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Giorno: 11 Novembre 2015

A teatro Off il riscatto dell’uomo senz’ombra

libro Si inizia e si finisce al buio, sul palco di Teatro Off; quell’oscurità tanto cara a Hoffmann e a Friedrich, a Schlegel e a Novalis.
Piccola perla del romanticismo tedesco, “Storia meravigliosa di Peter Schlemihl” di Adalbert von Chamisso è andata in scena a Teatro Off venerdì e sabato nello spettacolo “Una vita senz’ombra” diretto e interpretato da Giulio Costa e già presentato in occasione del Festival della Fiaba di Modena nella seconda edizione, il cui tema era “Ombra e male nella fiaba”.

schlemihl_uomo in grigio_ombra “Volevamo riportare la fiaba alle origini – racconta Costa – ovvero un racconto orale fantastico che affonda le proprie radici nelle tradizioni più antiche. A questa storia mi sono appassionato molto, mi interessava mettere a fuoco i sentimenti di Peter Schlemihl, il protagonista, nei confronti della società. Mi sono calato nella narrazione, lavorando sul modo in cui, scoprendo il mondo e le vicissitudini negative che affronta, il protagonista sviluppa qualcosa di sé; come riesca a riscattarsi senza ombra. La solitudine a cui è condannato non è vissuta come una colpa, bensì come una via di uscita, al pari di una possibilità di uscire da se stesso e trovare una soluzione alla propria vita. Il mio Peter è un uomo che deve essere privato di tutto per potersi rimettere in gioco”.
Da un punto di vista linguistico, il testo è attualizzato grazie a una proposta verbale che glissa sulle forme letterarie arcaiche, più pure e ostiche, smussato quanto basta per rendere il testo originale più intelligibile e colloquiale.

Lo Schlemihl di Chamisso è l’autore stesso che si trova a fare i conti con l’essere un senza patria, lui letterato poetico e malinconico prima costretto a scappare dalla Francia allo scoppio della rivoluzione, poi a prendere le armi nell’esercito prussiano, infine respinto dal grande amore di gioventù Cérès Duvarnay. Si avvicina in questo al Kafka della “Metamorfosi”, che arriverà a pensare a se stesso come insetto, anche lui apolide nell’animo e dalla tormentata personalità; e a Goethe, suo contemporaneo, che già affronta il tema di vendersi l’anima al diavolo nel suo celebre “Faust”, cronologicamente a metà tra quello breve e fastoso dell’elisabettiano Marlow, e quello filosofico e cerebrale di Thomas Mann.
Eppure non è un uomo senza qualità, questo Peter. Il suo cognome anticipa la sua sorte, che sembra stabilita nel momento stesso in cui incontra il riccone Thomas John che già si è venduto all’offerente in grigio: lo “Shlemiel”, maschera del folklore ebraico, rappresenta il candido, l’ingenuo, lo sfortunato. Chi vive ai margini e non riesce a integrarsi con qualsivoglia classe sociale, tanto da non poter quasi essere considerato un essere di questo mondo – banalmente un uomo, altro legame di kafkiana memoria.

L’ombra non ha vita propria, ma è merce di scambio inconsapevole, srotolata via in un perturbante amalgama di voracità e totale indifferenza; è di una sostanza diversa da quella di Peter Pan che scappa dal suo proprietario, argento vivo che fa di testa propria. Nel testo originale, diventa ennesima prova di accettazione sociale e soprattutto della realizzazione di sé come individuo: in questo piccolo capolavoro, l’autore rielabora il tema della mancanza dell’ombra tipico di fiabe e racconti popolari come quello del Diavolo di Salamanca in cui il demonio tenta di rubare l’anima a un uomo ma riesce a portargli via solo l’ombra. Prendendogliela, lo condanna a essere privato dell’unica cosa che accomuna tutti, e di cui tutti vengono privati solo quando arriva la morte, e solo allora: chi scoppia di salute e chi è morente, chi è ricco e chi non ha un tetto sulla testa, chi è giovane e chi è vecchio. Somiglia a una metafora in cui si mette in guardia che è pericoloso desiderare qualcosa, e ancora di più lo è ottenerlo; l’unica speranza di salvezza reale è offerta da un bene super partes, dalla bellezza che si configura come pace armonica e laboriosa – non è un caso che Schlemihl trovi la serenità solo una volta venuto a conoscenza dell’ospedale costruito grazie al suo denaro.

L’uomo in grigio che si trova sulla strada del protagonista è un Mary Poppins che sciorina meraviglie dalla sua borsa magica piccola ma senza fondo; non per fare qualcosa di buono e utile, ma per comprare anime. Un satanasso che diventa il deus ex machina dell’ingenuo Peter che, disprezzato dagli uomini per la sua povertà e ignorato dalle donne per la sua timidezza, vede nell’offerta dell’uomo misterioso la possibilità di lasciare le sue misere spoglie: la ricchezza perpetua in cambio della sua ombra. Senza presagire che quella che sembra essere la soluzione a tutti i suoi problemi diventa foriera di un problema ben più grosso, un contrappasso a cui non può sfuggire. Una volta ottenuto prestigio economico, Schlemihl viene messo al bando e temuto proprio per quella particolarità che lo rende unico, certo, ma soprattutto diverso; una diversità non comprabile neppure con tutto il denaro del mondo, e a causa della quale non può sposare Mina, la donna che ama. Di nuovo bandito dal mondo della superficie, Schlemihl saprà riscattarsi in due modi: regalando al fedele servitore Bendel la prodigiosa borsa dispensatrice di denaro e problemi, e rifiutando un ennesimo patto che gli avrebbe portato via l’anima.

Ma Costa, nel momento stesso in cui le luci si abbassano e lui esce lentamente di scena, offre al pubblico la sua ombra, che pur lui non vede. L’attore sceglie due espedienti particolari per calarsi nella parte del protagonista: togliendosi le scarpe non appena entrato in scena, ribaltamento del fatto che alla fine della storia Peter entra in possesso degli stivali delle sette leghe; e dando le spalle al pubblico, voltandosi per andarsene per sempre. Incanto e ambiguità si alternano in una lettura che fa i conti con interiorità e pensiero di Schlemihl, ne propone una lettura-monologo intensa, dinamica e a tratti ironica.

Lo spettacolo sarà di nuovo portato in scena venerdì 13 e sabato 14 novembre, sempre alle 21.

OCCHIO CRITICO
Il rappezzo

​Quello di piazzetta Combattenti è solo uno degli ultimi esempi di una infinita (e per forza di cose interminabile) serie di interventi di manutenzione stradale i cui esiti risultano eufemisticamente discutibili. Le cause dei continui lavori sono sempre le medesime, connesse ai cosiddette sottoservizi: riparazioni di condutture, posa di cavi e di tubazioni eccetera.
Molti di questi aggiustamenti sono fatti perlappunto con tale malgarbo da generare fastidio: gibbosità dello strato bituminoso che fin da subito generano impaccio alla circolazione, specie dei ciclisti, con effetti esteticamente indecenti e che nel volgere di qualche settimana, complici piogge, gelate a avversità atmosferiche si sfaldano creando buche. Ma la tecnica del rappezzo è ormai prassi consolidata e forse ha anche poche alternative: difficile immaginare che ogni volta si possa procedere a una diffusa riasfaltatura.
Ci sarebbe però il dovere da parte dell’amministrazione pubblica di vigilare sui lavori di manutenzione per garantire che chi opera lo faccia quantomeno con la diligenza del cosiddetto ‘buon padre di famiglia’, cioè di colui che ha a cuore ciò che fa e non mira, al contrario, come primo obiettivo a risparmiare e fare in fretta, purchessia.
Esperti del settore garantiscono che utilizzando, per esempio, uno strumento detto ‘saltarello’ che serve a compattare la bitumatura si possono ottenere risultati molto migliori di quelli a cui normalmente siamo purtroppo abituati. Ma si usa raramente perché l’impiego richiede tempo e la manodopera costa; i cantieri sono gestiti al ribasso, con margini di guadagno esigui e dunque si specula su tutto.
Servono dunque quantomeno maggiori controlli. Andrebbero fatte rispettare le prescrizioni dei capitolati di appalto e le appropriate regole generali di manutenzione (ed eventualmente adeguate e integrate se insufficienti).
E sarebbe anche il caso di prevedere clausole di garanzia, come ci sono per tutte le cose: se entro un certo termine l’asfalto si corrompe tu ditta che hai lavorato male torni e fai gratis il ripristino. Sembra ovvio, ma non funziona così. A conferma che non sempre il problema sono i soldi, a volte è anche semplicemente questione di teste e di volontà.

NOTA A MARGINE
Antropologi, urbanisti, ingegneri, architetti, sociologi per guarire le nostre città malate

Antropologia, urbanistica, ingegneria, architettura, sociologia: unirle, shakerarle, farle interagire per generare un buon distillato di città sostenibile. Non vi è un buon architetto se un antropologo non chiarisce prima le dinamiche sociali che si svolgono all’interno degli spazi comunitari, o un buon ingegnere senza l’urbanista che preliminarmente definisca il contesto e sviluppi un piano di riqualificazione territoriale; e non c’è sociologia che possa prescindere dall’intervento umano sul paesaggio artificiale generato dal homo faber. Ecco perché queste discipline nella complessa situazione odierna hanno il dovere di incontrarsi, integrarsi e dialogare tra loro sul governo e la gestione delle città. Ed ecco perché oggi si torna necessariamente a parlare di ‘urban studies’ e di come questo settore transdisciplinare abbia bisogno – soprattutto in Italia – di affermarsi. Transdisciplinare ma anche inter-dipartimentale, poiché i professionisti che nel Ferrarese operano in questi ambiti vogliono dedicare proprio agli urban studies un centro di ricerca che coinvolga, appunto, più dipartimenti accademici. La volontà c’è, il difficile arriva quando subentrano resistenze di varia natura che rendono difficile il riconoscimento istituzionale di questa materia.

Attorno a questa volontà e per fare il punto della situazione circa il dialogo sugli urban studies in Italia si è tenuta nel pomeriggio una department lecture, organizzata dal docente di Unife e direttore del laboratorio di Studi urbani Giuseppe Scandurra, il quale ha moderato gli interventi di Carlo Cellamare (ingegnere urbanista, docente all’Università di Roma), Romeo Farinella (architetto urbanista, docente all’Università di Bologna), Ferdinando Fava (antropologo e docente all’Università di Padova) e Alfredo Alietti (sociologo e docente all’Università di Ferrara). Una platea di ospiti eterogenea e adatta per gettare le basi verso un più ampio confronto tra le parti possibile, difficile ma quantomai necessario.

Ad analizzare il perché in alcuni Paesi si parla tranquillamente di urban studies mentre in altri ciò incontra molte più difficoltà è Farinella, affermando come “tra i vari Paesi dell’Occidente le tradizioni delle varie discipline sono sensibilmente diverse. Studiare architettura in Italia e in Francia per esempio è molto differente e questo fa sì che subentrino difficoltà nell’avere una visione condivisa. A differenza di altri infatti – ha continuato – gli architetti non amano la partecipazione”. Termine questo, ‘partecipazione’, che Cellamare considera “uno slogan pericolosissimo e da usare con attenzione, poiché per applicarla ci vuole una politica illuminata e per questo rimane cosa molto rara” e che fa segnare oggi, in Italia, una inesorabile inversione di tendenza tale che “se un tempo venivamo considerati all’avanguardia rispetto al resto d’Europa per quanto riguarda il tema della partecipazione, oggi l’interesse è veramente scarso mentre aumenta in quei Paesi dove sta avvenendo lo smantellamento del welfare state”.
Oggetti d’interesse, scale, temporalità e paradigmi di ricerca sono invece i punti di maggior distacco tra le discipline analizzati da Fava, convinto che “l’urbanista da per scontata la ricerca dell’ideale mentre l’antropologo non si pone così, ma come mero descrittore. Così facendo – ha proseguito – ci si è accorti che lo spazio costruito è stato quindi modificato e in questo modo sono nati interessi verso gli attori sociali”. Per Alietti invece “sociologia e urbanistica hanno sempre dialogato, si parlava di coesione sociale già negli anni ’30” e per questo afferma che “il problema non è il dialogo inesistente, è che il dialogo si è interrotto e da qui le difficoltà nell’istituzionalizzare i contesti e le discipline. Il dialogo quindi non deve essere solo accademico, la pluralità dei saperi tra le discipline devono convergere sugli interessi”.

Emerge chiaro e lampante che la difficoltà maggiore nell’attuazione pratica degli urban studies in Italia assume problematiche di tipo squisitamente politico: a questo proposito Farinella ricorda che “l’urbanistica è di per sé politica e applicarla in democrazia è difficile perché il ventaglio di soggetti è molto ampio, dobbiamo saper imparare a rispondere efficacemente alle domande”. A tal proposito, Cellamare parla di due problematiche principali, ovvero che “gli urbanisti stessi non sono disposti ad un dialogo e non hanno interesse ad iniziarlo ma, al contrario, ho sempre visto urbanisti avvicinarsi agli scienziati sociali ma mai viceversa”. In aggiunta Fava ricorda che “occorre spostarsi dal qui ed ora e stare molto più attenti a ciò che la città necessita davvero, poiché la complessità di quest’ultima non è riconducibile solamente ai propri interessi e per questo è necessario unire le forze”. Infine è stato Alietti ad affermare che “la politica ha perso la visione della città, impone il vuoto, il ghetto, l’esclusione” e la conferma di ciò è rappresentata dalla giunta Pisapia, la quale “non è mai stata in gradi di dare una indicazione, una idea su come riformulare la periferia”.

Innovazione, dialogo e buona politica: sono questi quindi gli ingredienti fondamentali per far (ri)emergere gli urban studies dalle difficoltà incontrate negli ultimi decenni e iniziare un nuovo corso, di sicuro lungo e non senza ostacoli. Le premesse tuttavia ci sono, e occasioni come questo seminario dimostrano che solamente unendo le forze la progettazione, l’amministrazione e la cura degli spazi urbani possono essere pensati, davvero, per il bene comune.

IMMAGINARIO
Preparativi.
La foto di oggi…

Una coppia di venditori di caldarroste ha aperto la saracinesca del garage e approfitta del sole di novembre per preparare la vendita del giorno di festa: il carretto, fornito di bilancia, pentolone e tavolino, è parcheggiato in fondo alla stanza e i due incidono pazientemente i frutti autunnali che venderanno ai passanti dalla loro postazione di via Garibaldi.

In foto: via Vignatagliata, i proprietari del carretto di via Garibaldi nel proprio garage.

Immagini rappresentative di Ferrara in tutti i suoi molteplici aspetti, in tutte le sue varie sfaccettature. Foto o video di vita quotidiana, di ordinaria e straordinaria umanità, che raccontano la città, i suoi abitanti, le sue vicende, il paesaggio, la natura…

GERMOGLI
Luce d’autunno.
L’aforisma di oggi…

dipinto cinese
Dipinto cinese del XIII secolo

Senza impronta, non più bisogno di nascondersi.
Ora il vecchio specchio
Riflette ogni cosa;luce d’autunno
Inumidita da pallida nebbia.
(Suian)

Una quotidiana pillola di saggezza o una perla di ironia per iniziare bene la giornata…

ACCORDI
Un ritorno inaspettato: il 1996.
Il brano di oggi…

coverArt
Album: “Kiler” del 1971

Giusto ieri mi sono tirato la gufata ed eccola puntuale.
“La Nazione” e varie agenzie di stampa segnalano infatti che – uh uh – Marilyn Manson ha bruciato la Bibbia sul palco.
Bella notiziona visto che lo faceva già quasi vent’anni fa.
E visto che sottolineano “durante l’esecuzione di uno dei suoi più grandi successi, Antichrist Superstar” beh, sottolineo anch’io: pezzo, album e tour di quasi vent’anni fa.
Boh.
Di solito se ti appioppano della roba da scrivere su chiunque tu ti documenti un pochino su questo chiunque.
Invece niente, avranno pensato di buttare fuori ‘sta notiziona solo perché a Firenze, nelle stesse ore, era presente anche Papa Francesco.
O forse perché era l’unica data italiana ed erano presenti 3000 persone fra cui Raffaele Sollecito?
Boh.
Per me la notizia non è tanto il vecchio Brian che come sempre, da showman impeccabile, fa la sua cosa.
Le notizie sono più di una e sono:
1) 3000 persone.
Considerando che Marilyn Manson non ha mai fatto e non fa mai ospitate alla tv italiana direi: un risultato migliore e soprattutto più onesto di quello di Salvini alla sua data bolognese.
2) Se Marilyn Manson riesce a far scrivere articoli come questi anche solo in Italia, beh, resta una delle poche postar degne di questo nome.
Anche se da un’eternità ormai fa dei dischi parecchio bolsi.
Ma in fondo anche il vecchio Alice Cooper è messo così e Marilyn Manson è da sempre un Alice Cooper per bambini.
E Alice Cooper cos’era se non un Jim Morrison con la libreria piena di fumettazzi e roba pulp al posto di Blake e Rimbaud?
Direi che tutto torna.
Ed è bellissimo, il grande ritorno dei miei 12 anni.
Celebriamo quindi il rock’n’roll (che a quanto pare fa ancora paura a qualcuno) con un grande classico del Grande Padre delle pagliacciate e kitscherie varie sul palco.
L’uomo che unì la distorsione al cappio, i serpenti ai cavi ma soprattutto, conferì la dignità di backline alle ghigliottine.
Insomma, quella roba che chiamarono “shock-rock” ma che io preferisco chiamare performance-fumettose-per-ragazzini o r’n’r-da-servizi-sociali.
Sempre grazie, Alice Cooper.

Ogni giorno un brano intonato alla cronaca selezionato e commentato dalla redazione di Radio Strike.

Selezione e commento di Andrea Pavanello, ex DoAs TheBirds, musicista, dj, pasticcione, capo della Seitan! Records e autore di “Carta Bianca” in onda su Radio Strike a orari reperibili in giorni reperibili SOLO consultando il calendario patafisico. xoxo <3

Radio Strike è un progetto per una radio web libera, aperta ed autogestita che dia voce a chi ne ha meno. La web radio, nel nostro mondo sempre più mediatizzato, diventa uno strumento di grande potenza espressiva, raggiungendo immediatamente chiunque abbia una connessione internet.
Un ulteriore punto di forza, forse meno evidente ma non meno importante, è la capacità di far convergere e partecipare ad un progetto le eterogenee singolarità che compongono il tessuto cittadino di Ferrara: lavoratori e precari, studenti universitari e medi, migranti, potranno trovare nella radio uno spazio vivo dove portare le proprie istanze e farsi contaminare da quelle degli altri. Non un contenitore da riempire, ma uno spazio sociale che prende vita a partire dalle energie che si autorganizzano attorno ad esso.

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