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Giorno: 24 Maggio 2015

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NOTA A MARGINE
Davigo: “In Italia si continua a rubare come prima, ma senza vergogna”

“All’estero ci vuole coraggio per commettere un reato, in Italia ci vuole coraggio per rimanere onesti”, sono le parole di Pier Camillo Davigo a Peter Gomez e Marco Travaglio in “Onorevoli wanted” (Editori Riuniti, 2011) ed esprimono al meglio quella strana sensazione di malessere che attanaglia quasi sempre il pubblico dopo aver visto alla tv le inchieste di Report e di Presa Diretta oppure all’uscita dagli incontri sulla legalità o sulla corruzione – dipende dai punti di vista – in Italia. La corruzione è sempre più un fenomeno collettivo, mentre l’onestà un fenomeno individuale: questa è l’amara verità. “Non sono un fan degli incontri sulla legalità: sono il segnale che il Paese ha un gravissimo deficit di legalità. Ve li immaginate in Svezia o in Inghilterra?”, in effetti è difficile, anche con un grande sforzo di immaginazione. Ma c’è da essere ottimisti, sdrammatizza Davigo, “come nel detto popolare secondo il quale il pessimista pensa che peggio di così non possa andare, mentre l’ottimista è convinto che possa andare peggio eccome!”.

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Pier Camillo Davigo

Siamo al Teatro De Micheli di Copparo in un giovedì pomeriggio di metà maggio dal cielo plumbeo, mentre poco distante sta passando il Giro d’Italia, ma il pubblico non manca. L’ex componente del pool milanese di Mani Pulite, ora Consigliere della II Sezione penale presso la Corte di cassazione, è l’ospite del terzo incontro del progetto “Legalità”, organizzato dalla Direzione didattica di Copparo in collaborazione con Spi-Cgil e
il coordinamento provinciale di Ferrara di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie. A intervistarlo è il direttore de La Nuova Ferrara Stefano Scansani, le cui domande che vanno dritte al punto, come ad esempio: “Perché in Italia non tintinnano più le manette?”. Davigo non si tira certo indietro: “Perché da più di 20 anni la politica è più impegnata a contenere l’attività degli organi preposti alla repressione, piuttosto che le devianze delle classi dirigenti”. In questi anni gli italiani si sono sempre più convinti di vivere in un paese sempre meno sicuro, soprattutto per l’aumento della microcriminalità, ma secondo Davigo i temi dell’insicurezza e della microcriminalità vengono usati “per distrarre i cittadini dai due veri grandi problemi dell’Italia: la criminalità organizzata, documentato da almeno 160 anni, ma risalente ad ancora prima, e la devianza delle nostre classi dirigenti, un fenomeno che non ha eguali negli altri paesi europei”. Tutto diventa più chiaro con l’esempio del processo Parmalat per aggiotaggio, in cui le parti civili erano circa 45.000: “quanto ci mette uno scippatore a fare 45.000 vittime? Se fa 4 furti al giorno, circa 10.000 giorni. E quanti vengono scippati in una volta sola dei risparmi di tutta una vita?”
Davigo non vuole rischiare di incorrere nella retorica di qualunquismo: “quello che contesto alla politica è l’incapacità di quelli per bene di prendere le distanze degli altri, è inaccettabile che accettino di sedersi l’uno a fianco dell’altro”. In effetti sembra che in questo paese, con la scusa del garantismo, si sia un po’ persa per strada la differenza fra ciò che eticamente e ciò che è penalmente sanzionabile e sanzionato, con buona pace di quella parte dell’articolo 54 della nostra Costituzione che recita: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”.
La domanda mi sorge spontanea: secondo il magistrato, come può una classe dirigente come questa mettere mano al delicatissimo equilibrio di pesi e contrappesi fra i vari poteri costruito nella Costituzione? Davigo non si perde in giri di parole: “Sento parlare da 30 anni di tre grandi aree di riforma: il presidenzialismo, che ora è diventato rafforzamento dei poteri del premier, l’abolizione del bicameralismo perfetto e il federalismo. Quanto alla prima: il presidente del Consiglio è tale in virtù della fiducia che gli danno le camere, dunque è anche il capo della maggioranza parlamentare, quindi semmai assomma in sé troppo potere e bisogna ridurlo non aumentarlo. Quanto alla seconda: si sente spesso dire che due Camere che devono approvare le stesse leggi non sono efficienti perché impiegano troppo tempo, ma il problema dell’Italia non è di avere poche leggi, ma di averne troppe. Infine il federalismo: la regione che ha il massimo di autonomia è la Sicilia, con i brillanti risultati che sono gli occhi di tutti. La Sicilia ha bisogno di una maggiore autonomia o di funzionari di lingua tedesca presi dal Brennero e mandati a Palermo, così non possono capire le minacce?”
Non poteva mancare il riferimento a Mani Pulite: “dopo tutto è tornato come prima, anzi peggio, ma voi a cosa siete serviti?”, domanda Scansani. Davigo rivela una buona dose di autoironia e dà un’interpretazione quasi darwiniana di quella stagione: “siamo serviti alla selezione della specie, perché, come fanno i predatori, abbiamo preso le prede più lente e quelle più veloci l’hanno fatta franca. Peccato però – continua il magistrato – che in natura anche i predatori migliorano i propri mezzi con il tempo, mentre nel nostro caso, per così dire, non si è lasciato che la natura facesse il suo corso”. Poi si arrende e confessa: “Insieme ad altri colleghi ho contribuito a stracciare il velo di ipocrisia che celava il sistema, prima del 1992 non si aveva idea che rubassero così tanto e così in tanti”. Se “l’ipocrisia è l’omaggio del vizio alla virtù”, perché il primo riconosce la superiorità della seconda e si nasconde vergognandosi di se stesso, con Mani Pulite questo velo è caduto e “purtroppo non hanno smesso di rubare, hanno smesso di vergognarsene”. Vuoi vedere che fra una riforma e l’altra ci scappa anche il taglio di quelle poche chiarissime parole: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore?”

LA RICORRENZA
24 maggio, sparare è dovere: il dramma di seicentomila ragazzi mandati al macello

Da quando sono nato sono stato sollecitato a celebrare il 24 maggio come il giorno del riscatto italiano, che altri popoli, antipatici!, non volevano, “italiani fuori dai piedi” dicevano gli altri popoli, almeno così mi insegnavano famiglia, scuola, libri, retorica, “fuori i musicanti, fuori o sole mio, fuori i poetucoli e pittori di cartoline illustrate” e ci rappresentavano con un mandolino in mano e la bocca piena di spaghetti: insopportabili.
L’avvento del cinema consolidò questa facile rappresentazione, mandolino, spaghetti, mafia. Ma forse non era nemmeno del tutto sbagliato. E allora gli eroismi, l’attaccamento alla bandiera, l’amor patrio di cui è condita la nostra storia? Non erano falsificazioni, i poveri fantaccini, mandati a morire sul Piave, furono veri, grandi eroi: non sapevano perché gli avessero messo in spalla un fucile, non sapevano perché dovessero andare a sparare a gente che parlava quasi la stessa lingua di coloro che andavano “a liberare”, il popolo non capiva quella guerra, seicentomila ragazzi inviati direttamente al camposanto, se mai arrivavano al camposanto, più spesso rimanevano lì a bocca aperta, l’ultimo respiro, rimanevano su un zolla di terra, cuscino e pietra tombale senza nome.

La grande guerra, al di là delle retoriche falsificazioni, fu uno spaventoso genocidio, una fucilazione corale e indiscriminata, un ignobile atto di terrorismo di massa: i nostri alleati ci disprezzavano e ci dileggiavano perché eravamo guidati da un re grande come un bambino di quinta elementare. Scriveva Hemingway in “Addio alle armi”: quando, vicino alle prime linee, passa una grande macchina con dentro nessuno vuol dire che c’è il re! Eravamo i poveracci d’Europa, non sapevamo leggere né scrivere, nei primi anni del secolo al Sud i ragazzi partivano per le Americhe, una valigia di cartone, una foto della mamma o della fidanzata, andavano a costruirsi un futuro fuggendo dalle terre e dagli affetti, andavano a comprarsi un pezzo di pane, quando giunsi a Milano dopo tanti anni dalla prima grande guerra mondiale, dai treni puzzolenti di vino, sudore e fiati fetidi scendevano gli stessi ragazzi di mezzo secolo prima, giacchettine striminzite come quelle che usano adesso, barba lunga e valigia chiusa da spago, andavano alla ricerca di un letto, ma sulle porte milanesi un cartello avvertiva, o minacciava, “non si affitta a meridionali”, quei meridionali che il re aveva usato come carne da macello, che il duce, ampliando i confini della sua fame di gloria, aveva inviato a morire sulle sabbie roventi d’Africa e in mezzo ai ghiacci dell’inverno russo. Fabbriche di morte. La guerra è sempre una fabbrica di cadaveri, rimangono là, poveri giovani, rimangono là impigliati nei reticolati, carne per cornacchie e topi e sulle tombe scrivono “martire ed eroe”. Provate a chiedere alle madri dei martiri ed eroi che pensano della guerra, provate. Tutto il resto è retorica.

FRA LE RIGHE
I dubbi di Montalbano nel teatro dell’orrore

La verandina, la notte e il mare placido sono il suo rifugio silenzioso e solitario.
Il commissario Montalbano ha bisogno di raccogliersi per venire a capo di un caso che presenta tante evidenze quante apparenze. Montalbano stesso è vittima di un equivoco, uno dei tanti scambi in cui la sorte lo infila.
La giostra degli scambi è questo, un meccanismo che avanza imbarcando dubbi e inducendo il commissario a qualche errore e non poche domande. Montalbano si sente disorientato. Che abbia ragione il dottor Pasquano quando, beffardo, gli ricorda che è invecchiato?
Indizi e coincidenze fanno pensare che il colpevole sia un uomo tradito e furioso. In effetti è così, ma non quel sospettato, bensì un altro, al di là delle apparenze.
A mettere il commissario sulla pista giusta è, come sempre, la sua intuizione affinata dalla sensibilità umana con cui afferra il non detto. E, infatti, da ciò che non gli viene rivelato, Montalbano percepisce come arrivare alla verità.
Il commissario scopre il colpevole, ma l’uomo Salvo coglie l’orrore a cui è stata condannata una giovane donna. Montalbano, che non rinuncia mai ad andare a vedere, arriva in una discarica, un girone infernale, metafora esplicita delle nefandezze di cui la società è capace.
In mezzo a quello spettacolo raccapricciante che mozza il respiro, il commissario è preso da pietà e rispetto per quel che rimane di una vita sconosciuta su cui si stanno spegnendo anche le ultime luci del giorno.

La giostra degli scambi, Andrea Camilleri, Sellerio editore 2015

GIARDINI E PAESAGGI
Nel labirinto di pietra

A volte basta un’immagine, un fotogramma colto al volo nel passaggio televisivo di un provino, per mettere in movimento una catena di ricordi e belle sensazioni. Il fotogramma in questione è tratto da un film di cui si parla da settimane: “Il racconto dei racconti” di Matteo Garrone. La scena: Salma Hayek, vestita da regina barocca, insegue un ragazzino dai capelli biondissimi all’interno di un labirinto di pietra. Eccolo il flash, ecco la schioppettata, perché chi ha visto quel labirinto non lo può scordare, è il labirinto di pietra del giardino del castello di Donnafugata. Per un caso di omonimia, questo luogo non c’entra né con il romanzo di Tomasi di Lampedusa, né con il film di Visconti, eppure, sono in tanti a scendere a Donnafugata per cercare un Gattopardo che non c’è, dimenticando invece, che questo castello lo abbiamo già visto filmato in “Kaos” dei fratelli Taviani, in “L’uomo delle stelle” di Giuseppe Tornatore e persino in alcuni episodi del commissario Montalbano. Del resto, se dopo cinquant’anni dal film di De Sica, sono ancora tanti quelli che cercano il giardino dei Finzi-Contini nel parco Massari di Ferrara, possiamo capire quanto sia forte la persistenza di una location cinematografica nell’immaginario collettivo.
Il castello di Donnafugata, quello che si trova in provincia di Ragusa, è un luogo magico. Sembra effettivamente uscito da una favola, e nonostante non ci sia nessuna cura nel tenere in ordine i cartelli dei ristoranti e le girelle con le cartoline, l’ingresso a questo palazzo è maestoso. Ma la vera sorpresa non è l’architettura, che potremmo catalogare come un misto fritto di stili assemblati, con grazia commovente, e sotto un sole imperturbabile, che lo fa splendere nel paesaggio di olivi, carrubi e sassi senza cadere nel ridicolo, dunque, la vera sorpresa è il giardino, un luogo che ha conosciuto le ferite dell’abbandono e la fortuna di un restauro intelligente, curato dagli architetti Biagio Guccione e Giacometto Nicastro (2004-2006).
Perché questo luogo è così speciale? Perché nei suoi otto ettari di sviluppo, troviamo una collezione di libere interpretazioni di alcuni capitoli della storia recente del giardino, che lo rendono più simile ad un parco anglosassone aperto al paesaggio, piuttosto che a un’oasi chiusa dentro un recinto, di più consolidata tradizione mediterranea.
Uno di questi oggetti è il labirinto: trappola senza uscita o percorso iniziatico, qui si entra per perdersi e ritrovarsi, anche solo per gioco. Di solito i labirinti nei giardini sono fatti con muri di piante, anche i più famosi labirinti cinematografici sono vegetali: in “Shining” è l’immagine della perdita della ragione del protagonista, ma anche il luogo dove il ragazzino troverà la salvezza; in “Orlando” la protagonista farà un salto temporale entrando in un labirinto; anche quello magico che abbiamo visto in “Harry Potter e il calice di fuoco” è verde, esattamente come quello del giardino del palazzo di Hampton Court in Inghilterra, che ha ispirato il barone Corrado Arezzo de Spuches (1824-1895) che lo ha disegnato su uno dei suoi taccuini di viaggio per rifarlo poi, nella sua dimora siciliana. Il Barone, proprietario di Donnafugata, persona colta e grande viaggiatore, era in un certo senso un collezionista di luoghi. Nel suo giardino troviamo per esempio, una ricostruzione, adattata al clima siciliano, del cenotafio di Rousseau a Ermenonville, nel nord della Francia, dove il cerchio di pioppi, amanti dell’umido, sono stati sostituiti da cipressi. Se dunque la geometria di carpini di Hampton Court avrebbe avuto vita breve nel ragusano, De Spuches la trasforma in un luogo metafisico e cocente utilizzando la pietra dei muri a secco. Un gesto talmente moderno che potremmo definirlo concettuale, ma siamo sicuri che sia andata così? forse è stato un incantesimo, una magia che ha trasformato le piante in sassi, come in una metamorfosi mitologica, in una fiaba senza tempo … un racconto dei racconti.

IMMAGINARIO
Preparativi.
La foto di oggi…

Oggi Paola Coluzzi, la igers ferrarese che per una settimana gestisce il profilo Instagram del Comune, @comunediferrara, posa il suo sguardo sui preparativi per uno degli eventi più antichi della nostra città: le gare del Palio. La prossima domenica 31 maggio alle 16 in piazza Ariostea, si terranno la sfilata, la corsa dei putti e delle putte, quella degli asini e la più importante, quella dei cavalli.

“Buona domenica a tutti! Oggi, ad una settimana dal Palio, pubblico questa foto per ricordare che, può piacere o non piacere, ma fa parte della nostra storia, della storia di Ferrara. Se oggi passeggiamo tra palazzi, chiese, vie uniche al mondo è perché qualcuno li ha ideati, costruiti, decorati. E questo qualcuno ha inventato pure il Palio…”.
#comunediferrara #MyFerrara #Ferraraitalia #ferrara #igersferrara

Tutti i dettagli della manifestazione sul sito del Palio di Ferrara [vedi].

OGGI – IMMAGINARIO MYFERRARA

Ogni giorno immagini rappresentative di Ferrara in tutti i suoi molteplici aspetti, in tutte le sue varie sfaccettature. Foto o video di vita quotidiana, di ordinaria e straordinaria umanità, che raccontano la città, i suoi abitanti, le sue vicende, il paesaggio, la natura…

[clic sulla foto per ingrandirla]

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foto di Paola Cluzzi

GERMOGLI
Vita.
L’aforisma di oggi

La vita scorre, la vita va, la giovinezza con lei. Ma l’arte resta. Per sempre, eterna.

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Lorenzo De Medici

Quant’è bella giovinezza
che si fugge tuttavia!
Chi vuol esser lieto, sia:
del doman non c’è certezza.
(Lorenzo de’ Medici)

Una quotidiana pillola di saggezza o una perla di ironia per iniziare bene la giornata…

ACCORDI
Il menestrello di Duluth
Il brano di oggi…

planet wavesOgni giorno un brano intonato a ciò che la giornata prospetta…

(per ascoltarlo cliccare sul titolo)

Bob Dylan – Forever Young

Settantaquattro anni e non sentirli. Tanti auguri a Bob Dylan, leggenda della musica contemporanea, precursore di quel connubio vincente tra folk e poesia capace di rendere la musica qualcosa che il mondo cercava di cambiarlo, per davvero. Con più di 70 milioni di album venduti in una carriera che ancora oggi procede attivamente (a febbraio è uscito il suo ultimo album, Shadow in the nights), non si può che dedicare a questo immenso artista uno dei suoi stessi brani più famosi: Forever Young, tratto dall’album Planet Waves del 1974.