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Giorno: 9 Aprile 2015

Vita di contrada
Sagre, giochi, eventi: San Paolo alla prova del fuoco

Il Chiostro di San Paolo offre un rifugio confortevole, protegge dalla pioggia scrosciante e le risate che provengono dall’interno invitano ad entrare. I lavori in corso rendono la sede poco agibile, in tutte le sale si nota l’opera di restauro, ma questo non ha impedito ai contradaioli di riunirsi. Le sarte sono all’opera, chiacchierano tra di loro misurando coroncine da dama e abbinando i colori delle stoffe, gli sbandieratori provano le coreografie e anche chi non si esercita è lì, scherzando con gli amici che si allenano.

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Spettacolo con le torce

Per Giulia e Michela è una serata speciale, sarà la prima volta che proveranno un esercizio con le torce accese. “Questo è il primo allenamento – mi racconta Andrea, nel gruppo fuoco da anni – e servirà a capire se fa per loro o se hanno paura del fuoco. Se si alleneranno e vorranno continuare, potranno fare la prima uscita subito dopo il Palio”. E’ la loro prima prova di quel genere, ma le due ragazze sono già attive in contrada da tanto. Giulia è cresciuta a San Paolo, è stata figurante, ha suonato il tamburo ed ora suona la chiarina, fa parte del gruppo di danza rinascimentale e ha deciso di imparare a giocare col fuoco. “Ho sfilato per la prima volta nella pancia di mia madre: a maggio lei è stata una figurante con il pancione e a luglio sono nata io, che ho avuto il mio primo vestito d’epoca a soli due anni. Mi piace provare tutto quello che offre la contrada, durante le gare spesso musici e giocoleria di fuoco partecipano insieme, quindi in quel caso dovrei scegliere, ma questo non significa che non posso imparare”.

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Cena propiziatoria prima del palio

Michela, invece, è entrata a far parte della contrada sei anni fa, nel 2009, spinta da amici di famiglia che da anni la invitavano a provare. “Quando ero piccola avrei potuto fare solo la figurante, ma sono troppo maschiaccio per queste cose. Ho deciso di provare a far parte del gruppo dei musici, suonando il tamburo, e ho scoperto che non solo mi piaceva suonare, ma anche l’atmosfera del gruppo, il divertimento e l’aria di sfida che si respira durante le gare. Prima di iscrivermi a San Paolo praticavo hip hop a livello agonistico, mi allenavo molto e mi portava via tanto tempo. Mi sono trovata costretta a scegliere tra le due cose, ho scelto la contrada”.

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Contradaioli esultanti davanti al Duomo per la vittoria del Palio dei cavalli 2014

Le ragazze tornano ad allenarsi, seguite da Simone che, negli anni, ha svolto il compito del ‘pifferaio magico‘, attirando i ragazzi nel mondo della contrada. Me lo racconta indicandomi i ragazzi presenti, l’ultimo è tra loro da due anni e decise di provare dopo aver visto uno spettacolo di fuoco. “Si pensa che chi fa parte di una contrada sia confinato tra le mura della sede e i luoghi del Palio – dice Andrea – e questo scoraggia molti, ma io per esempio, proprio grazie alle mie attività a San Paolo, ho avuto la possibilità di viaggiare molto. Sono stato, insieme ad altri del gruppo, in altre città italiane, come a Reggio Calabria, a Salerno o a Lecce, ma anche all’estero, a Frejus e a Parigi, a Londra, Monaco, Garmisch e Capodistria”.

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Fantino e cavallo vittoriosi

Gli eventi organizzati dal rione San Paolo al di fuori della contrada sono di tutti i tipi, allestiscono il chiostro per la Sagra degli arrosticini, che dura per quattro week end a partire da fine giugno, sono presenti durante i Buskers e divertono i bambini con il villaggio di Babbo Natale durante il periodo delle feste. “Dal primo di dicembre alla befana, in piazza del Municipio, tutti i bambini possono venirci a trovare nelle casette in legno che montiamo e addobbiamo per l’occasione. Con noi possono scrivere le letterine a Babbo Natale da appendere all’albero e farsi una foto con la slitta. Quando la fine delle vacanze natalizie si avvicina, prepariamo uno spettacolo per l’Epifania e bruciamo la befana: noi del gruppo fuoco creiamo il fantoccio della befana e come sputafuoco la incendiamo”.

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Battesimo di contrada, aprile 2014

Accanto al simbolo della contrada, l’Aquila Estense sulla ruota rossa della Fortuna, su uno sfondo bianco e nero, appare Daniele Bregola, ormai in pensione ma sempre presente. Dopo avermi parlato delle attività di contrada, dei cambiamenti nel corso degli anni e dell’ultima vittoria del Palio dei cavalli (avvenuta lo scorso anno dopo ventisette anni), mi racconta, ridacchiando insieme agli altri contradaioli presenti, della Vestizione dell’Ariosto: “Dal 1987 la nostra contrada ha una tradizione. Il sabato prima del Palio, durante la notte, tutti insieme, un po’ alticci, ci rechiamo in piazza Ariostea e, armati di palloncini ad elio, vestiamo la statua dell’Ariosto con i nostri colori, il bianco e il nero. Il primo anno, a dire il vero, non avevamo i palloncini ma delle canne da pesca, lanciammo il filo e uno di noi corse intorno alla piazza per creare un cappio e innalzare la nostra bandiera. E fu un momento particolare, perché la domenica seguente era prevista la messa di Papa Giovanni Paolo II, proprio in piazza Ariostea! Con gli anni le altre contrade hanno trovato molti modi per farcela pagare: un anno, dopo aver innalzato con destrezza i nostri colori, ci girammo e ci trovammo circondati da tutte le altre sette contrade, pronte a colpirci con dei palloncini d’acqua. Ce lo siamo meritati, ma è stato molto divertente”. Gli scherzi tra contrade sono tanti ed ogni anno sempre più fantasiosi, in contrada ne ricordano un paio ai danni di San Giacomo, riguardo una porta murata durante la serata del Giuramento e un carico di letame depositato in sede. “Un anno – dice Simone sogghignando – ho trovato davanti alla porta della sede di San Paolo un sanitario inchiodato, pieno fino all’orlo! Decisamente disgustoso, ma originale. Un’altra goliardia tra contrade, a cui noi non partecipiamo, è il furto delle bandiere, che durante il periodo del Palio i contradaioli appendono per tutto il loro territorio”.

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Fantino e contradaioli di San Paolo affacciati al davanzale della sala dell’Arengo, per la vittoria del Palio dei cavalli nel 2014

Ridono e scherzano, ormai il tempo degli allenamenti è finito ed è quasi ora di rientrare. Andrea mi mostra lo spazio degli sbandieratori, in cui sono appoggiate anche alcune scenografie.
“Il bello, oltre alla compagnia e alla tradizione, è il poter imparare a fare, costruire, dipingere inventare. Chiunque volesse unirsi ad una contrada ma non avesse tanto tempo da dedicarle, potrebbe fare anche questo genere di attività. Quello di cui sono certo è che non si può continuare a criticare le contrade senza conoscerle, quindi sono dell’idea che si debba provare per credere: se quello che raccontiamo non basta, invitiamo tutti a vivere la contrada per qualche tempo e sono certo che molti cambierebbero idea”.

Angeli caduti e abissi dell’inconscio

Lo skyline newyorkese illuminato dai colori puri delle luci elettriche potrebbe far pensare all’apologia trionfalistica della contemporaneità dei futuristi o all’esaltazione positivista dei ruggenti anni Venti. Poi si legge il titolo: “Il demone della modernità. Pittori visionari all’alba del secolo breve”. Ed ecco farsi strada quella sensazione di straniamento e di inquietudine che forse vi accompagnerà per tutta la visita alla mostra di Palazzo Roverella di Rovigo, curata da Giandomenico Romanelli – a cui la Fondazione della Cassa di risparmio di Padova e Rovigo aveva già affidato lo scorso anno “L’ossessione nordica” – con Franca Lugato e Alessia Vedova.

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Sascha Schneider, Grido di guerra, 1921

Ad essere esposto è un mondo fra due mondi, a cavallo fra Ottocento e Novecento, con artisti che presagiscono e poi raffigurano l’inutile strage che attende l’umanità appena oltrepassata la soglia del nuovo secolo. Ci si muove in un terreno accidentato, nel tentativo di capire cosa riserva l’insorgere di questa modernità che sembra incombere necessaria. Segni, presagi, indizi, nessuna strada sicura ancora tracciata, mentre dietro ci si lascia i simboli, cristiani e pagani, delle età passate che non sembrano più essere utili per orientarsi in questi nuovi territori.

Sei sezioni tematiche – Sotto il segno di Lucifero, Luoghi dell’illuminazione e Ziggurat dell’anima, Angeli demoni. Sogni incubi visioni, il Trionfo delle tenebre verso l’Olocausto mondiale, Altre metamorfosi e Luci(fero) tra i grattacieli – per esplorare questi nuovi territori della coscienza, tentando di non cadere negli oscuri baratri dell’inconscio. Fin dall’inizio non c’è nulla di definito: le creature fantastiche e oniriche di Odilon Redon e la “Salomè danzante” di Moreau accolgono i visitatori senza svelarsi fino in fondo, in loro c’è qualcosa di seducente quanto di sempre sfuggente.

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Franz von Stuck, ‘Lucifero’, 1889-1890

Così anche le sei incisioni del ciclo “Opus III” di Klinger, che alternano visioni dei progenitori biblici a visioni del futuro la cui interpretazione è lasciata in toto a chi guarda. Sono gli ultimi decadenti e sensuali contorcimenti del vecchio mondo arrivato ormai alla sua fine, osservati e dominati dagli occhi di bragia del “Lucifero” di Franz von Stuck, seduto come il Pensatore di Rodin, quasi sgomento di fronte a ciò di cui l’umanità sembra essere capace.

Le seconda sezione è una galleria di scorci di questo universo conteso, fra la fine delle certezze arcaiche e il precipitoso avvicendarsi della modernità. Si parte dall’osservazione della natura, ma ciò che vediamo non ha nulla del lirismo dei Romantici: il buio dell’inconscio è squarciato da violenti effetti luministici che hanno tutta l’artificiosità della dimensione interiore e l’artificialità delle nuove luci elettriche.

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Gabriel Jurkic, ‘La via verso l’eternità’, 1918

Sulla strada si incontrano angeli della tradizione occidentale e orientale, ma anch’essi sono spaesati e sembrano non essere più capaci di sostenere il ruolo di portatori di speranza: su una scalinata durante un rito di offerta, sulla cima di una montagna o su una spiaggia a scrutare l’orizzonte, oppure sulla soglia della via per l’eternità, ma a capo chino, come a non volersi più assumere questa responsabilità.

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Mikalojus Konstantinas Čiurlionis, Fantasy (The demon), 1909

La denuncia delle storture e delle ipocrisie della società borghese del ciclo “Opus VIII-Una vita” di Klinger è il preludio alle opere della sezione dedicata al presentimento del Primo conflitto mondiale: i lugubri tarocchi di Martini, raffiguranti la macabra danza delle potenze europee, e poi visioni di Apocalissi e angeli giganteschi che suonano le trombe del Giudizio Universale, mentre un barbuto e muscoloso Lucifero dalle possenti e affascinanti ali nere sogghigna trionfante guardando un Cristo, la cui corona di spine sembra poter pungere anche chi la sta guardando.
Ed ecco la fine del cammino: gli anni Venti e Trenta. C’è ancora spazio per l’inquietudine, ma viene letta con ironia e leggerezza o a tratti con malinconia. Ormai la strada è stata tracciata, anche se sopra i cadaveri nelle trincee: è quella del progresso, dell’industria, del futuro luminoso e dinamico. Luminoso e dinamico come le strade e i grattacieli di New York, che ormai ha strappato a Parigi il primato di città della luce.

Una mostra suggestiva e potente questa di Palazzo Roverella, aperta fino al 14 giugno, uno sguardo particolare e per nulla scontato, una rassegna sugli interrogativi sinistri che animavano gli uomini del secolo scorso, trasmessi come per osmosi ai visitatori di oggi. E viene da chiedersi se in realtà non siano gli stessi cupi demoni e inquietudini che animano anche i nostri quotidiani.

Per saperne di più visita il sito della mostra [vedi].

Diario di viaggio nel Mali, dove tutto ha il colore della terra

“La Terra è un paradiso. L’inferno è non accorgersene” (Jorge Luis Borges)

Questa terra misteriosa e magica, a volte così brulla, secca, arsa, assetata, calda, accaldata, sudata, accecata e assolata, incredibilmente e sorprendentemente verde in alcune parti nascoste che appaiono alla vista all’improvviso, è sicuramente la terra del colore marrone. Il colore della sabbia, di quella sabbia alzata dal vento caldo che ti attraversa i vestiti, i capelli e le mani, che ti spettina i pensieri, che ti va volare lontano, che ti fa spazzare via le indecisioni e le preoccupazioni, che ti leviga i dolori rattrappiti arrampicati sulle tue spalle nodose. Il colore del deserto, dei tronchi d’albero abbandonati, di quelli maestosi, vivi e immensi dei baobab, di quelli più striminziti e magri abbandonati sulle soglie delle botteghe altrettanto magre, il colore delle costruzioni, delle case, delle capanne e delle moschee, delle strade polverose. Siamo in Mali, un Paese ora poco avvicinabile ma bellissimo per natura, paesaggi, persone e vita.

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Djenné, porta del deserto che conduce a Tombouctou

Il sole è accecante, già di prima mattina, il vento che ti si appiccica addosso insieme ai pantaloni larghi di lino leggeri ti accarezza e ti accompagna lungo la strada verso la misteriosa Tombouctou, la porta del deserto, la porta spalancata che ti attende a braccia aperte, per condurti cautamente nel nulla, nel silenzio di una distesa di sabbia che non è poi così silenziosa, per aprirti a un cielo dove le stelle luminose sono tantissime, stipate, strette l’un l’altra in un enorme e potente abbraccio cosmico, anime che si urtano perché troppo incollate ma che si sorridono e si scusano per questo. Anche con te.

 

mali-color-marronemali-color-marroneIl marrone delle strada si confonde con le tue scarpe curiose che camminano e vanno quasi da sole, si perde nell’ambra dei tanti sogni che ti hanno portato lì. Il marrone è nelle scatoline che alcuni bambini cercano di venderti, nelle statuine intarsiate di legno, che per la loro sottigliezza ed eleganza, vengono chiamate ombre, nelle tua stessa ombra proiettata su quel cammino misterioso, nelle lunghe collane di perline e nelle ciotole di legno dove mangerai un improbabile couscous cittadino che non avrà mai lo stesso sapore e odore. Nei giocattoli ritagliati da lattine arrugginite di bevande zuccherine e piene di conservanti. Il marrone è negli occhi dei tuareg, in quelli delle donne con la pelle abbrustolita dal sole, nei loro ‘paignes’ colorati cuciti a mano, nelle incredibili capigliature di molte ragazze, quando riesci a intravederle dal velo che ricopre loro il capo.

Il marrone è negli argini e nelle sponde del fiume che ti riporta alla superficie delle giornate piene, nelle pelli e nelle schiene dei cammelli che ti salvano dal vento riparandoti e portandoti al sicuro. Il marrone è soprattutto negli alberi, nei tronchi centenari degli imponenti baobab, nei rami secchi dai quali penzolano stracci bisunti e borse di plastica trascinati dal vento, braccia speranzose rivolte al cielo.

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E poi ci sono gli arnesi arrugginiti degli artigiani per le strade, gli oggetti dei ‘bricoleurs’ che recuperano di tutto, i portoni e le finestre di legno dall’odore intenso, i tetti delle capanne dei villaggi, e soprattutto loro, le case di sabbia, piccole e grandi, alte e basse, lunghe e larghe, case che sembrano fatte con uno stampino, con secchiello e paletta, tanto sono perfette, curate e precise, quelle che vedete quasi ovunque in Mali ma soprattutto nell’incredibile città di Djenné.

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Se Tombouctou, a nord del fiume Niger, era l’Eldorado dei tempi di Leone l’Africano, è la custode di oltre 700.000 manoscritti arabo-islamici dei secoli XIII-XVI (tra cui le opere di Avicenna), e simboleggia, da sempre, l’estrema lontananza del mondo e dal mondo, la bella Djenné è la città di fango. Un fango che si crea e si manipola, quasi lavorassimo con il buon vecchio e caro Pongo, che si plasma con cura, con le mani, con la testa, con i sogni. Djenné è magica davvero, ho avuto la fortuna di percorrerla a piedi quando ancora le condizioni di sicurezza, pur con certe limitazioni, permettevano di visitare il Paese.

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Moschea di Djenné, durante i lavori di manutenzione

Siamo nella regione di Mopti e in questa città d’altri tempi si trova la grande Moschea. Ovviamente non si può entrare, oltre a non essere musulmana sono donna. E qui queste due condizioni non aiutano, anzi impediscono l’accesso a questa meraviglia (come ad altre), con tanto di cartello bene in evidenza all’entrata (accesso espressamente vietato per la mancanza della prima condizione, la seconda va da sé). Mi limito, allora, a girarci attorno, a osservare quelle punte e quei merletti, quella costruzione che mi dice quanto l’uomo possa essere anche meraviglioso e grandioso per la sua meticolosità e ingegnosità. L’edificio in ‘adobe’ o terra cruda, è costruito con il sistema ‘djenné-ferey’, il metodo di costruzione tradizionale che consiste in una sovrapposizione di palle di terra cruda ancora bagnata, atta a ricoprire il ruolo sia di mattone che di legante. L’intera comunità partecipa alla manutenzione della moschea, nell’ambito delle festività annuali: i lavori sono condotti con metodi tradizionali e al suono della musica, che qui si sente spesso un po’ ovunque e che ritma i respiri di ogni giornata. Questa manutenzione regolare è resa necessaria dalle caratteristiche di fragilità del materiale usato per la costruzione, che subisce una forte erosione per la pioggia, l’irraggiamento solare e i cambiamenti di temperatura, che provocano grandi spaccature.

mali-color-marronemali-color-marroneNei giorni che precedono le feste (ho la fortuna di essere lì proprio in questo momento), viene preparata una grande quantità di rivestimento, con diverse e impegnative giornate di lavoro: questo intonaco pastoso deve essere periodicamente mescolato, compito svolto dai bambini che vi giocano dentro. Quindi i giovani si arrampicano sulle pareti della moschea, aiutati dai ponteggi permanenti costituiti dai fasci di rami di palma inseriti nel muro, e procedono a coprire completamente i muri con un nuovo strato di materiale di rivestimento, che viene loro portato da altri uomini. Gli scassati camioncini arancioni che girano intorno, fumacchiano e strombettano. Le donne portano l’acqua necessaria alla fabbricazione dell’intonaco o per gli uomini che lavorano. Tutto è diretto dai membri eminenti della corporazione dei muratori, mentre gli anziani, che hanno compiuto in passato la stessa opera, sono seduti al posto d’onore e assistono all’intera operazione.

mali-color-marroneTutti insieme, in allegria. E’ fortissimo il senso della comunità, della solidarietà e del bene comune che si percepisce in mezzo a tante braccia all’opera. Unico questo senso di appartenenza, che noi abbiamo spesso ormai perso. Anche questo è il marrone Mali. Il paese delle formichine operose, del baobab, l’albero della vita che, per la sua maestosità e imponenza, sembra unire il cielo alla terra, simbolo di una vita che qui scorre difficile e dura un po’ per tutti ma che vince comunque, tutti i giorni, contro asperità ambientali ed economiche. Questi giganti possono raggiungere l’altezza di 25-30 metri, un diametro del tronco di 10 metri e immagazzinare fino a 120.000 litri d’acqua per resistere alla siccità. Con la loro acqua e la loro forza sono fonte di vita loro stessi, dunque, oltre che esserne il simbolo.

mali-color-marroneUn riparo nella tempesta. Le capanne che vediamo intorno a noi sono ordinate come casette dei presepi, ospitano bambini vocianti e comunità coese che si riuniscono intorno al pozzo d’acqua regalato da una lontana cooperazione, spesso da quella saudita. Una ragazza molto giovane, incinta, dagli occhi dolcissimi, mi apre la porta di una casa del villaggio che sto visitando per capire come fare pozzi d’acqua e mi parla attentamente.

Porterò sempre con me il ricordo di quelle giornate polverose, assolate e marroni. Paese e persone indimenticabili. Un sigillo impresso sulla mia anima pensosa che qui si è fermata a lungo a pensare e si è acquietata, almeno per un po’. Bevendo un tè. Profumato e intenso, come l’alito di vita che si respira qui.

Articolo pubblicato su BioEcoGeo, Ottobre 2014. Fotografie della città e i dintorni di Djenné di Simonetta Sandri.

I viaggi in Mali non sono al momento raccomandati. Ma è bello poterne comunque ricordare le bellezze.

IMMAGINARIO
Paris, Ferrara.
La foto di oggi…

Apre oggi al pubblico alla Cinémathèque française di Parigi, la mostra “Antonioni, aux origines du pop. Cinéma, photographie, mode”.

Ideata dalla Fondazione Ferrara Arte e dalle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara, in collaborazione con la Fondazione Cineteca di Bologna, dopo l’esordio a Palazzo dei Diamanti nella primavera 2013, e la seconda tappa al Bozar di Bruxelles, la mostra rimarrà nella capitale francese fino al 19 luglio.

Responsabile dell’esposizione d’oltralpe è Dominique Païni, che dice: “L’esposizione è concepita come un unico grande piano sequenza – che era il suo modo di filmare – l’abolizione dei muri, e l’incontro tra l’artista plastico e il cineasta. Uno sguardo su un regista che è il fondatore di tutto il cinema contemporaneo”.

“Ferrara – si legge sul sito www.cinematheque.fr – la città natale di Michelangelo Antonioni, ha acquisito un grande archivio fatto di documenti appartenuti al regista: fotografie, manoscritti, sceneggiature, testimonianze di collaboratori e amici, carteggi prestigiosi, dipinti e varie opere plastiche del cineasta. La documentazione di una vita, quella di uno dei più importanti creatori del XX secolo. Questo ricco archivio, che rivela l’opera di Antonioni nella diversità dei suoi aspetti artistici, viene presentato alla Cinémathèque francese, accompagnato da una retrospettiva completa dell’opera cinematografica”.

OGGI – IMMAGINARIO CINEMA

Ogni giorno immagini rappresentative di Ferrara in tutti i suoi molteplici aspetti, in tutte le sue varie sfaccettature. Foto o video di vita quotidiana, di ordinaria e straordinaria umanità, che raccontano la città, i suoi abitanti, le sue vicende, il paesaggio, la natura…

[clic sulla foto per ingrandirla]

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Blow-Up di Michelangelo Antonioni
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Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni
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Blow-Up di Michelangelo Antonioni

GERMOGLI
La burocrazia.
L’aforisma di oggi…

Una quotidiana pillola di saggezza o una perla di ironia per iniziare bene la giornata…

arthur_bloch.thumbnail_227_292Caso Aldrovandi. Il Sap chiede la revisione del processo: “Gli agenti seguirono il protocollo”. Il padre Lino: “I manuali non c’entrano con le botte”.

“Se c’è una maniera di rimandare una decisione importante, la buona burocrazia, pubblica o privata, la troverà”. (Arthur Bloch)

ACCORDI
La ragazza del Piper.
Il brano di oggi…

MI0001773139Ogni giorno un brano intonato a ciò che la giornata prospetta.

[per ascoltarlo cliccare sul titolo]

Patty Pravo – Pazza idea

Compie oggi 67 anni Patty Pravo, all’anagrafe Nicoletta Strambelli e tra gli artisti simbolo della musica pop italiana con più di 110 milioni di dischi venduti in tutto il mondo. Lasciata Venezia, sua città natale, iniziò ad affermarsi sulla scena nazionale al Piper di Roma nella seconda metà degli anni sessanta, arrivando soprattutto nel decennio successivo a scalare le classifiche nazionali e non solo grazie a singoli come “La Bambola” e “Pazza Idea”, quest’ultimo contenuto nell’omonimo album del 1973.

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