensi solo che di ipertensivi equivalenti attualmente ce ne sono in commercio 31 tipi: come fa il malato a districarsi se non consulta il medico? Dire che sono tutti uguali è una pericolosa forzatura. Sarebbe utile piuttosto presentare i risultati delle comparazioni anche fra i generici come già avviene in altri Paesi”.
Il risparmio per il consumatore è considerevole, si va dal 20 per cento (minimo previsto per legge) al 50 per cento, in alcuni casi anche più. Per le casse pubbliche invece nulla cambia. Lo Stato rimborsa una quota fissa per ciascun principio attivo senza discriminare fra generico e griffato.
Ma il dottor Di Lascio amplia i termini di considerazione del problema. “Al centro di tutto c’è il rapporto medico-paziente e il patto di cura che stipulano fra loro. Il primo dovere del medico è l’ascolto, quello del paziente è l’osservanza delle prescrizioni terapeutiche. Di base dunque ci devono essere il rispetto e la fiducia, se vengono meno si dissolve la loro alleanza contro la malattia. E questo capita anche quando il paziente sceglie di sua iniziativa farmaci ‘equivalenti’ senza informare il medico, perché come detto si tratta di sostanze simili ma non identiche che possono dunque alterare l’effetto terapeutico. Non c’è alcun preconcetto nei confronti di questi farmaci e rispettiamo la libertà dei nostri assistiti, però ci deve essere trasparenza e le decisioni devono essere condivise”. Al riguardo il presidente dell’Ordine non sfugge neppure allo scabroso interrogativo circa il ruolo degli informatori farmaceutici e la capacità di quelli fra loro più zelanti di orientare le scelte dei medici. “Se qualcuno mette a disposizione la marmellata e qualcun altro ci mette le dita dentro non possiamo per questo demonizzare due categorie. Ognuno fa il proprio mestiere, gli informatori con l’occhio giustamente rivolto agli aspetti commerciali, i medici con esclusivo riguardo per i malati. Ma non ci nascondiamo dietro a un dito. Chi fra noi infrange la deontologia va bastonato severamente, tanto più poi se, come purtroppo talvolta capita, oltre a privilegiare il farmaco x rispetto al farmaco y decide magari di curare una patologia di cui il paziente non soffre neppure”. E, attenzione, mette opportunamente in guardia Di Lascio, non tutto si esaurisce nel rispetto delle normative: “Ci sono anche comportamenti leciti ma moralmente riprovevoli sui quali l’Ordine non può certo soprassedere”.
Però, deviazioni a parte (“presenti in ogni ambito di vita quotidiana e in ogni categoria professionale”), il tema fondamentale resta quello della relazione fra gli individui e il rispetto delle esigenze e competenze di ciascuno. “Tornando alla buona prassi – conclude Di Lascio – il punto nodale è l’ascolto. Perché il medico che non ascolta non sarà neppure in grado di fornire risposte”.

Voto segreto, l’eccesso di riservatezza del sindaco Mucchi

Sabina Mucchi, sindaco pd di Migliarino, vota il proprio candidato alla segreteria del partito ma, richiesta dal collega Stefano Ciervo della Nuova Ferrara di dichiarare a chi ha dato la propria preferenza, testualmente risponde “non mi va di dirlo”. Ora, tutto è possibile, ma è sensato che un politico si appelli a un principio di riservatezza e rifiuti di rendere noto il proprio orientamento, oltretutto in un caso come questo, relativo alla scelta del leader del proprio partito, di colui cioè che in maniera determinante concorrerà a definire le linee programmatiche e le scelte – politiche appunto – che condizioneranno il percorso di quel movimento, dei suoi militanti e dei suoi dirigenti, fra i quali il sindaco di Migliarino? Mi domando: che idea ha della politica la signora Mucchi? Sarei felice se – fuor di riservatezza – “le andasse di dircelo”!

misericordina

La “Misericordina” e il messaggio autentico di papa Francesco

Papa Francesco mi piace molto. Moltissimo. Non mi volevo e non mi voglio far persuaso che le sue azioni, come qualcuno maliziosamente insinua, siano dettate dall’ufficio marketing. Credo alla sua sincera ispirazione.
Però devo ammettere che questa della Misericordina sa proprio di trovata pubblicitaria: un rosario racchiuso in una confezione simil-farmaceutica con sopra impresso un “corazon espinado” (potrebbe essere il gingle musicale, Santana permettendo!): 29 granelli di bontà da assumere quotidianamente…
Insomma, geniale trovata, ma operazione forse troppo smaccata che rischia di gettare sotto una differente luce i gesti quotidiani che questo papa compie e le cose importanti che dice. Che, intendiamoci, restano significative a prescindere. Significative e preziose, perché Francesco non solo predica, ma fa: dà personale e viva testimonianza del suo vangelo e impone a tutti, credenti e non credenti, una riflessione.
Per questo, Misericordina a parte, mi accontenterei che il anche nostro vescovo ogni tanto si ricordasse di papa Francesco. E ogni tanto, prima di parlare, senza necessità di consultare alcuno stratega del marketing, semplicemente pensasse a lui.

Sprechi in Regione, Bertelli: “Ci siamo sbagliati”

“Eravamo così, ci siamo sbagliati”. Ma come “sbagliati”??? Alfredo Bertelli, sottosegretario alla presidenza della Giunta regionale dell’Emilia Romagna, intervistato sul Carlino Ferrara da Stefano Lolli a proposito dell’inchiesta sulle note spesa degli amministratori, se ne esce con una infelicissima conclusione. Si parla di sprechi, di gente che si fa rimborsare la gita, il pranzo con la fidanzata e magari le caramelle. E lui dice “ci siamo sbagliati”. Sbagliati? Ma in che senso? Pensavano fosse corretto mangiare, bere e andare a spasso per i fatti propri a carico della finanza pubblica? Che idea avevano del loro ruolo di pubblici amministratori e della maniera di gestire i soldi dei contribuenti? Non bastasse, c’è pure un’ammissione che fa cadere… le braccia: “Eravamo così!”. E adesso allora che vi è successo? Siete d’incanto rinsaviti. O avete semplicemente “capito”?

straccivendolo

L’importante è rottamare, lo stracciaio fa proseliti

Una volta passava quasi ogni mattina al strazar, lo stracciaio (a Bologna era chiamato, chissà perché, al sulfaner, il solfanaio) e il suo grido riempiva tutta la strada: “a gh’è al strazar donn!” , che traduceva subito “stracciaio!”: è una delle tante figure scomparse, sostituite da aziende più organizzate, ma quel richiamo, ricordo rauco, assieme a quello dell’uomo che vendeva il ghiaccio, “ghiaccio” urlava in tono perentorio, sono rimaste infisse indelebilmente nella memoria di chi un giorno fu giovane: e, tuttavia, il mestiere è rimasto, anzi è diventato una categoria sociale, o, meglio, politica. Oggi c’è chi si definisce “rottamatore”, ma io preferirei chiamarlo ancora stracciaio. Bisogna cambiare, dicono tanti e lasciano tutto così com’è, è più comodo urlare e non far nulla.
Per capire che cosa sia rimasto dell’antico mestiere sono andato in una laterale di via Bologna a cercare tracce di ciò che è stato buttato via: è uno degli ultimi rottamatori, non solo di auto, ma pure di altri oggetti, che la gente non vuole più, anni fa qui trovai un bellissimo cancelletto di ferro battuto per la villetta a schiera che avevo comprato ai lidi. Posso guardare? Ho chiesto al titolare, un signore molto cortese. Faccia pure, ha risposto e così ho cominciato a rovistare tra vecchi mobili ormai macerati dalla pioggia, testate in ferro di letti dei nostri nonni, valige, borsoni e tutta una cianfrusaglia di roba inservibile finché il mio sguardo si è posato su un mucchio di libri buttati lì e ho preso a scartabellare. I primi volumi che mi sono capitati in mano un “Sandokan alla riscossa” di Emilio Salgari, un libro “rosa” per attempate signorine in perenne attesa dell’amore, un romanzo della Deledda e, infine, sotto il mucchio, “Il capitale” di Marx e poi le “lettere dal carcere” di Gramsci, lo storico numero uno di “Ordine Nuovo”, firmato dallo stesso Gramsci con Terracini ,Tasca e Togliatti, i “Canti orfici” di Dino Campana, altre raccolte poetiche di scrittori anche recenti ma dimenticati: guardai stupefatto: “Ah – mi spiegò il titolare che seguiva con attenzione la mia ricerca – tutta roba ormai obliterata”, dimostrando una sapiente conoscenza della lingua. Perché obliterata?, chiesi: “roba dimenticata – rispose – cancellata. Devo sempre portare questa carta inutile al macero ma non ho mai tempo”. Ma perché?, insistei: “la gente vuole cose nuove, ma non ha idee e così butta via tutto, oblitera. Guardi qua, questo sacco contiene le idee da gettare, da rottamare”. Presi in mano il sacco nero della spazzatura, era pesantissimo. E dove le butta?, mi informai. “non so ancora – rispose noncurante – l’importante è rottamare”.

Il virtuoso Errani, l’ambizioso Calvano

Scandalo sperperi in Regione, capitolo auto blu. Paolo Calvano, attuale segretario provinciale pd di Ferrara, si prende la briga (non richiesta) di assumere la difesa del presidente della Regione Vasco Errani. Lo fa attraverso Facebook e cita, a conferma della probità del capo, il caso virtuoso di “quella volta” che il presidente, dopo una nottata di trattative a Roma in difesa dei lavoratori della Berco, rientrò con il veicolo di servizio a Bologna per poter essere puntualmente al mattino a svolgere i suoi compiti istituzionali. Cosa prova questo deamicisiano episodio spot? Nulla sulla moralità di Errani al di là dello specifico episodio; molto sulle ambizioni di Calvano che da tempo punta alla poltrona di segretario regionale del partito (ed Errani è un ottimo sponsor).

vescovo Negri

Rischio oblio per la vicenda di Erik Zattoni

Erik Zattoni è una persona coraggiosa che sta sostenendo una battaglia non ‘privata’, perché la vicenda drammatica che ha deciso di denunciare pubblicamente riguarda il senso di giustizia e il rispetto della dignità di ogni individuo. I fatti li conosciamo, perché la stampa quotidiana ne ha parlato in modo esauriente. Riassumiamo l’essenziale. Nel settembre del 1980 don Pietro Tosi (54 anni) parroco di una frazione di Migliarino, abusa sessualmente di una ragazzina di 14 anni. La ragazza rimane incinta e da quel momento comincia il suo calvario: il prete che nega; le autorità ecclesiastiche che coprono e proteggono; la comunità locale che non crede alla verità della ragazza… Sono stati necessari la volontà, il coraggio e l’intelligenza di Erik perché la verità venisse a galla: una sentenza del Tribunale sulla base del test del dna ha provato in modo inequivocabile la paternità di don Tosi. Ma, nonostante ciò, il silenzio, le calunnie, le coperture, le omertà continuavano. E’ a questo punto che Erik ricorre ad una trasmissione televisiva popolare per imporre all’attenzione dell’opinione pubblica la storia drammatica di cui era stata vittima la sua famiglia. E così scoppia il ‘caso’! Nessuno può più far finta di niente: neanche la Curia ferrarese. Dopo un primo comunicato dell’attuale vescovo, Monsignor Negri, vergognosamente inadeguato rispetto alla gravità dell’evento; poi ha posto rimedio sia incontrando Erik, sia promettendo di fare da intermediario con il Vaticano per farlo ricevere dal Papa. L’altra richiesta che ha sempre formulato Erik è di ridurre allo stato laicale don Tosi. A che punto siamo? Monsignor Negri ha dichiarato: “Ho compiuto tutti i passi e anche di più. Bisogna poi vedere se questo colloquio con il Papa si farà”. Poiché, come ho precisato all’inizio, non si tratta di una partita a due (tra Erik e le gerarchie ecclesiastiche); non è opera di invadenza impropria in una vicenda privata se l’opinione pubblica ne segue gli sviluppi e formula le sue domande. Ecco le mie personali.
Sì, è vero, la risposta del Papa si sta facendo attendere troppo… Eppure papa Francesco si è presentato con l’immagine e il fare di una grande novità per apertura e sensibilità verso i drammi delle persone. Perché questo ritardo nel dare una risposta alla richiesta di Erik sostenuta anche dal Vescovo di Ferrara? Ma la Curia ferrarese non può nascondersi dietro al Papa. Cosa potrebbe fare (e che finora non ha fatto) per ridurre allo stato laicale un sacerdote che si è mostrato indegno nell’assolvere alla propria importante e delicata missione? E la comunità dei sacerdoti della diocesi ferrarese non ha niente da dire al riguardo? Non si rende conto quanto sia importante un atto di (parziale) risarcimento verso l’ingiustizia subita per trent’anni da una madre e da suo figlio? E non ne risulterebbe un vantaggio ‘morale’ e religioso per la stragrande maggioranza dei sacerdoti perbene ed onesti che svolgono con rettitudine e carità la loro missione? E non diventerebbe più credibile il discorso sulla famiglia che è centrale nell’operato della Chiesa? E la comunità dei credenti, perché non si fa promotrice di una pressione verso le proprie autorità religiose affinché prendano delle misure che simbolicamente rappresentino una svolta rispetto ai decenni di colpevole omertà che hanno alle spalle? E non sarebbe importante per l’intera Chiesa cattolica dimostrare che un sacerdote che si macchia di un così terribile reato non può farla franca impunemente dopo decenni di negazione delle proprie responsabilità? O si pensa di far leva su uno dei ‘caratteri nazionali’ equamente presente sia fra i credenti e i non credenti: l’oblio?

movimento5stelle

Guerra per bande a caccia del grillino doc

Baruffe chiozzotte nella casa dei 5 stelle, con scontri fra bande locali. Motivo del contendere, come sovente accade nei movimenti di recente costituzione e perciò ancora immersi nel magmatico stato nascente, le ragioni identitarie di purezza e di primogenitura: ognuno si considera più autentico dell’altro. Ma, per dirla con gli intramontabili Cochi e Renato (comici che hanno resistito alle sirene della politica e per questo continuano a farci sorridere), se vulevulevù fa il tacchino, quaquaquaquaquà fa l’ochetta e cricricrì fa il grillino, di noi che cosa sarà?

nichivendola

Vendola e Archinà, è più prosa che poesia

La telefonata di Nichi Vendola a Girolamo Archinà è disgustosa. Non emerge nulla di illecito, ma la questione è di natura morale: che bisogno aveva di farla? E’ stato lui a cercare Archinà, “eminenza grigia” dell’Ilva. E perché? Per condividere il divertimento “per quello scatto felino” con cui ha strappato il microfono all’intervistatore. Ed è proprio nella ricerca di complicità con il suo interlocutore (che non è uno qualsiasi) che io vedo lo “scandalo”. Vendola aveva acceso in molti la speranza di un autentico cambiamento di rotta in termini di stile e di costume della politica prima ancora che di strategia. Ma se anche i poeti si piegano a fare i giullari dei potenti…

femminicidio

Femminicidi, «per arginare la violenza bisogna insegnare ai figli che il corpo è sacro»

«La reputo molto utile ai fini della sensibilizzazione e dell’informazione. Un giorno sui 365 che compongono l’anno, non sono però sufficienti a modificare una realtà violenta che a tutt’oggi, quotidianamente, colpisce le donne. E non solo». Maria Rosa Dominici, psicoterapeuta, già Giudice Onorario del Tribunale dei Minori di Bologna e Consigliere Onorario presso la Corte d’Appello di Bologna, Sezione Minori, una vita spesa a trattare di abusi e soprusi, collaboratrice di riviste scientifiche internazionali, autrice del progetto Psicantropos – teso ad ‘educare’, già dalle scuole, al rispetto della sacralità del proprio e dell’altrui corpo, «perché è sulla prevenzione, sull’autostima, sulla consapevolezza dei futuri adulti che bisogna agire» – , fondatrice e curatrice del sito www.crimevictimpsicantropos.com, riflette sulle iniziative appena conclusesi sulla Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne e sui vari appelli lanciati da tutti i livelli istituzionali.

Maria Rosa Dominici
Maria Rosa Dominici

Al di là delle promesse e degli intenti che precedono e seguono il 25 novembre, l’indomani, dunque oggi, cosa rimane?
Siamo in una realtà in cui la violenza è psicosociale. Psicologicamente e socialmente, purtroppo, ci si sta adeguando, ed è questo il pericolo maggiore. In un qualche modo, è strisciante e suadente, ammantata di un alone perversamente romantico. Non a caso si sprecano termini come ‘passione’, ‘sentimento’, ‘rifiuto’, ‘tradimento’. Tutti alibi che inducono quasi a una captatio benevolentiae verso chi commette le azioni, invece che verso chi le subisce. Chi uccide diventa un personaggio pubblico, scrive un libro, ispira la realizzazione di un film, viene ospitato in tv. Raggiunge una notorietà addirittura ‘monetizzata’. D’altra parte, basti pensare ai titoli dei programmi dedicati al tema, si va da ‘Amore Criminale’ – come se l’amore e il crimine potessero convivere – a ‘Storie maledette’. Bisogna rendersi conto che per alcuni scatta una volontà di emulazione frutto di un meccanismo di identificazione, proiezione.
Soluzioni?
Ripartire dall’educazione, fin dalle scuole materne, fin dall’infanzia, per insegnare la sacralità del corpo. Solo così si può invertire la rotta.
E’ ‘solo’ violenza dell’uomo sulla donna?
E’ soprattutto così, perché la donna è reputata ancora un oggetto. Consapevolmente o no, spesso è lei stessa complice di questa perversione. Non denuncia perché spera nel cambiamento, non accusa perché si vergogna, non chiede aiuto ‘perché in fondo lui mi ama’. Sono mille le storie sepolte, nascoste, censurate, finché non si riacquista l’autostima.
Quest’anno la Giornata Mondiale contro la violenza sulle donna, si si intreccia con gli episodi di Roma, con le baby squillo indotte alla prostituzioni dalle madri. Altra violenza o la stessa violenza?
Le baby squillo ci sono sempre state, così come i genitori che fanno prostituire i propri figli. Ci sono casi che restano invisibili per sempre, altri che scoppiano, anche se poi tutto ricomincia. Io sono molto critica, anche sull’informazione fatta in nome del diritto di cronaca. La Carta di Treviso impone la tutela dei minori.
In Italia si investe poco sulla prevenzione. Quanta differenza potrebbe fare, invece, l’educazione alla non violenza a scuola?
Moltissima. Per questo ho dato vita a Psicantropos, che basandosi sulla medicina psicosomatica – il corpo fa ciò che la mente vuole – debella quel pensiero, ipocrita, secondo cui ad indurci a delinquere è il nostro lato oscuro. Bisogna educare i più piccoli al rispetto di se stessi e degli altri, alla sussidiarietà dei ruoli, alla cooperazione dei sessi.
Quindi non si tratta solo di educazione sessuale…
No, assolutamente, e finché tratteremo il problema entro questi esclusivi confini non si arginerà la violenza sulle donne e saranno insufficienti sia la giornata mondiale che le varie carte internazionali, come la Convenzione di Istanbul, sottoscritta dall’Italia la scorsa estate. Finché si penserà solo all’educazione sessuale, spesso mal fatta, nell’immaginario collettivo il sesso sarà solo sporco e cattivo. E’ da qui che nascono le confusioni distruttive.

camilla ghedini – www.ufficiostampacomunicazione.com

lente

ferraraitalia, il nostro punto di vista sulla città e sul mondo

Un citatissimo precetto del giornalismo anglosassone è quello che impone la netta separazione fra fatti e opinioni. Come se fosse possibile! Come se il narratore potesse d’incanto spogliarsi (solo perché lo vuole) della propria soggettività cioè del proprio modo di guardare il mondo, riponendo quasi fossero occhiali, le invisibili lenti mentali che ne condizionano la percezione e ne orientano comprensione e giudizio.
Bene, noi stiamo fuori dai confini della disputa. Il nostro quotidiano infatti non rendiconterà fatti, quindi non pubblicherà notizie in senso proprio, ma opinioni su ciò che accade e sulla realtà che viviamo. Quindi pareri, punti di vista, commenti, riflessioni. Gli avvenimenti della città troveranno rappresentazione nelle inchieste della nostra redazione.
L’obiettivo non è strettamente informare, ma cercare di capire e di comprendere. Lo faremo anche attraverso lo strumento dell’intervista, chiamando in causa personalità autorevoli o comunque esperte degli argomenti e dei temi di volta in volta in trattazione; oppure personaggi in qualche misura emblematici, o rappresentativi di realtà più ampie e complesse.
La scelta della testata “ferraraitalia” è insieme un omaggio al buon giornalismo e un’espressione programmatica. Come il celebre “Milano, italia” di Enrico Deaglio e poi di Gad Lerner ai tempi di tangentopoli assunse la città quale paradigma e specchio di un fenomeno di dimensioni e rilievo generale, così per noi Ferrara sarà il microcosmo in cui il Paese si specchia e al contempo il laboratorio che lancia segnali alla macrorealtà di cui è parte integrante e costituente.

Ai nostri lettori chiediamo comprensione e un po’ di pazienza, specialmente in queste prime fasi di lavoro: ferraraitalia come ogni nuovo prodotto ha necessità di rodarsi e di essere messo a punto strada facendo. Sconteremo inevitabilmente lacune e qualche contrattempo tecnico nonostante l’abilità di chi ci assiste per la parte informatica, gli amici di NetPropaganda. Con il massimo impegno loro e della redazione a tutto cercheremo di ovviare il più rapidamente possibile.

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Paris Photo, immagini di contemporanea solitudine

di Virginia Malucelli 

PARIGI – Il novembre parigino è essenzialmente marcato da due cose: dai lunatismi meteorologici dovuti all’incipiente inverno e dall’epidemia di fotoamatori che popola il “mese della fotografia”. Ho avuto la fortuna di accaparrarmi uno dei preziosi biglietti per l’anteprima di Paris Photo (14-17 novembre), un evento internazionale ormai divenuto di culto per gli amanti dell’arte e particolarmente della foto. Giunta alla sua terza edizione, la fiera è ospitata al Grand Palais di Parigi, che con le sue solenni vetrate illumina la piattaforma brulicante di ben 136 gallerie internazionali.
Così inizia la visita: la mia attenzione viene calamitata da una decina di persone che deambulano senza una direzione definita, calice alla mano e conversazione sui massimi sistemi pronta all’uso. Tutt’altro che contemplazione artistica.
Quindi il mio viaggio esplorativo riprende una giusta direzione e debutta sulle prime immagini: riconosco Cindy Sherman, Robert Mapplethorpe, Richard Avedon, vengo stregata dalla varietà degli sguardi sul mondo e dai soggetti deliranti di Diane Arbus. Una tale ricchezza di universi e di visioni e poi… un sentimento di solitudine incalzante. Dai fotografi più conosciuti, ai giovani, ritrovo una sorta di meta-fotografia dell’arte fotografica contemporanea, sempre più pervasa da oggetti e da figure solitarie, figure identificate dall’obiettivo ma astratte dall’ambiente circostante. Come se il fotografo, camera alla mano, volesse estrapolare la fissità di una condizione, mitificarla e mistificarla allo stesso tempo.
La mia attenzione si è poi focalizzata nella scoperta di tre fotografi che in questa galassia dell’universo fotografico autunnale parigino mi hanno colpito in maniera speciale: Sarah Moon, un’artista di esperienza, già molto apprezzata nel campo; Julien Mauve, un giovane talento di Paris Photo 2013 e Julie Blackmon, un colpo di fulmine

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Sarah Moon nel1941 nasce in Francia, nel 1960 diventa modella, nel 1970 realizza le sue prime fotografie di moda, nel 1985 comincia a sviluppare i suoi primi lavori personali nella fotografia e nel cinema.
“E’ la fotografia che mi rivela ciò che ho in mente -dice di se stessa- E nel momento in cui l’osservatore raggiunge il mio stesso pensiero, mi dico che tutto ciò fa parte di dell’inconscio collettivo”.
A lato di soggetti riguardanti la moda e il cinema, l’estetica fotografica di Sarah Moon tende verso temi come la femminilità, l’infanzia, il ricordo e la solitudine e il desiderio di distacco dalla realtà.

 

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Julien Mauve 29 anni, vive a Parigi. Ambasciatore per Sony e membro di « Alpha Team ». Le sue foto parlano della luce. La luce che illumina i dettagli. Dettagli di nature morte contemporanee quasi asettiche. Senza coinvolgimenti emotivi. Le solitudini notturne e la contraddizione della notte illuminata a giorno.

 

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Julie Blackmon (il mio vero colpo di fulmine), nata nel 1966 a Springfield, Missouri. Lavora e vive nel Missouri. I suoi ritratti sono composizioni quasi pittoriche della vita quotidiana. I personaggi e le situazioni che descrive si vestono di un’aura di teatralità, tra la tragicità e la semplicità della vita domestica.

Tre artisti molto diversi che si sono riuniti sotto lo stesso tetto per parlare del nostro mondo attuale, attraversando i temi dell’individuo nei suoi luoghi più segreti e intimi. Un viaggio nella rivelazione di diverse tecniche della fotografia che raccontano pagine di un diario della nostra storia quotidiana.
A lato di “Paris Photo”, in questo mese dedicato alla fotografia, Parigi offre un ventaglio di mostre imperdibili, dalle gallerie d’arte contemporanea alla Maison Européenne de la Photo, una buona occasione per degustare le novità in un clima autunnale bohémien… alla francese insomma !

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Magie di un cinema: “Giovane e bella” nel rilanciato Apollo

Un cinema costretto a chiudere perché i proiettori devono essere rinnovati: succede nella piccola multisala Apollo, nel cuore medievale di Ferrara. Apparentemente l’ennesima sconfitta di una sala del centro storico alle prese con le difficoltà di un settore che ha messo al buio i grandi schermi un po’ in tutte le più belle città italiane per ripresentarsi nel formato di sale gigantesche e anonime ai margini metropolitani. Ma a Ferrara, per una volta, l’esito non è quello che – qui come ovunque – sembrava ineluttabile. Una cordata di solidarietà, la scesa in campo di un’imprenditrice centese per portare a termine l’adeguamento tecnologico (con un investimento di circa 200mila euro per i nuovi proiettori digitali) e da questo autunno il cinema più antico della città che riapre i battenti. Con una programmazione multipla di nuove visioni, che nella settimana appena conclusa ha anche avuto il merito di farci vedere un film in perfetta sincronia con i fatti di cronaca più attuali: quelli legati alle minorenni-squillo portate alla ribalta dall’inchiesta di Roma.
Il film è “Giovane e bella” di François Ozon. Dalla piccola sala ferrarese, però, con analogo contrasto con i fatti dominanti, anche su questo tema viene fuori un messaggio in controtendenza, un’opera che racconta una vicenda che potrebbe essere morbosa e che invece – descritta dall’interno – risulta piena di misura, profondità e sfaccettato raziocinio, ben lontana da manie scandalistiche e voyerismo. Versione attualizzata del romanzo di formazione, con la giovane protagonista portatrice della piena bellezza del titolo e dell’età, ma anche con il garbo asciutto e poetico di una cinematografia tipicamente francese, capace di raccontare il dualismo di un animo in crescita, scostante eppure commovente: il contrasto tra l’essere schivi e il mettersi in mostra, tra l’assoluta segretezza e il clamore delle sue azioni, tra la voglia di scoprire il mondo e il disincanto per le contraddizioni della società borghese.
Perché il film dell’Apollo più che rivelarci i retroscena torbidi di ragazzine alla ricerca di griffe e notorietà, sembra essere lo strumento per scardinare i pregiudizi e l’ipocrisia di una società e di una generazione. Uno sguardo che va dentro e non dà risposte. Né vittima né carnefice, la protagonista è piuttosto spettatrice e scardinatrice di un universo sociale privilegiato, progressista e falsamente aperto, dove imperano segreti e bugie di woody-alleniana memoria. Così la sala cinematografica che resiste in controtendenza ci fa riflettere in direzione opposta a quella delle risposte banali, delle formule più o meno freudiane e dei clichè. E la nuova gestione del cinema Apollo dimostra anche di dare continuità alla programmazione che, nella scorsa stagione con la gestione dell’Arci locale, già aveva avuto il merito di portare in città l’altra poetica e illuminante storia di François Ozon, “Nella casa”, altrettanto sorprendente, non scontata ed emozionante nel rappresentare il legame che si crea tra chi scrive e chi legge . Un piccolo cinema che, anziché dare risposte, continua a insinuare dubbi e poesia.