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Giorno: 17 Gennaio 2015

L’EVENTO
Favino sublime giullare esalta la tradizione della commedia all’italiana

Quasi tre ore di puro divertimento, in cui si fatica a star fermi sulle sedie, tanta è l’esilarante energia sprigionata sul palco dagli interpreti di “Servo per due”, il riallestimento italiano ad opera di Marit Nissen, Simonetta Solder, Pierfrancesco Favino e Paolo Sassanelli di “One man, two guvnors”, a sua volta versione british del classico goldoniano “Arlecchino servitore di due padroni”.

commedia-italiaCi si potrebbe chiedere perché Pierfrancesco Favino e Paolo Sassanelli, entrambi nella doppia veste di registi e attori in scena, abbiano scelto di passare per la versione inglese ambientata negli anni Sessanta e trasportarla a loro volta nella Rimini degli anni Trenta, invece che riprendere direttamente l’originale settecentesco. La risposta che può azzardare chi ha visto lo spettacolo è che, forse, serviva un distanziamento nel tempo e nello spazio per poter recuperare nell’opera di riscrittura tutta la tradizione della comicità italiana, che partendo dalla commedia dell’arte nel frattempo è diventata la commedia all’italiana di Risi e Monicelli, o la giullarata popolare del premio Nobel Dario Fo e ancora il varietà teatrale e televisivo e la comicità stralunata di Benigni e Troisi.

commedia-italiaInsomma, come afferma Favino nell’incontro della compagnia con il pubblico al Ridotto del teatro, il genere che più appartiene alla nostra natura e alla nostra storia di italiani sembra essere la commedia: “è il linguaggio che ci accomuna e che ritroviamo dovunque facciamo lo spettacolo”. Per questo lo spettacolo coinvolge così tanto: perché è “popolare nel senso più nobile e intelligente del termine”, come sottolinea Stefano Pesce, che interpreta Spiridione.
Un altro motivo diventa evidente quando Favino racconta la sua visione del mestiere dell’attore: “gli attori iniziano a fare questo mestiere per essere amati, ma diventano tali quando riescono ad amare, quando nasce quel bisogno dell’altro che sta davanti a te, perché recitare significa non tenere nulla per sé e non giudicare mai il pubblico che si ha di fronte”. E, infatti, ognuno degli attori non risparmia una goccia del proprio sudore in un fiume in piena di situazioni, ricche di incroci tra personaggi ed equivoci a profusione, tra travestimenti, scherzi, gag e ruzzoloni. “Lo spettacolo è più forte della presunzione dei singoli attori: non importa quanto si voglia emergere, non ci si riesce perché si viene trascinati nel vortice del suo ritmo”, spiega Sassanelli. Lo spettacolo poi non sarebbe la stessa cosa senza i siparietti musicali tra una scena e l’altra, durante il cambio di scenografie, arrangiati e suonati dall’orchestra Musica da Ripostiglio, che quando arriva “crea scompiglio”, fra riarrangiamenti di classici della musica italiana, come “Mille lire al mese”, “Il pinguino innamorato” e “Mamma mi ci vuol il fidanzato”, e nuovi brani scritti appositamente per questo spettacolo.

commedia-italiaÈ evidente che tutti loro si divertono nel farci divertire, come è evidente la rete di fiducia che conferisce allo spettacolo un respiro comune. Una coesione che deriva dal reciproco rispetto, nato durante gli otto lunghi mesi di duro lavoro che sono serviti per preparare “Servo per due”: seminari di danza, canto, clownerie e tanta improvvisazione per allenare la memoria fisica e per “rendere sempre necessario in scena l’ascolto dell’altro”, chiarisce Favino. Una complicità che emerge dagli sguardi e dalle piccole impercettibili smorfie di intesa che i compagni si sono lanciati nel finale durante l’ultima canzone mentre iniziavano i lunghi applausi del pubblico in sala, ma che trova forse la sua più chiara espressione nell’immagine di Pierfrancesco Favino che, a chiusura dell’incontro con il pubblico, prende in braccio il bimbo addormentato del chitarrista dell’orchestra e gli sorride come uno zio affettuoso.
Se l’intento è recuperare il rapporto di fiducia fra chi sta sul palcoscenico e chi sta davanti a esso e, nelle parole di Favino, “proporre uno spettacolo che le persone siano felici di aver visto, facendole andare via con la sensazione di essere state a casa propria”, possiamo dire: obiettivo pienamente raggiunto.

“Servo per due”, di e con Pierfrancesco Favino, adattamento di “One man, two guvnors” di Richard Bean, tratto da “Il servitore di due padroni” di Carlo Goldoni, al Teatro Comunale fino a domani, domenica 18 dicembre.

Foto di Marco Caselli Nirmal

LA MOSTRA
C’era un ragazzo nel ’43, ora si racconta

Era un ragazzo ferrarese, William Ferrari. Alle spalle un’infanzia e una giovinezza tranquille tra via Calcagnini e Scandiana. Poi scoppia la seconda guerra mondiale e lui entra in Marina. L’8 settembre 1943 ha 20 anni e – come tutto il Paese – non sa più bene da che parte sta o dovrebbe essere. I tedeschi, non più alleati, gli chiedono se passa dalla loro parte. Non accetta e lo fanno prigioniero. Rinchiuso in un carro bestiame, inizia un viaggio allucinante verso la Germania. “Ci sarebbe stato posto per venti al massimo – racconta – e invece eravamo più di cinquanta”. Da quel carro, diretto in un campo di lavori forzati, riesce a gettare fuori un biglietto, poi un altro e un altro ancora. Cerca soprattutto di rassicurare i suoi genitori: “Non allarmatevi che io godo di ottima salute”. Tre persone diverse, in tre città diverse attraverso le quali passa quel carro, raccolgono per terra le lettere spiegazzate e le fanno avere ai genitori.

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Al Museo della Resistenza uno dei biglietti scritti nel ’43 da William Ferrari sul carro che lo sta deportando

Da oggi sono in mostra al Museo del Risorgimento e della Resistenza di Ferrara documenti, immagini e testimonianze legati a William (che – da noi – si legge Villiam). Raccontano la vicenda di un ragazzo come tanti, precipitato nella storia soffrendola sulla sua pelle. La mostra a cura di Antonella Guarnieri è realizzata anche grazie al contributo di Paolo Ferrari, il figlio di William. Biglietti scritti a mano, fotografie e riproduzioni ruotano attorno a questo ventenne, che d’un tratto si trova a lottare contro una prigionia inaspettata, in preda a fame, prevaricazione, fatica e paura quotidiana.
“La storia di William – spiega la studiosa Antonella Guarnieri – in realtà è la storia di tanti”. Si è calcolato che sono stati tra i 600 e i 650mila i militari italiani che, dopo il proclama dell’armistizio di Badoglio con gli Alleati, si trovano faccia a faccia coi tedeschi e, anziché accettare di passare dalla loro parte, cedono le armi e vengono fatti prigionieri.

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La lettera alla famiglia della persona che ha ritrovato uno dei biglietto lanciati da William Ferrari ragazzo

La cosa straordinaria è che William questa storia l’ha vissuta, ha conservato memoria di quel momento e questa mattina era lì con i suoi 92 anni, testimone lucido e pacato nella saletta del museo che ora ospita la mostra storico-documentaria “William Ferrari, un marinaio tra guerra e deportazione e altri volti di ex Internati militari italiani”.
Il carro su cui viene fatto salire il giovane Ferrari viaggia per tre giorni e tre notti, senza che venga dato niente da mangiare e senza mai che si possa uscire o andare in un bagno. Non ha nemmeno matita o biro per scrivere, William. Ma vuole fare sapere qualcosa a mamma e papà. Così gratta della ruggine da una parete del carro e la inumidisce per mettere sulla carta quei messaggi. Non sa bene dove si trova, mentre li butta fuori. Li raccoglie una signora a Treviso, una persona a Mestre e un’altra a Marghera. E tutti questi italiani prendono i foglietti e si prodigano per fare arrivare quei messaggi a Ferrara.

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Il “passaporto” con cui viene schedato William Ferrari dai tedeschi e ora al Museo diiRisorgimento e Resistenza di Ferrara

Il terzo giorno è il 22 settembre 1943 e il carro arriva in Germania. I prigionieri vengono smistati in campi di lavoro. Sulla loro casacca viene dipinta la sigla Imi, che vuol dire “Internati militari italiani”. Significa che non sono considerati prigionieri, e che quindi non godono nemmeno di quel minimo di tutele previste dal trattato di Ginevra. Diventano forza lavoro e basta. Schiavi da far sgobbare nelle miniere, nelle industrie o nei cantieri tedeschi . Dieci ore al giorno di fatica e una specie di pasto a fine giornata, una “sbobba indistinta e acquosa dove, se eri fortunato, potevi trovare un pezzo di patata”.

Nelle baracche – racconta Ferrari – non ci sono nemmeno le brande. Solo mucchi di paglia su cui i lavoratori forzati si gettano ogni sera, esausti. Appena qualcuno viene visto lavorare un po’ meno o se ci persone che arrivano in ritardo alla chiamata mattutina, la regola è quella di contare i prigionieri a gruppi di cinque; il quinto finisce impiccato davanti a tutti, come monito. William finisce in un’industria di motori. La soda con cui deve pulire i meccanismi di acciaio distrugge i suoi abiti e lui cerca di tenersi lontano dal liquido corrosivo, mentre lo getta. Uno dei controllori lo punisce per questo e lo trasferisce nella Compagnia di disciplina, il reparto di lavoro più duro. Anziché il misero pasto al giorno, solo una brodaglia ogni due giorni. Lo mandano in miniera un po’, poi nei boschi. “Quei boschi – sorride – sono stati forse la mia salvezza”. Mentre scava le trincee in mezzo agli alberi, trova vermi e lumache che può inghiottire.

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William Ferrari tra il figlio Paolo e il nipote Matteo

Nella baracca gelata dove torna alla sera i suoi compagni sono russi, francesi, anche tedeschi che si sono opposti al regime. Due gli anni passati lì, con inverni di 13 gradi sottozero e oltre, neve, sfinimento, fame e bastonate che ogni tanto il prigioniero incaricato di controllarli tira contro di loro. “Lo faceva – spiega – per cercare di accattivarsi le simpatie dei tedeschi”. Nell’agosto del 1945 esce dalla baracca e vede il campo coperto di teli bianchi. E’ la resa tedesca. Sono arrivati i russi e gli americani. William segue un gruppo dove capisce che ci sono altri italiani come lui. E’ un carro americano. Lo visitano, curano ferite, danno cibo poco a poco per non traumatizzare i fisici debilitati. Un mese dopo William riparte per l’Italia. Arriva finalmente a Ferrara. Ritrova la famiglia, si sposa e ora ha il figlio Paolo, 51 anni, e il nipote Matteo, 24 anni. Il passato entra nel presente. Il Museo della Resistenza lo racconta.

La mostra è “William Ferrari, un marinaio tra guerra e deportazione”, in corso Ercole I d’Este 19, fino all’8 febbraio, ore 9-13 e 15-18, chiuso il lunedì.

Mai più… Parole, parole, parole, soltanto parole

È più forte di me continuare a chiedermi, non solo da oggi, ma soprattutto oggi, a che cosa è servito istituire la Giornata della Memoria il 20 luglio dell’anno 2000? L’unica cosa positiva è la “consolazione”, se così si può definire, che, almeno in quel giorno, gli studenti di tutte le età verranno informati sulla tragedia della Shoah, augurandoci che abbiano insegnanti “preparati e obiettivi”…. Poesie, canti, disegni, filmati, li si porterà a visitare Auschwitz, si farà ripetere loro in coro, come un disco rotto: “Che non accada mai più”. E poi? E poi si darà inizio al solito “Festival” degli “attori e cantanti”, la passerella dell’ipocrisia dei troppi, per fortuna non tutti, che se la canteranno e se la suoneranno al meglio, coloro che hanno sempre dimostrato disinteresse sulla Shoah ma che in quel giorno faranno a gara a chi salirà sul “palco della stampa e della televisione”, solamente per visibilità e nel riproporci le stesse cose imparate a memoria per l’occasione. Ciò che andrebbe seriamente affrontato è quel “NON ACCADA MAI PIU'”, e come sia possibile che, dopo circa 70 anni dalla Shoah, gli ebrei siano costretti a fuggire dall’Italia e dall’Europa perché, di nuovo, perseguitati ed uccisi! Preciso: non solo dal terrorismo islamico! Non si intende dare la responsabilità esclusivamente all’Islam per nascondere inefficienza, ignoranza e menefreghismo di carattere politico italiano e europeo.
È in atto una rinascita antisemita (mai sopita) sia dall’estrema destra che dall’estrema sinistra, che si va ad aggiungere anche ad una certa informazione che, come ho già scritto più volte, è faziosa, strumentale, bugiarda, e schifosamente e tendenzialmente antisemita, pericolosissima perché tende a destabilizzare i già precari equilibri!
Desidero fare un passo indietro, poiché proprio oggi stiamo ritornando vergognosamente indietro, visto che non ho mai dimenticato di quando si preferiva stendere un “velo pietoso”(per non informare e ricordare) sulla tragedia della Shoah, anzi bisognerebbe definirle “lenzuolate pietose”” lunghe circa 70 anni, non solo veli! Ricordo ancora le difficoltà e le incomprensioni incontrate negli anni ’80, ripeto anni ’80, non anni ’50-’60,che sarebbero stati un po’ più “giustificabili”, vista la vicinanza con la fine del conflitto mondiale, quando decisi di affrontare questo lungo viaggio dentro all’orrore della deportazione e dei campi di sterminio. Impensabile presentare gli esiti pittorici su quella tristissima fase della storia umana che è stato il genocidio: si preferiva continuare a stendere il solito “velo” su quegli anni. Ero una giovane pittrice, ma nonostante tutti i problemi che mi sono stati creati sono andata avanti con determinazione sconfiggendo tutti i detrattori. Le mie 28 opere dell” ‘Olocausto”, dedicate soprattutto ai bambini e ai ragazzi delle scuole, viaggiarono in varie parti d’Europa e raggiunsero anche l’America senza contare i tanti luoghi italiani, perché “In un vecchio cassetto fra i giochi della mia infanzia ho trovato un piccolo panno a forma di stella…” Così iniziava il mio percorso, emozionava e li spingeva a “viaggiare” insieme a me nel ricordo dell’ orrore. Erano queste le parole che davano inizio al mio viaggio pittorico: “Per non dimenticare”. Fortunatamente la stampa e la Tv locale (Telestense) mi fu vicina in modo molto evidente: “La scuola corre in massa, Il Capo Rabbino di Ferrara, così come il Rabbino Capo di Roma Toaff, come molti altri esponenti delle Comunità israelitiche italiane hanno manifestato la loro commossa adesione allo scavo storico e psicologico effettuato da Laura Rossi sulla vicenda di un popolo e di una cultura che diviene idealmente patrimonio collettivo di arrichimento e crescita”.
Emozionante l’incontro dopo circa dieci anni, dalla mia prima esposizione, con Franco Perlasca,( grazie alla solidarietà manifestatami da An e FI), allora giovane assessore al comune di Padova e figlio dell’eroe Giorgio Perlasca, lo Schindler italiano, il quale accettò l’invito a raggiungermi a Ferrara dove emozionò il pubblico presente con un magnifico intervento sulla mia mostra dell’ Olocausto, riproposta in quell’occasione, in una Ferrara seppur ancora molto schiva, impreparata e lontana come altre realtà italiane. E’ doveroso ricordare, nello stesso periodo, anche la solidarietà e l’interessamento dell’ ex sindaco di Ferrara Roberto Soffritti , dell’ ex assessore alla cultura Dario Franceschini (ora Ministro della Cultura), che mi ospitarono al Museo del Risorgimento della mia città. Non dimentico il Liceo Ariosto di Ferrara nella persona della Prof. Silvana Onofri e della cara amica, prematuramente scomparsa, Paola Ricci che volle il mio Olocausto nelle scuole di Lagosanto(Ferrara).

Mi sentii orgogliosa ad aver contribuito all'”apertura” dei cancelli di Auschwitz, fiduciosa che si aprissero anche le fioriture dentro le mura dei ghetti. Ahimè, la realtà è tutt’altra cosa e mi vergogno di tutti coloro che ancor’oggi fanno dell’antisemitismo la loro sporca e insanguinata bandiera.
L’ANPI italiana di oggi, ovvero i “partigiani” nati a guerra finita, dovrebbero riflettere moltissimo. Che lo facciano o meno, sarà una loro scelta.
Conclusioni: non è cambiato nulla, ora vi è solamente molta più ipocrisia. Era preferibile l’ indifferenza manifestata alla luce del sole: era più facile combatterla perché meno insidiosa.

Concordo con Ariel Shimona Edith Besozzi: “Per questo vi chiedo, in rispetto delle vittime della Shoah, se non siete con noi, con Israele, se non siete pronti a combattere il terrorismo, se non siete pronti a combattere perché noi si sia liberi di stare ovunque: eliminate la celebrazione della Giornata della Memoria!”

Laura Rossi- Italia-Israele.

In Olanda una vetrina di grande importanza per Comacchio ed il Delta

da: ufficio stampa Provincia di Ferrara

Ultimi giorni a Utrecht per gli operatori della costa comacchiese, impegnati da martedì scorso alla manifestazione “Vakantiebeurs”, la principale fiera turistica del mercato olandese, con un proprio stand “brandizzato” nell’ambito del progetto di promo-commercializzazione “Vacanze Natura”.
Nella giornata di venerdì alla promozione fieristica si è unita la realizzazione dell’evento “BirdWilDestination Emilia Romagna, Italy: a bridge between two of the most beautiful Italian protected areas, Po Delta Park and Casentino Forests Park”, una serata organizzata dai due GAL “Delta 2000” e “Altra Romagna”, finalizzata a presentare gli aspetti ambientali e naturalistici che caratterizzano i due territori e le rispettive potenzialità di slow tourism e birdwatching. Presenti alla serata il Sindaco di Comacchio Marco Fabbri, l’Assessore al Turismo Sergio Provasi, il Dirigente del Servizio Turismo Roberto Cantagalli, i rappresentanti dei due GAL Giancarlo Malacarne e Romano Casamenti, il consulente Econstat Stefano Dall’Aglio, il Tour Leader ed esperto birdwatcher Menotti Passarella oltre agli operatori privati di Comacchio, che hanno avuto occasione di incontrare il Responsabile Turismo della VBN (il corrispettivo olandese della LIPU) che ha parlato della ricettività turistica del mercato olandese fornendo utili consigli su segmenti e prodotti sui quali vale la pena puntare per attrarre nuovi clienti. La serata si è, poi, conclusa con una degustazione di prodotti tipici dell’enogastronomia emiliano-romagnola tra i quali numerose specialità offerte dal Comune di Voghiera, dal Consorzio Aglio DOP e dalle aziende “Gattabianca” e “Pettyrosso”.
Una settimana, dunque, che ha offerto una vetrina di grande importanza per Comacchio ed il Parco del Delta, promossi nell’ambito di una nazione che per il nostro territorio rappresenta il secondo mercato per presenze, dopo la Germania. Un’azione sinergica pubblico-privato capace di offrire un’immagine di grande Comacchio, che hanno avuto occasione di incontrare il Responsabile Turismo della VBN (il corrispettivo olandese della LIPU) che ha parlato della ricettività turistica del mercato olandese fornendo utili consigli su segmenti e prodotti sui quali vale la pena puntare per attrarre nuovi clienti. La serata si è, poi, conclusa con una degustazione di prodotti tipici dell’enogastronomia emiliano-romagnola tra i quali numerose specialità offerte dal Comune di Voghiera, dal Consorzio Aglio DOP e dalle aziende “Gattabianca” e “Pettyrosso”.
Una settimana, dunque, che ha offerto una vetrina di grande importanza per Comacchio ed il Parco del Delta, promossi nell’ambito di una nazione che per il nostro territorio rappresenta il secondo mercato per presenze, dopo la Germania. Un’azione sinergica pubblico-privato capace di offrire un’immagine di grande nche dopo Utrecht visto che lo stand di Comacchio sarà presente alle due fiere tedesche di Stoccarda e Monaco mentre i consorzi “Visit Ferrara” e “Cogetour” parteciperanno a “Fiets en Wandelbeurs”, la manifestazione fieristica dedicata agli amanti della bicicletta e del trekking che si svolgerà ad Amsterdam dal 31 gennaio al 1 febbraio.

Giorgio Stefani: alchimia cibernetica

Per le edizioni La Voce della Dardagna, poi riediti in trilogia per Schifanoia editore (Ferrara) con i titoli “Il re della terra”, “Il golem”, “Viaggio astrale”, Giorgio Stefani, originario di Milano, poi stabilitosi a Ferrara, presentò a suo tempo (fine anni ’90) “Hope e la pietra di luce” (I racconti del manoscritto) ovvero narrativa neo-fantastica e neo-esoterica: un tourbillon scorrevolissimo ed avvincente tra i fantasmi cibernetici di Calvino, l’archetipo di “Praga città magica”, alla luce e soprattutto di certa alchimia più scientifica, l’affascinante archetipo del Golem, “Adamo” dei robot contemporanei di Asimov o dei replicanti di “Blade Runner”.
La scrittura, tuttavia, trasparentemente ottocentesca alla Hoffmann, sempre in bilico tra sogno letterario, profezia visionaria e realtà storica. E curiosamente, l’edizione originale del Golem di Stefani, apparve in forma grafica stile manoscritto elettromeccanico… con tutto il mistero antico dell’alchimia e dell’odierna computer science
Una fase letteraria probabile vertice di Giorgio Stefani, focalizzata su certo fantastico quasi ante litteram, il futuro anteriore come Comunicazione attraverso l’esca narrativa, con esiti eccelsi. Autore inoltre di “Black and Blues” (poemetto neo-beat, Schifanoia, 2002) e con L. Govoni di “San Giorgio e il drago: teletrasporto magico (con antifona e cinque sequenze)” (Schifanoia, 2001) ecc.
Giorgio Stefani sperimentò anche l’editoria proprio con Schifanoia per qualche tempo, di particolare levatura e professionalità “classica” con esiti notevoli: tra poesia, narrativa e saggistica stessa, tra – ancora – fantastico, post-realismo e futuribile.
Come editore promosse, ad esempio, alcuni autori poi di buona fama local e global, da Luigi Bosi a chi scrive, lo stesso Maurizio Oliviero (un avvincente libro sulla Spal), Riccardo Roversi, ecc. E pure il fantascientifico Ray Groundhog segnalato anche da Fantascienza.com/Il Corriere della Fantascienza [vedi].
Più in generale, in particolare la trilogia quasi tecno-magica di Stefani, oggi, a distanza di anni, suona come una affascinante semi-anticipazione o parallelismo laterale di certo ritorno a certo sublime nuovo medioevo pur aggiornato, in certo senso tra gli stessi Evangelisti e Simoni, lo stesso Dan Brown, relativamente parlando (all’epoca dello Stefani scrittore, oggi ritiratosi sull’Appennino, il grande Eco post “Nome della Rosa” in grande spolvero e anno zero in Italia di certo trend): un autore, riassumendo, in tal senso da riscoprire, a Ferrara penalizzato da certi confini poco estensivi.

Per saperne di più visita il catalogo della Schifanoia editore [vedi].

* da Roby Guerra, “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Ediiton-La Carmelina ebook [vedi]

L’OPINIONE
“Je suis…”, un facile slogan

Questi sono i giorni in cui tutti noi siamo molto impegnati a trasformare il nostro “io egocentrico ed individualista” in un “io altruista e collettivo”.
In conseguenza dei drammatici episodi accaduti in Francia, siamo diventati tutti Charlie ma anche Ahmed e addirittura ebrei.
Siamo stati bravi in questa difficile metamorfosi e quel che mi sorprende di più è che ci siamo riusciti con grande facilità, dimostrando un’empatia insolita di questi tempi.
Siamo stati così bravi che trovo strano come molti invece non riescano ancora, con la stessa facilità, ad affermare: siamo palestinesi, siamo curdi, siamo nigeriani o addirittura musulmani.
Siamo stati talmente bravi che mi sembra singolare il fatto che tanta gente non sia riuscita a indignarsi a dovere di fronte all’ipocrisia mostrata in mondovisione da certi governanti, calpestatori di libertà individuali e “masters of war” che domenica scorsa hanno sfilato fianco a fianco a Place de la République, come paladini della libertà d’espressione.
È stato facile per tutti noi perché si è trattato solo di scrivere, di cinguettare, di indossare una frase semplice: “#JeSuisCharlie”.
Una frase che, come un abito blu, può essere vestita con facilità da chiunque, anche dalle personalità meno coerenti; una frase di moda che non sfigura e che fa sembrare eleganti nei salotti buoni.
Una frase facile che poi però viene digerita in fretta perché, oggi, anche i peggiori paradossi sono solubili nel fango putrido di questo misero presente.
Pur avendo tentato anche io, nel mio piccolo, di essere Charlie sono stato e sono insofferente ai facili slogan e alle conseguenti adesioni di massa, soprattutto se non ci si fanno troppe domande su ciò che è davvero avvenuto (spero concorderete che di aspetti poco chiari ce ne sono un bel po’ in questa tragica vicenda).
Confesso poi che, pur non avendo mai avuto occasione di leggere con continuità la rivista Charlie Hebdo, dico che alcune vignette mi piacciono molto, altre invece neanche un po’, anzi ultimamente mi sembrano addirittura intolleranti e/o islamofobe.
Non ho comprato l’ultimo numero di Charlie Hebdo in allegato con Il Fatto Quotidiano e non mi sento in colpa.
Ciò non toglie però che quei giornalisti avessero e abbiano il sacrosanto diritto di esprimere le loro opinioni, nella maniera che ritengono più opportuna.
Credo, in maniera convinta, nella libertà di espressione.
Ci credo anche se non sempre mi piace ciò che certi artisti o giornalisti esprimono con le proprie idee ed i loro messaggi.
Ma ci credo non solo quando gli eventi drammatici portano i mass media a propinarci conclusioni che fanno comodo e che ci coinvolgono a tal punto da farci sentire combattenti coraggiosi in difesa delle libertà, sotto la bandiera transitoria di Je Suis Charlie.
Credo e provo a difendere la libertà di espressione anche quando si tratta di un’immagine che raffigura il nostro vescovo con una barbie in mano in un manifesto che pubblicizza un concerto di vari gruppi punk a Ferrara; ci credo anche quando, in televisione, alcuni artisti vengono epurati da certi programmi televisivi; ci credo anche quando le copertine dei dischi non sono sempre “affascinanti e zuccherose”; ci credo anche quando le parole delle canzoni o delle poesie danno fastidio o urtano certe sensibilità; ci credo quando i film o i documentari graffiano la superficie per cercare la verità.
Ci credo e mi riconosco nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e nell’articolo 21 della nostra Costituzione che recita: “Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili. Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.”
Essere Charlie, per me, vuol dire anche preoccuparsi di come questa solidarietà possa essere usata da chi ha interessi ben lontani dalla difesa dei diritti delle persone e delle libertà individuali.
Occorre insomma far attenzione al pericolo delle strumentalizzazioni che oggi ti fanno essere Charlie e domani non si sa chi.
Ho letto una lettera, sui recenti fatti di Parigi, scritta da alcuni professori e pubblicata l’altro ieri da Le Monde.
La incollo di seguito perché mi sembra essere un ragionamento ‘forte’ che invita ad uscire dalla logica di chi, colpevolizzando gli altri, si sente il più giusto e quello con la verità “take away” regalata dai media, già pronta ed offerta su un bel piatto d’argento.
Comunque la pensiate, buona partecipazione.

da Le Monde del 13 gennaio 2015
“Siamo professori di Seine-Saint-Denis. Intellettuali, scienziati, adulti, libertari, abbiamo imparato a fare a meno di Dio e a detestare il potere e il suo godimento perverso.
Non abbiamo altro maestro all’infuori del sapere. Questo discorso ci rassicura, a causa della sua ipotetica coerenza razionale e il nostro status sociale lo legittima.
Quelli di Charlie Hebdo ci facevano ridere; condividevamo i loro valori.
In questo, l’attentato ci colpisce.
Anche se alcuni di noi non hanno mai avuto il coraggio di tanta insolenza, noi siamo feriti.
Noi siamo Charlie per questo.
Ma facciamo lo sforzo di un cambio di punto di vista e proviamo a guardarci come ci guardano i nostri studenti.
Siamo ben vestiti, ben curati, indossiamo scarpe comode, siamo al di là di quelle contingenze materiali che fanno sì che noi non sbaviamo sugli oggetti di consumo che fanno sognare i nostri studenti: se non li possediamo è forse anche perché potremmo avere i mezzi per possederli.
Andiamo in vacanza, viviamo in mezzo ai libri, frequentiamo persone cortesi e raffinate, eleganti e colte.
Consideriamo un dato acquisito che la libertà che guida il popolo e Candido fanno parte del patrimonio dell’umanità. Ci direte che l’universale è di diritto e non di fatto e che molti abitanti del pianeta non conoscono Voltaire? Che banda di ignoranti…
È tempo che entrino nella Storia: il discorso di Dakar lo ha già spiegato loro.
Per quanto riguarda coloro che vengono da altrove e vivono tra noi, che tacciano e obbediscano.
Se i crimini perpetrati da questi assassini sono odiosi, ciò che è terribile è che essi parlano francese, con l’accento dei giovani di periferia.
Questi due assassini sono come i nostri studenti.
Il trauma, per noi, sta anche nel sentire quella voce, quell’accento, quelle parole.
Ecco cosa ci ha fatti sentire responsabili.
Ovviamente, non noi personalmente: ecco cosa diranno i nostri amici che ammirano il nostro impegno quotidiano.
Ma che nessuno venga a dirci che con tutto quello che facciamo siamo sdoganati da questa responsabilità.
Noi, cioè i funzionari di uno Stato inadempiente, noi, i professori di una scuola che ha lasciato quei due e molti altri ai lati della strada dei valori repubblicani,
noi, cittadini francesi che passiamo il tempo a lamentarci dell’aumento delle tasse,
noi contribuenti che approfittiamo di ogni scudo fiscale quando possiamo,
noi che abbiamo lasciato l’individuo vincere sul collettivo,
noi che non facciamo politica o prendiamo in giro coloro che la fanno, ecc.:
noi siamo responsabili di questa situazione.
Quelli di Charlie Hebdo erano i nostri fratelli: li piangiamo come tali.
I loro assassini erano orfani, in affidamento: pupilli della nazione, figli di Francia.
I nostri figli hanno quindi ucciso i nostri fratelli.
Tragedia. In qualsiasi cultura questo provoca quel sentimento che non è mai evocato da qualche giorno: la vergogna.
Allora, noi diciamo la nostra vergogna.
Vergogna e collera: ecco una situazione psicologica ben più scomoda che il dolore e la rabbia.
Se proviamo dolore e rabbia possiamo accusare gli altri.
Ma come fare quando si prova vergogna e si è in collera verso gli assassini, ma anche verso se stessi?
Nessuno, nei media, parla di questa vergogna. Nessuno sembra volersene assumere la responsabilità.
Quella di uno Stato che lascia degli imbecilli e degli psicotici marcire in prigione e diventare il giocattolo di manipolatori perversi, quella di una scuola che viene privata di mezzi e di sostegno, quella di una politica urbanistica che rinchiude gli schiavi (senza documenti, senza tessera elettorale, senza nome, senza denti) in cloache di periferia.
Quella di una classe politica che non ha capito che la virtù si insegna solo attraverso l’esempio.
Intellettuali, pensatori, universitari, artisti, giornalisti: abbiamo visto morire uomini che erano dei nostri.
Quelli che li hanno uccisi sono figli della Francia.
Allora, apriamo gli occhi sulla situazione, per capire come siamo arrivati qua, per agire e costruire una società laica e colta, più giusta, più libera, più uguale, più fraterna.
«Nous sommes Charlie», possiamo appuntarci sul risvolto della giacca.
Ma affermare solidarietà alle vittime non ci esenterà della responsabilità collettiva di questo delitto.
Noi siamo anche i genitori dei tre assassini.”

I firmatari di questo testo sono: Damien Boussard, Valérie Louys, Isabelle Richer e Catherine Robert, professori al Liceo Le Corbusier a Aubervilliers

Fonte [vedi]

Traduzione di Claudia Vago

Al via Junior! la rassegna pomeridiana per ragazzi

da: ufficio stampa Comune di Comacchio

Tornano domani pomeriggio gli appuntamenti con “Junior! Pomeriggi a teatro con mamma e papà”, il programma pomeridiano di “Comacchio a Teatro” dedicato ai più piccoli.

La rassegna prevede ben quattro appuntamenti con altrettante produzioni scelte tra le migliori del panorama nazionale del teatro per ragazzi, non solo burattini, ma anche fiabe animate, figure e pupazzi. Protagonista del primo appuntamento sarà appunto una delle più
apprezzate compagnie italiane, Nata Teatro, che da un trentennio opera con successo in tanti settori della produzione teatrale ed in particolare in quello per l’infanzia e la gioventù. La compagnia porterà in scena sul palco della Sala Polivalente di Palazzo Bellini uno dei suoi cavalli di battaglia, L’Elefante Scureggione. Una favola moderna e allegra, sulla tolleranza, sull’accettazione dei propri difetti e sull’amicizia. Protagonista un elefante con un piccolo
problema, rumoroso e puzzolente. Da piccolo tutto andava bene, e le sue puzzette erano ben tollerate. Ma diventato grande… queste sono diventate un grosso problema. Spettinano il Leone, sconquassano gli ippopotami e fanno svenire scimmie e scimpanzé. L’elefante, rattristato, decide di trasferirsi in città. Qui le cose sembra che possano andare meglio. Ma purtroppo le sorprese non sono ancora finite…L’inizio è fissato per le ore 16. La biglietteria sarà aperta dalle ore 15. Prevendita on-line, programma completo e tutte le informazioni sono
disponibili sul sito www.comacchioateatro.it. Info e prenotazioni al numero 349/0807587. L’appuntamento successivo è in programma domenica prossima, 25 gennaio, con un’altra eccellenza del teatro italiano: Gigio Brunello porterà in scena il suo pluripremiato spettacolo Big Five – Big Savana Animals.

Ogm: libertà nell’UE, positiva chiusura semestre Italiano

da: ufficio stampa Coldiretti

Coldiretti, salvi i 41 prodotti Dop e Igp e i 305 prodotti tipici dell’Emilia Romagna.
Progetto dei Consorzi Agrari per una filiera mangimi certificata no-Ogm

La libertà di non coltivare Ogm, sancito definitivamente dall’Unione Europea al termine del semestre di presidenza italiana, è un fatto importante in particolare per l’Emilia Romagna e per i suoi 41 prodotti agroalimentari a denominazione d’origine e i 305 prodotti iscritto all’albo dei prodotti tradizionali. E’ quanto afferma Coldiretti Emilia Romagna nel commentare positivamente il via libera finale dell’Europarlamento alla direttiva che consentirà ai Paesi membri dell’Ue di limitare o proibire la coltivazione di organismi geneticamente modificati (Ogm) sul territorio nazionale, anche se questi sono autorizzati a livello europeo.
“E’ una decisione – ha commentato il presidente di Coldiretti Emilia Romagna, Mauro Tonello – che rispetta innanzitutto la volontà dei cittadini, il 76 per cento dei quali (in pratica 8 su 10) si oppongono al biotech nei campi. In secondo luogo tutela i prodotti tipici che sono la vera ricchezza della nostra agricoltura famosa in tutto il mondo, ma che viene spesso insidiata dalle multinazionali del biotech che vorrebbero la diffusione dei semi transgenici”.
Per l’Italia gli organismi geneticamente modificati in agricoltura – ricorda Coldiretti Emilia Romagna – non pongono solo seri problemi di sicurezza ambientale, ma soprattutto perseguono un modello di sviluppo che è il grande alleato dell’omologazione e il grande nemico del Made in Italy. Secondo una analisi di Coldiretti, nell’Unione Europea, nonostante l’azione delle lobbies che producono Ogm, nel 2013 sono rimasti solo cinque Paesi, su ventotto, a coltivare Ogm (Spagna, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovacchia e Romania), con appena 148mila ettari di mais transgenico MON810 seminati nel 2013, la quasi totalità dei quali in Spagna (136.962 ettari).
“Una agricoltura senza Ogm – afferma Tonello – è fondamentale per la nostra biodiversità e la distintività dei nostri prodotti che sono il vero patrimonio del made in Italy. Per questo i Consorzi Agrari dell’Emilia Romagna, in raccordo con quelli di tutta Italia – ha detto Tonello – stanno realizzando nel settore dei mangimi, uno dei più a rischio contaminazioni, una filiera certificata no-Ogm per aziende agricole e allevamenti. I Consorzi Agrari andranno anche oltre: da tre anni stanno infatti sperimentando un nuovo sistema per combattere le aflatossine del mais contro cui gli Ogm sono di fatto impotenti”.

LA RIFLESSIONE
La semplificazione

Ricordo un ministro per la Semplificazione normativa, un certo Calderoli, chirurgo maxillo-facciale prestato alla politica, che aveva promesso la semplificazione della burocrazia e che si era elettoralmente riscaldato al rogo di non so quante migliaia di leggi e norme dichiarate obsolete.
Senza giungere però a cassare l’avviso dell’avviso. Ti avviso che ti ho avvisato.
Si tratta di uno zelo o scrupolo sancito da una sentenza del 1998 della Corte costituzionale, nel caso in cui la notifica di un atto giudiziario non venga recapitata direttamente nelle mani del suo destinatario o di qualcuno che si impegni a fargliela pervenire.
Sarà capitato a tanti, immagino, al rientro a casa di trovare nella cassetta della posta una striscia di carta bianca con la quale le Poste italiane avvisano dell’esistenza di una Raccomandata A.R. di cui non è stato possibile effettuare il recapito per assenza del titolare o di persone abilitate a ricevere l’atto. E vi si avvisa che ‘l’avviso di giacenza’ è stato immesso in cassetta. E dove se no, visto che proprio lì l’avete trovato?
Ora siete informato che avete sei mesi di tempo per recarvi all’ufficio postale indicato per ritirare l’atto che vi riguarda, cosa che tutti facciamo con una certa celerità, ansiosi di sapere se si tratta di una contravvenzione o di qualcosa d’altro del tutto inaspettato. Comunque che vi diate da fare o meno, che abbiate scoperto o meno il foglietto bianco nella buca della posta, trascorsi dieci giorni, la ‘notificazione’ è data per eseguita, c’è scritto sempre sul foglietto bianco che avete appena prelevato dalla vostra cassetta.
E allora perché il giorno dopo vi arriva dalle Poste italiane un’altra Raccomandata A.R. che all’interno custodisce una striscia bianca perfettamente identica a quella che il giorno avanti avete rinvenuto nella vostra cassetta postale?
Vi hanno preso per insipiente? Se poi le Poste danno comunque per notificato l’avviso di deposito dopo dieci giorni, a cosa serve questa ulteriore raccomandata, che per un attimo vi fa pensare d’essere improvvisamente perseguitato da una catena di atti giudiziari?
Il tutto perché la materia del recapito degli atti giudiziari è disciplinata dall’art. 8, secondo comma, della legge n. 890 del 1982, comma ritenuto incostituzionale dalla Corte Costituzionale, che nel caso di mancata consegna ha imposto l’invio della ‘Comunicazione di Avvenuto Deposito’ per raccomandata con avviso di ricevimento.
Si tratta di quelle disposizioni che hanno tanto il sapore della capziosità dell’avvocato Azzeccagarbugli di manzoniana memoria. Perché, se trascorsi dieci giorni devo comunque considerarmi notificato, l’ulteriore raccomandata non è altro che un leguleio spreco di tempo e di denaro.
Mi rifiuto di immaginare l’accumulo di strisce bianche e di buste dalle gamme di verdi impossibili, quasi da autostoppista galattico, nella cassetta delle lettere di un destinatario assente contumace ai reiterati avvisi dell’avviso.
C’è addirittura una letteratura nelle AVVERTENZE che stazionano entro finestre, due per dieci, sulle buste rettangolari del ‘Servizio notificazione atti giudiziari/amministrativi’ e sulla conseguente ‘Comunicazione di avvenuto deposito’, vere e proprie trame da scriverci un romanzo, se si pensa ai personaggi e ai luoghi che evocano.
Intanto il protagonista che deve giungere nelle mani del suo destinatario assume l’identità fascinosa di ‘plico’, deve essere assolutamente consegnato all’intimità di una persona di famiglia, e qui la storia si dipana tra i conviventi, anche quelli dai legami deboli come possono essere conviventi solo temporanei, fino alla servitù della casa o persone al servizio del destinatario, e allora si possono immaginare gli intrighi di dimore patriarcali. C’è pure il dramma della malattia mentale, il plico rifiuta il soccorso di mani psicolabili o irresponsabili come quelle dei giovinetti al di sotto dei quattordici anni. Ma non disdegna il portiere dello stabile, altro personaggio di rilievo, quasi medium magico, che mai deve mancare in tutte le favole che si rispettino.
Alla fine, se tutti gli sforzi risultassero vani, nel tentativo di giungere tra le mani dell’eletto, al povero plico non resta che l’ingrato destino d’essere rinchiuso nella gabbia della cassetta postale, in febbrile attesa d’essere liberato.
Ma le avvertenze prevedono anche un altro finale per il plico, quello di essere affisso alla porta d’ingresso del suo anelato destinatario, come una sorta di editto esposto allo sguardo di tutti alla faccia dell’odiosa privacy.
Forse ‘semplificazione’, al contrario di quanto la parola, quasi fosse un falso amico, suggerisce, è davvero troppo complicata da realizzare. Così perdura la sovranità della carta ai tempi della rivoluzione tecnologica, che poi tanto rivoluzione evidentemente ancora non è.

NOTA A MARGINE
E-Book, strategica alleanza tra carta e byte

Alla biblioteca Ariostea (1391) nella sala di incontri con il soffitto ligneo affrescato nel 1600 si è parlato di eBook o meglio del libro digitale, per non dimenticare l’italiano. Lo hanno fatto Cristina Fiorentini, responsabile della rete civica del Comune, e Fausto Natali, referente del servizio biblioteche, raccontandoci cosa è, come funziona e a cosa serve. Tra informazioni e curiosità si è affrontato un tema per molti ancora non ben conosciuto, ma che nel servizio biblioteche presto avrà un ruolo e crescerà di importanza. Una promessa o una minaccia? Le tecnologie minacciano il libro? In fondo, tendiamo a dividerci su tutto tra favorevoli e contrari, senza considerare la migliore soluzione “dell’anche”. Iniziamo il confronto.
I critici dicono che i libri sono belli e soddisfa annusarli, toccarli, sentirli, guardarli sugli scaffali. I libri sono la storia, specie quelli antichi. Però occupano spazio, si impolverano, costano, ma questi non sono difetti, sono caratteristiche.
I favorevoli, invece, lo promuovono affermando che sono leggeri, sono tantissimi, anche gratis, retroilluminati. Si può ormai entrare nelle migliori biblioteche del mondo. Nel lettore se ne tengono alcune migliaia e si portano con sé senza fatica. Poi chi legge libri digitali legge di più e utilizza un altro linguaggio: store, e-reader, Kindle, IPad, eBook, cloud, opensource, Html, digital publishing, calibre.
Ma ha senso trovare un vincitore? In fondo tra carta e byte ci potrebbe essere una strategica alleanza, già ora molti libri si possono trovare nelle due soluzioni.
Il mercato del libro digitale ormai rappresenta un quota significativa (5-8%), anche se ha iniziato a svilupparsi solo da una decina di anni. Al contrario i libri di carta purtroppo calano le vendite da qualche anno in tutto il mondo e solo il 43% dei cittadini italiani legge con frequenza. Per fortuna i giovani leggono sempre di più; questo favorisce i nativi digitali e quindi l’approccio informatico. Si prevede che tra alcuni anni tra i due mercati ci sarà equilibrio (magari in Italia qualche anno dopo).
Il prezzo varia molto (in genere il digitale è inferiore alla carta, ma non come molti si aspettavano) e spesso sono i ricavi e non i costi ad avere il ruolo principale. Ormai quasi tutte le case editrici ne sono fornite.
Il mondo della scuola si sta attrezzando e la digitalizzazione ormai è alla portata di tutti.
Io (purtroppo) ho la lettura veloce e mi piace leggere di tutto e dunque anche gli eBook (ingrandendo i caratteri per non mettermi gli occhiali), ma spero che il libro classico non mi abbandoni; in fondo gli voglio bene, mi ha seguito per tanti anni e vorrei continuasse ancora. Un apprezzamento finale va dato ad iniziative come ComuneEbook, un bel progetto di editoria digitale del Comune di Ferrara, in corso di avvio.

Riempiamo di vita le ‘Duchesse’, ma scordiamoci il giardino

Ogni tanto, qualcuno mi chiede cosa penso del Giardino delle Duchesse. Di solito rispondo: “Non penso”, cosa assolutamente non vera, ma che mi permette di evitare discussioni. In realtà quello che penso io è irrilevante, l’uso e la gestione di questo spazio non hanno mai scatenato i miei entusiasmi ma il fatto che ci sia di mezzo la parola ‘giardino’, mi irrita. Quando veniva usato come cortile di sgombero dei Grigioni aveva un suo scopo definito e onesto, una funzione condivisa da tutti quelli che, in barba alla storica origine del luogo, lo utilizzavano come retrobottega e ne avevano farcito le pareti con ogni sorta di tubo, grondaia, cassonetto, antenna o impianto, lasciando che muri e intonaci si scrostassero allegramente. Poi, un giorno, qualcuno si è svegliato e ha pensato, giustamente, di far resuscitare questo spazio. L’errore è stato definirlo da subito come recupero di un giardino. Il Verde a Ferrara c’è, e non mancano esempi di pregio o comunque di spazi trasformati dalla Storia, che hanno mantenuto una dignità e una riconoscibilità come tale, vedi il giardino della Palazzina di Marfisa o il giardino delle Sculture di Palazzo Massari. Quello che è rimasto del giardino usato dalle duchesse di casa d’Este, ha un valore storico indiscutibile, ma può essere conservato come documento, come atto, non può vincolare in eterno uno spazio con delle potenzialità urbanistiche del genere.
So che gli storici mi odieranno, ma le indagini storiche, filologiche, archeologiche, botaniche sui reperti dei pollini, erano analisi sensate per fornire materiale per una bella pubblicazione sui giardini di un palazzo a scala urbana come quello ferrarese, non per giustificare un investimento di ripristino. Ammettiamo che una ripulita generale e una griglia per rampicanti senza rampicante, non sono abbastanza per farlo risorgere né come giardino né come spazio pubblico, ma ci sono infiniti esempi, sparsi per l’Europa, di corti interne di palazzi antichi, dove i segni del passato convivono con nuove pavimentazioni, ingressi ben definiti, dove gli alberi sono curati e dove le pareti degli edifici svolgono il loro servizio, accogliendo senza paura, tubi e impianti, ma con quella attenzione che li rende dignitosi e sinceri, lasciando libero lo spazio per renderlo flessibile e accogliente.
Trovo sbagliato e fuorviante definire “le Duchesse” come un giardino, come viene sbandierato oggi nei messaggi di richiamo turistico. Giardino è una parola pesante, è la classica parola evocativa, cioè una parola che rimanda ad altro, una parola che solo a pensarla fa venire in mente il piacere e la bellezza. I giardini sono la forma concreta di un pensiero estetico, sono “cose” in cui si può toccare e vedere l’idea di una Natura bella corrispondente ad una cultura di un popolo o di una persona, in una data epoca. Nel Rinascimento questa idea estetica si esprimeva attraverso la geometria con cui si modellavano spazi e vegetali. Per mantenere tutto questo non mancava né il denaro né la manodopera, e comunque l’uso di questi giardini era destinato al godimento di poche persone. Il giardino è figlio di un progetto che ha bisogno di soldi per essere realizzato e poi mantenuto nel lungo termine, tutto il resto, è propaganda.
Mi costa dirlo e questo discorso non piace a nessuno, perché si vendono meglio i sogni e le promesse, ma anche il progetto più bello se viene fermato a metà strada per mancanza di soldi rimane cosa morta, e se nessuno lo cura dopo la foto di gruppo con le autorità, diventa una schifezza. Riempiamolo di vita, invece che di piante, trasformandolo veramente in un contenitore aperto, pulito, sobrio e funzionale per una sosta libera dall’obbligo di consumazione, spettacoli estemporanei, musica, mercatini, installazioni virtuali, sorprese, ecc. iniziative che vanno benissimo per valorizzare questo luogo, che per rivivere non ha bisogno delle onnipresenti opere d’arte messe a casaccio, di aiuolette sfiziose o dei tavolini di un ennesimo bar, ha bisogno di coraggio.
Si possono fare miliardi di proposte sulla carta, tutte potenzialmente realizzabili, ma progettare correttamente significa avere l’onestà di chiamare le cose con il loro nome e capire che quando non ci sono le risorse economiche è il momento di inventarsi delle alternative alle passeggiate di annoiate donzelle. Di giardini fatti male, musei all’aperto raffazzonati, bar e gazebi simil-tirolesi ne abbiamo anche troppi, quindi ben vengano progetti e idee, ma non chiamiamolo “giardino”, sarà il godere di un luogo piacevole, a far ritornare il ‘giardino’ alle Duchesse.

Foto di Andrea Musacci

IMMAGINARIO
Vestirsi di cultura.
La foto di oggi…

Sull’arte di vestirsi e svestirsi è incentrato il lavoro artistico di Mustafa Sabbagh, fotografo che si forma nel mondo della moda e finisce per trasformare in opera d’arte la sua indagine sul corpo come mezzo di comunicazione culturale. Nato in Giordania da una famiglia italo-palestinese, dopo un’esperienza al fianco di Richard Avedon a Londra, ha scelto di vivere a Ferrara. Alle sue foto viene da pensare leggendo il titolo – “Vestirsi e svestirsi agli occhi di altre culture” – dell’incontro di oggi al liceo statale Carducci di Ferrara. Un argomento di cui parlerà Piero Stefani, ferrarese, teologo e docente di Filosofia della religione. Il tema evoca le donne coi burka di Sabbagh visti alla Mlb home gallery cittadina, i suoi nudi gridati, le figure avvolte in monumentali costumi neri. Conversazione sul significato che c’è dietro l’abito oggi al liceo Carducci a cura della sezione cittadina di Federazione italiana donne arti professioni affari-Fidapa.

OGGI – IMMAGINARIO EVENTI

Ogni giorno immagini rappresentative di Ferrara in tutti i suoi molteplici aspetti, in tutte le sue varie sfaccettature. Foto o video di vita quotidiana, di ordinaria e straordinaria umanità, che raccontano la città, i suoi abitanti, le sue vicende, il paesaggio, la natura…

[clic su una foto per ingrandirla e vedere tutta la gallery]

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“Lusso con burka” esposto da Mustafa Sabbagh alla Maria Livia Brunelli home gallery di Ferrara
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Mustafa Sabbagh, dittico
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Dalla moda all’arte le immagini di Mustafa Sabbagh (foto Artisanal Intelligence, Altaroma)

GERMOGLI
Ritorno.
l’aforisma di oggi…

Una quotidiana pillola di saggezza o una perla di ironia per iniziare bene la giornata…

dino_basili_photoGreta e Vanessa, le due volontarie in missione siriana sono state rilasciate ieri. Al di là delle polemiche: la gioia del ritorno.

“Il viaggio perfetto è circolare. La gioia della partenza, la gioia del ritorno”. (Dino Basili)