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Giorno: 20 Dicembre 2013

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Troppe auto in sosta nella ztl? Colpa di Musa [audiointervista al sindaco]

La zona a traffico limitato sembra negli ultimi tempi sempre più permeabile a veicoli d’ogni tipo: quelli dei residenti, quelli degli artigiani e dei manutentori, quelli dei commercianti e di coloro che svolgono attività nelle aree precluse al transito, quelli dei disabili, quelli di addetti al carico-scarico merce… Insomma, ognuno con la propria giustificazione transita indisturbato nelle arterie del centro storico, persino quando c’è mercato. Non solo, ma nella zona monumentale sono troppe pure le auto in sosta in piazza Savonarola, dove i taxisti sono tornati a stallo in doppia fila, dopo che anni fa l’Amministrazione ne aveva contingentato la presenza, inoltre, specie nelle ore serali, in corso Martiri quando ci sono spettacoli al teatro e in via Cairoli.
Abbiamo approfittato della tradizionale conferenza stampa di fine anno per porgere al sindaco, al termine dell’incontro con i giornalisti, un interrogativo circa le sue intenzioni in merito. Tiziano Tagliani ha riconosciuto che c’è un problema legato alla sosta, affermando che, paradossalmente è conseguenza dell’introduzione del sistema di sorveglianza automatica Musa: “Avendo posto i varchi sotto il controllo delle telecamere, abbiamo progressivamente ridotto la presenza di vigili nell’area pedonale. Questo probabilmente ha indotto qualcuno ad approfittarne per fermare l’auto di notte anche dove non è consentito”.
La risposta integrale del sindaco è nel file audio “sindaco-ztl” caricato qua sotto.

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A teatro l’abominio del fascismo e il tragico silenzio degli indifferenti

Le parole dei conniventi, il silenzio degli indifferenti. Per entrambe il medesimo biasimo e un’uguale condanna. Fabrizio Gifuni ha portato sul palco le nefandezze del fascismo e la sua deriva razzista. L’opera è scandita da cinque emblematici momenti di rappresentazione racchiusi fra prologo ed epilogo: gli anni del manganello, arte e religione, questione di razza, gli anni dell’impero, l’abominio.
A far da filo conduttore a “Gli indifferenti, parole e musiche da un ventennio”, in scena al Teatro comunale di Ferrara sino a domani (sabato 21), sono appunto testi scritti da epigoni del regime, con il contrappunto delle parole degli oppositori. L’incipit è di Raffaello Ramat, critico letterario che nell’agosto del 1943, all’indomani del Gran Consiglio del fascismo che esautorò Benito Mussolini ma prima del tragico 8 settembre, riferisce di una situazione “non so più se tragica o grottesca in cui milioni di uomini acconsentirono di obbedire ad un branco di ladri e di avventurieri sapendo che essi erano avventurieri e ladri, e non riuscivano a sperarne la liberazione se non da forze esterne a loro. Bisogna dire chiaramente che di questo avvilimento generale una classe sopra a tutte è responsabile: quella degli scrittori. Invito i giovani a rileggere i giornali degli anni scorsi e a fare raccolta di pagine di viltà: ma non per riderci, si per piangerci sopra”.
Il servilismo richiamato da Ramat è demolito da un incisivo epitaffio coniato da Arturo Toscanini (costretto all’esilio per avere rifiutato di eseguire uni degli inni fascisti, Giovinezza) per spiegare che “la schiena curva è conseguenza di un’anima curva”. La viltà dell’indifferenza è stigmatizzata con disprezzo da Antonio Gramsci: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti”.
Fra il prologo di Ramat e l’epilogo di Gramsci è contenuto l’atto di accusa del fascismo, basato principalmente su un collage di parole pronunciate dai suoi compiacenti servitori, complici del regime e perciò colpevoli dei suoi abomini: intellettuali, docenti universitari, musicisti, artisti, magnificamente interpretati da Gifuni che dello spettacolo è anche regista. Ed ecco idealmente sfilare in parata, evocati dalle letture dal palco e accompagnati dalla musica del pianoforte di Luisa Prayer e dalla voce del mezzosoprano Monica Bacelli, il maestro d’opera Pietro Mascagni, il pedagogista Giovanni Gentile (per il quale parole e manganello sono strumenti egualmente validi per persuadere le coscienze della bontà d’un concetto), Guido Visconti di Modrone, un giovane e sprezzante Indro Montanelli e una moltitudine d’altre tristi anime curve.

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Quando i bambini non fanno “oh”

Osteoporsi: è una condizione per cui lo scheletro, a seguito di una significativa perdita di massa ossea causata da fattori nutrizionali e/o metabolici, è più fragile e poroso e quindi più soggetto al rischio di fratture.
Calcio: è il sale minerale più rappresentato nel corpo umano, soprattutto nello scheletro. È anche un gioco fra due squadre di undici giocatori che cercano di calciare un pallone dentro la porta avversaria.
Non mi pare esistano ricerche scientifiche che finora abbiano messo in relazione l’osteoporosi, o altre malattie a carico delle ossa, con la scarsa assunzione di calcio da parte degli esseri umani… almeno di quel calcio, inteso come gioco di squadra.
Sto cominciando a credere però che un apporto quotidiano sovrabbondante di “quel” calcio possa creare, in molti soggetti, vari tipi di dipendenze e manifestazioni patologiche; ad esempio: infiammazione del linguaggio, incontinenza dei toni, ipertensione emotiva, insufficienza cronica del rispetto, pigrizia critica volgare fino ad arrivare alla frattura dei freni inibitori, all’arresto dell’oggettività e alla conseguenza dell’ultimo “stadio”: la stupidità congenita.

Devo premettere ancora una volta un mio limite: osservo le questioni di sport da un retroterra rugbistico e quelle di calcio, in particolare, da un punto di vista “Internazionale”.
I fatti a cui intendo riferirmi sono questi: la Federazione Italiana Gioco Calcio ha deciso di far chiudere le curve degli stadi i cui tifosi si siano resi responsabili di cori offensivi o razzisti ai danni dei giocatori o dei tifosi avversari.
È successo a varie squadre ed ultimamente anche alla Juventus.
La blasonata società bianconera ha pensato bene di rimediare a tale danno invitando i bambini a riempire le curve, lasciate libere dai tifosi.
I bambini, come sanno bene coloro che si occupano di pubblicità, suggeriscono tenerezza, rimandano un’idea di candore, di spontanea ingenuità, di bellobuonogiustopulito.

Ebbene la prima partita con oltre dodicimila bambini in curva nord è stata Juventus Udinese del primo dicembre 2013.
Riporto un breve articolo dal giornale del giorno dopo:
“Ammenda di 5 mila euro alla Juventus per i cori dei giovani tifosi di domenica nel corso del match contro l’Udinese. Lo ha deciso il Giudice sportivo esaminando le gare dell’ultimo turno. La società bianconera paga «per avere suoi (giovanissimi…) sostenitori rivolto ripetutamente ad un calciatore della squadra avversaria un coro ingiurioso». I bambini hanno più volte urlato «Merda!» all’indirizzo del portiere dell’Udinese Brkic.”

La cosa non sembra aver interessato molto né i giornali sportivi e nemmeno la società bianconera che ci ha riprovato domenica scorsa, 15 dicembre, insistendo sui bambini.
Riporto uno stralcio dal giornale del giorno dopo:
“I 5000 euro di multa dopo Juventus-Udinese non sono serviti: anche contro il Sassuolo non sono mancati i cori “Oh… Mer-da” dei baby-tifosi juventini all’indirizzo del portiere avversario. Al primo rilancio dal fondo di Gianluca Pegolo, dalla curva nord (quella degli adulti) si è levato il coro. Al suo secondo rilancio si sono uniti anche i bambini, dalla sud. E così si è continuato, sebbene il clima non sia stato teso, quasi ad ogni rilancio, anche dopo il gol di Tevez”.
Massimo Gramellini su La Stampa all’indomani di Juventus Udinese si chiedeva ironicamente: “Ma da chi mai avranno imparato, le creature innocenti, a irridere il rivale anziché applaudirlo calorosamente? ”
Non voglio usare il mio punto di vista “Internazionale” e credo che ciò che è successo a Torino avrebbe potuto succedere anche ad altre società (ma è ovvio che chi vuol far crescere una sana cultura sportiva, deve cominciare a coltivare bene certi Campus).
Non voglio neanche entrare nel merito delle decisioni della giustizia sportiva che sceglie di chiudere le curve degli stadi per cori offensivi o razzisti dei tifosi…. anche se mi scappa da immaginare che, se la stessa sanzione venisse applicata in Parlamento, i banchi della Lega Nord sarebbero spesso vuoti e senza dubbio quello del deputato Gianluca Buonanno sarebbe perennemente deserto.

Visto che anche lo sport è veicolo di valori mi interesserebbe conoscere, da chi si occupa di calcio, la propria opinione sulla frase del pedagogista Bruno Ciari: “È assolutamente superfluo dire che la formazione di attitudini e di valori etici non può derivare dal verbalismo predicatorio, dai racconti edificanti, dalle chiacchiere. Le attitudini, i valori etici, in quanto di natura pratica, non possono che nascere da un modo di operare e di vivere”.
Ho contribuito alla intitolazione della scuola in cui lavoro a Bruno Ciari pertanto conosco e mi riconosco nel suo pensiero.
Vorrei sapere però se, ed in che modo, le società calcistiche si pongano il problema della trasmissione di certi valori sapendo che stiamo vivendo in una società spietatamente competitiva e ciecamente egoista; come affrontano il tema del tifo (per la propria squadra e basta o anche contro l’altra?), della correttezza (solo in campo o anche fuori?), del rispetto (dei propri compagni o anche dell’avversario, dell’arbitro, degli spettatori), della competizione (il sano agonismo o le simulazioni e le furbizie?), del modello sociale che lo stereotipo del calciatore professionista rappresenta (veline, fuoristrada, creste e tatuaggi oppure serietà, impegno e solidarietà?).

Di ciò che è successo a Torino ne abbiamo parlato in classe e, dopo una lunga discussione comune, gli alunni di quarta elementare pensano che quei bambini in curva a Torino abbiano usato le “parolacce”: perché si credevano più forti se le dicevano in tanti, per infastidire il portiere avversario, perché erano “gasati” e volevano vincere, per far perdere la concentrazione al portiere, perché erano arrabbiati, per far arrabbiare gli altri, perché gli altri imbrogliavano, perché gli altri facevano i falli, perché le sentivano dai grandi, per sfogarsi, perché avevano finito la pazienza, perché erano arrabbiati per altri motivi, per fare “scena”.

I bambini poi pensano che una parolaccia sia: una brutta parola, una parola che offende, un modo volgare di parlare, un insulto, un modo per prendere in giro gli altri, un’offesa contro gli altri per qualcosa che hanno detto, fatto o che rappresentano, una protesta, una parola non piacevole, una parola per far arrabbiare, una parola che vuole ferire, una cosa brutta sugli altri per farli piangere, un pensiero che fa dispiacere.

In conclusione, a loro sarebbe piaciuto molto giocare in quello stadio ma non avrebbero affatto gradito quel coro offensivo.
Nonostante la mia età, non sono così demodè da non ricordare che il bisogno di emulare i grandi c’è sempre stato e sempre ci sarà (anche se non ricordo che quando giocavano a pallone da piccoli, per le strade o nei campetti, qualcuno di noi indossasse il sospensorio sopra alla maglia per assomigliare a Jair); quello che però è cambiato nel tempo è il contesto sociale di riferimento.
In questo contesto, io penso che certi valori, se ci si crede, occorre praticarli con pazienza, lentezza, dedizione e convinzione.

Non bisognerebbe invitare appositamente i bambini allo stadio per far sembrare pulito quell’ambiente se, in realtà, si chiede loro di esserci per nascondere lo sporco sotto al tappeto.
Non bisognerebbe farlo perché altrimenti gli si insegna l’ipocrisia.
Non bisognerebbe farlo perché poi i bambini, imparando quello che vivono, non mentono.
Solo con un ottimo impegno ed un buon investimento in istruzione ed in educazione, da parte di tutti coloro che ci credono e che si ritengono interessati, si possono cominciare a fare davvero certi tipi di pulizia.

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L’elogio all’utopia di uno scomodo comunista libertario

Andrei Platonov è stato uno dei più grandi, e misconosciuti, scrittori russi del Novecento: odiato da Stalin, venne imprigionato, ma era un comunista vero e alla cultura destrorsa dell’occidente non serviva per propagandare l’anticomunismo viscerale di tipo maccartista che dominava il mondo al di qua della cortina di ferro. Era un comunista libertario, una specie da evitare come la peste. Il suo capolavoro, “Il villaggio della nuova vita”, pur tradotto in italiano ed editato da Mondadori e, se non ricordo male, da Rizzoli, morì dimenticato sulle scansie delle librerie, sepolto sotto le macerie di una letteratura molto spesso d’accatto. Non doveva essere letto e amato dagli italiani, non si sa mai. Ma il suo fantastico racconto è sempre più inesorabilmente attuale. Narra di un uomo, il quale non accetta la fine della rivoluzione d’ottobre e parte alla ricerca di quella che chiama la sua fidanzata, Rosa Luxemburg, morta – secondo questo matto protagonista- soltanto per la propaganda capitalista. Parte in groppa al suo cavallo dal nome emblematico di Forza proletaria: non arriverà mai a trovare la Luxemburg, ma giungerà in un paese anarchico ai confini delle Russie, dove la gente, in barba alla stupida burocrazia, ogni giorno cambia posto alla propria casa ambulante: qui, in questo nuovo mondo, nuovo e libero, si fermerà. E’ chiara la matrice utopistica del romanzo, ma senza utopie l’uomo dove finirà? Ho ripensato a Platonov leggendo di quella povera donna polacca morta di freddo qui a Ferrara, sotto un ponte, anche lei era arrivata nel nostro paese, non in groppa a Forza proletaria, ma in pullman, alla ricerca di un nuovo mondo, giusto e libero, l’utopia non ha confini: l’Italia giusta e libera? Per carità. Il nostro paese è un concentrato di ingiustizie spesso imbecilli, in mano a coloro che strillano più forte, agli imbonitori da fiera: per favore, si guardino i nostri uomini politici, coloro i quali dovrebbero cambiare il Paese, non hanno programmi, nemmeno sogni, hanno molta voce, strillano come dei pazzi uno contro l’altro. E’ uno scenario grigio quello in cui viviamo. C’è qualcuno che vuole cambiare sistema, che non vuole più essere servo di interessi economici misteriosi e quasi sempre sballati, che voglia crescere delle generazioni solidali, che voglia la giustizia sociale? Utopia? Utopia, meglio che queste urla volgari che sentiamo ogni giorno. Martin Luther King aveva un sogno, i nostri linguacciuti baroni no, non corrono il rischio di essere uccisi, nemmeno – purtroppo – di andare in galera se hanno rubato.