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Giorno: 18 Dicembre 2015

NOTA A MARGINE
Monsignor Negri e il rimpianto di un potere civile che si genuflette alla Chiesa

“La Chiesa è fulcro e guida della società”. Atteso con curiosità in una delle sue prime uscite pubbliche dopo la nota polemica a proposito di papa Francesco e dell’auspicato intervento della Madonna a propiziarne la sorte “dell’altro papa”, il vescovo di Ferrara monsignor Luigi Negri stavolta lascia da parte la sciabola e sceglie la via della raffinata argomentazione e del dotto eloquio, ma non perde l’occasione per riaffermare la propria visione del mondo.
Il prestigioso frangente è quello che gli ha cucito addosso il nuovo rettore dell’ateneo di Ferrara, Giorgio Zauli, invitando il prelato a una sorta di pre-inagurazione dell’anno accademico: la riflessione proposta verte sul ruolo del pensiero cristiano nella storia dell’Università. “Ci piaccia o no – è la prolusione del rettore – siamo tutti figli della cultura cattolica romana, il cui contributo è assolutamente fondamentale: il pensiero cristiano esprime un’idea di progresso che induce ciascuno a lavorare su se stesso per poter essere un individuo migliore”.
La marcia del vescovo parte in discesa e si sviluppa attraverso un solido e coinvolgente excursus storico-filosofico che dal medioevo conduce alle soglie della modernità, evocando nascita e sviluppo dell’università come centro di un sapere partecipato. Ma aggiunge: “Il pensiero cristiano come l’istruzione si pone l’obiettivo di rispondere ai grandi quesiti della vita”. Al termine, in assenza di domande da parte dei presenti, il monsignore – citando Tommaso d’Aquino – in battuta lancia una provocazione intellettuale: “O questi – e pare improbabile – hanno compreso tutto, oppure non hanno inteso nulla”. Sfidato, il pubblico si limita a sorridere e applaudire. Mentre qualcuno prende carta e penna e annota sul taccuino ciò che gli pare di aver capito.

vescovo-negri1Ecco, dunque, che Negri richiama il passato per vivificare “valori che illuminino”, evoca la “Santa romana repubblica” tessendo l’elogio di un medioevo felix e lascia trafilare la nostalgia per un’epoca di “convivenza benevola e pacifica” (che tale peraltro storicamente non fu) sotto l’egida della Chiesa apostolica romana. “Sorretto dalla fede si genera in Occidente un movimento di vita che è argine alla disgregazione della civiltà greco-romana”.
Sottotraccia il vescovo definisce, proposizione dopo proposizione, un parallelo in chiaroscuro fra l’epoca nostra e il tempo antico, di cui mostra di serbar rimpianto, nel quale l’imperatore si genufletteva al papa riconoscendone, prima ancora che il potere temporale, l’autorità morale. Proprio ciò che il vescovo Negri auspicherebbe per questi nostri tempi corrotti, il cui antidoto è per lui rappresentato – ora come allora – dalla capacità della Chiesa di imporre la propria egemonia culturale. “La Chiesa, cui spetta il compito di educare l’Occidente, riporta a unità la pluralità e la diversità, tutto salvaguardando nella sua capacità di accoglienza infinita in un inesausto lavoro di conservazione”, dice.

Dal raffronto fra l’epoca contemporanea e il tempo in cui il Sacro romano impero si rendeva ancella di Santa Romana Chiesa (in una sudditanza plasticamente rappresentata dalla simbolica genuflessione dell’imperatore al pontefice), emerge l’esposizione a una comune insidia che, già dall’anno Mille, arabi e islamici portano all’Europa, cingendola d’assedio per sottometterla all’assolutismo orientale. Da tale rischio ci preservano coloro che il vescovo considera benemeriti alfieri della cultura d’Occidente – i crociati – dei quali già in altre circostanza il monsignore ha decantato i meriti, lamentandone l’assenza dal fronte attuale.
Così – lascia intendere – mentre gli uomini del Medioevo godevano della stabilità garantita dalla Chiesa e della protezione dei suoi paladini, al contrario l’Europa del Duemila appare “sazia e disperata” (come direbbe l’arcivescovo Biffi, buon sodale di Negri) proprio perché, a differenza di ciò che fu nell’anno Mille, ora la società non riconosce più la salvifica guida della Chiesa e non si assoggetta alla sua indiscutibile autorità morale.
Da qui la sottolineatura della responsabilità e del ruolo educativo che la Chiesa svolge in quei secoli, con la conseguente capacità di radicare i valori fondativi del viver civile comunitario, e il fermo richiamo all’evidenza che la la bussola del Signore non possa mancare neppure al tempo presente, pena decadimento e corrompimento dei costumi. Tema caldo e fronte sempre aperto, questo del imprimatur formativo, cui anche i partiti prestano attento orecchio e solerti provvedono alla bisogna. D’altronde, in Italia il processo politico di progressivo smantellamento della scuola pubblica laica e statale per ricondurre l’istruzione nell’alveo della cultura privata e cattolica è con ogni evidenza in atto e di certo compiace le attese del nostro monsignore.

LA RICERCA
Né meglio, né peggio, tutti ugualmente diversi

Il 92% degli adolescenti ferraresi ascolta o ha ascoltato offese omofobiche verso un compagno maschio nella propria scuola, sia essa un liceo, un istituto tecnico o un istituto professionale. La pervasività del fenomeno omofobico nelle scuole secondarie superiori di Ferrara è uno dei dati più significativi emersi dall’indagine svolta nel maggio 2014 dall’Ufficio diritti dei minori del Comune di Ferrara – in collaborazione con l’Osservatorio adolescenti, il Centro Donna Giustizia , il Centro di ascolto per uomini maltrattanti e il Movimento nonviolento – i cui risultati sono stati presentati da Elena Buccoliero il 10 dicembre a Palazzo Bonacossi durante l’incontro “Omofobia: si fa per scherzare?”.
Un titolo scelto non a caso: per i maschi adolescenti i canoni della virilità intesi in senso tradizionale restano il metro su cui confrontarsi e deridersi, ma dalle risposte dei 724 studenti di III e IV superiore coinvolti nell’indagine emerge che l’offesa omofobica è sì frequente, ma poco importante. Elena Buccoliero spiega che, durante le discussioni fatte in classe una volta rielaborati i dati della ricerca, i ragazzi hanno affermato: “Lo diciamo spesso, ma è uno scherzo”. “Oppure – continua – sembrano essere in grado di distinguere fra un’offesa omofobica vera e propria e una scherzosa, che si fa in modo reciproco. Dà fastidio quando è ripetuta, insistita e ne è vittima sempre la stessa persona”. Per quanto riguarda invece le reazioni nel caso un compagno venga apostrofato come omosessuale: la metà delle ragazze e un quinto dei ragazzi dichiara di intervenire, mentre il 22% dei maschi e l’11,5% delle ragazze si fa i fatti suoi; l’ilarità è praticamente solo maschile e molti maschi di origine straniera tendono a frequentare meno chi viene preso in giro come gay.
Anche le domande “cosa ti suscita un ragazzo o una ragazza omosessuale?” e “Perché alcune persone sono omosessuali?” suscitano riflessioni interessanti. Sembra essere “meno ‘accettabile’ una persona omosessuale dello stesso proprio sesso e più intrigante e interessante una persona gay dell’altro sesso”. In ogni caso 409 studenti, circa il 58% del campione, rispondono che provano “indifferenza” verso l’omosessualità. Tale sentimento non è però da intendere in senso negativo, piuttosto non è l’essere omosessuali o meno “che cambia il loro approccio verso una persona”, sottolinea Elena.
Quando, infatti, si chiede loro perché alcuni siano gay la maggioranza risponde che “sono tali perché provano affetto verso persone dello stesso sesso”, quindi per i ragazzi ferraresi “non c’è bisogno di cercare altre motivazioni”; inoltre per tre quarti del campione l’amore etero e quello omosessuale hanno la stessa dignità.
In sintesi, secondo Elena Buccoliero, dall’indagine si possono riscontrare due diverse tendenze: “una quota sempre più alta di adolescenti che dimostra un’apertura verso l’omosessualità”, alla quale però fa da contraltare “una fetta minoritaria, ma non irrilevante, di adolescenti che mantengono un atteggiamento di discriminazione”. Ci sono infatti 72 studenti, fra i quali 65 maschi, il 10% del campione in generale e il 17% del genere maschile, che verso un ragazzo o una ragazza omosessuale dicono di provare un certo disgusto. “Chi sono?”, si sono domandati gli autori della ricerca e scomponendo i dati, oltre alla prevalenza del genere maschile, risulta che “provengono soprattutto da istituti tecnici e professionali e molti hanno vissuto esperienze di violenza in famiglia”; infine va sottolineata la pericolosa coincidenza che tendono ad esprimere “una minore condanna della violenza fisica nella coppia eterosessuale”.
Una chiave di lettura interessante per interpretare il sostrato che lega tutte queste risposte l’ha data il pedagogista Giuseppe Burgio, autore di “Adolescenza e violenza. Il bullismo omofobico come formazione alla maschilità”. Prima di tutto ha decostruito il concetto di “omofobia”, partendo proprio dal nome: “non si tratta affatto di fobia, perché evitiamo le cose di cui abbiamo paura, non le andiamo a cercare”. Secondo Burgio poi non è il rapporto fra persone dello stesso sesso a causare problemi, ma il tipo di rapporto, cioè “la passività, i maschi che si comportano da femmine”, e “il genderismo”, cioè la confusione fra i ruoli di genere che non rispettano più gli stereotipi tradizionali; infine “la bifobia”, cioè il fastidio per le persone che hanno un comportamento bisessuale “presente tanto negli etero quanto negli omosessuali”. “Il termine più utile” per raggruppare tutti questi elementi per il pedagogista è “eterosessismo”, che non implica una fobia, ma l’asimmetria fra generi: in parole povere pensare che “l’eterosessualità sia migliore dell’omosessualità”. Inoltre si può concludere che “l’omofobia in realtà è uomofobia” originata dalla crisi del modello tradizionale del patriarcato che costringe i ragazzi “alla fatica e al lavoro di costruirsi un proprio modello di mascolinità”. Per Burgio ciò è evidente se si considera che gli adolescenti maschi oggi danno definizioni tutte in negativo di cosa sia la mascolinità: sanno cioè dire ciò che non sono. “I nostri adolescenti parlano in maniera ossessiva di omosessualità, però lo fanno mettendola in scena, in modo offensivo” e spesso rispondono alla fragilità maschile con la violenza, per attaccare fuori di sé ciò che non accettano di sé o per ristabilire il modello maschile colpendo ciò che non rispetta la norma.
Insomma secondo Burgio “i maschi sono il problema perché hanno un problema”. Cosa si può fare? “Da più di dieci anni tutti gli interventi fatti nelle scuole per la prevenzione del bullismo omofobico si sono basati sull’accettazione delle differenze, ma se il problema è la mancanza di un modello maschile di riferimento allora bisogna cambiare approccio. Per una crescita serena i ragazzi hanno bisogno di un’educazione alla maschilità, della costruzione di una maschilità non misogina e omofobica. Devono sapere che essere maschio non significa solo essere Superman, ma molte altre cose e tutte vanno ugualmente bene perché non c’è un ideale normativo cui bisogna aderire”.

Leggi [qua] la nostra inchiesta “Le identità contese”

LA BELLEZZA CI SALVERÀ
La luce dell’infanzia nell’arte: origini di un universo sconosciuto

L’interesse crescente degli studi storici per la storia dell’infanzia ha come punto di riferimento il fondamentale testo di Philippe Ariès, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna”, pubblicato a Parigi nel 1960. Si tratta della più interessante e vasta indagine sulla storia dell’infanzia dal medioevo alla contemporaneità, concentrata sull’evoluzione del concetto stesso di infanzia, concetto che aveva svolto un ruolo centrale nella costruzione della famiglia moderna.

Non a caso, Ariès parla di sentimento dell’infanzia e va a ricercarne i mutamenti nelle raffigurazioni artistiche, nell’abbigliamento, nei giochi ovvero nelle fonti dell’esperienza della vita infantile e soprattutto nel mondo dell’istruzione scolastica, giungendo a sostenere che proprio i cambiamenti delle idee sull’infanzia avessero radicalmente modificato l’esperienza del bambino.

La famiglia moderna con le sue dinamiche aperte alle esigenze dei bambini e alla loro affettività è, secondo Ariès, fenomeno recente da individuare tra il XVII e il XVIII secolo: riteneva quindi che ci fosse stata nel tempo un’evoluzione significativa degli atteggiamenti e dei sentimenti nei confronti dell’infanzia. Secondo lo storico francese, infatti, nella società medievale l’interesse per il bambino non era strutturato e su questo argomento negli anni ottanta del secolo scorso molti studi correggeranno il tiro, evidenziando come intuì Linda Pollock (1983) un nuovo approccio al problema, basato sulla continuità e non sul cambiamento. Anche il mondo antico e il medioevo confermano, per la studiosa, un interesse più concreto, pur nella limitatezza del bambino inteso come essere incompleto, le cui capacità non erano neppure da porre in relazione con quelle dell’adulto, tanto che quando le fonti antiche descrivono i bambini è per sottolinearne innanzitutto la loro debolezza fisica e mentale e per sottometterli ai doveri e alle responsabilità dei genitori.

Una documentazione certa di riconoscimento di status per i bambini, emerge chiaramente con l’avvento del Cristianesimo.

E’ Gesù che per primo mostra un inedito sentimento per l’infanzia e si rivolge ai bambini con affettuosa attenzione: “E gli presentavano dei bambini perché li toccasse; ma i discepoli sgridarono. Visto ciò Gesù si sdegnò e disse loro – lasciate che i bambini vengano a me, non li ostacolate, infatti a chi è come loro appartiene il regno di Dio. Amen dico a voi, chiunque non accoglie il regno di Dio come un bambino, non vi entrerà affatto – E avendoli abbracciati li benediceva ponendo le mani su di loro”(Marco 9,31). Gesù insiste varie volte sull’accoglienza che si deve dare ai piccoli: “Chi accoglie uno di questi bambini nel nome mio, accoglie me”(Marco 9,37). “Chi dà un bicchiere di acqua ad uno di questi piccoli, non perderà la mia ricompensa (Matteo 10,42). Nel giudizio finale i giusti saranno ricevuti per ciò che diedero da mangiare a uno di questi più piccoli” (Matteo 25,40).

Nei Vangeli l’espressione “piccoli” a volte indica bambino, altre volte indica “gli esclusi”. Infatti al tempo di Gesù e della scrittura dei vangeli i bambini facevano parte degli esclusi della società e quindi Gesù, mettendosi dalla parte dei più piccoli, sceglieva gli indifesi e quelli che non avevano diritti.

Nell’accogliere i bambini, Gesù esprime parole dure su coloro che causano scandalo ai fanciulli, li tocca quando le madri si avvicinano a Lui per chiedergli una benedizione e si identifica con i bambini (anche se gli apostoli si oppongono poiché toccare gli esclusi significa contrarre impurezza), dicendo “chi raccoglie un bambino accoglie me” (Marco 9,37); “tutto ciò che farete a uno di questi piccoli, lo avrete fatto a me (Matteo 25,40).

1. CONTINUA

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Il Teatro Comunale di Ferrara, l’argento vivo e il cambiamento necessario. Parla Roberta Ziosi

Si pensa al Teatro e si visualizzano poltroncine di velluto, luci dorate, si sente già il rumore dei passi di danza sulle tavole del palcoscenico e il ticchettio della bacchetta del maestro d’orchestra, sovviene il ricordo della passione nella voce di un tenore, la meraviglia suscitata dai costumi di questa o quella opera, lo scroscio degli applausi.

Tutto quello che la parola teatro evoca “E’ il frutto del lavoro di una macchina complessa, – ha spiegato Roberta Ziosi, presidente della Fondazione Teatro Comunale di Ferrara – che vede impegnati dietro le quinte, insieme agli artisti, tecnici e professionalità che spaziano afferenti a tanti settori produttivi: tecnici, designer luci, amministrativi, esperti di comunicazione, archivisti…personale di sala”. Tutti loro contribuiscono ad una organizzazione che ha mille voci e contribuisce alla vita della città, del sistema culturale locale e nazionale, talvolta anche in modi inaspettati.

Il Teatro Comunale di Ferrara è uno dei 29 “teatri di tradizione” legalmente riconosciuti in Italia. Essi hanno il compito di promuovere, agevolare e coordinare le attività musicali, in particolare liriche e più in generale performative, nel territorio delle rispettive province. La loro peculiarità è il radicamento in aree del territorio dove è forte una tradizione artistico-culturale, come quella di Ferrara, che dimostrino di aver dato particolare impulso alle locali tradizioni artistiche e musicali. “Spesso la definizione di teatro di tradizione porta ad avere un’idea parziale della natura di questi organismi. – ha raccontato la Ziosi nel corso di una visita presso la Biblioteca Archivio del Teatro – Noi abbiamo sicuramente il compito di preservare uno degli aspetti culturali peculiari del nostro paese, il vissuto legato alla storia del” teatro all’italiana”, quello del melodramma, e ogni struttura compie il suo lavoro con attenzione e competenza. Essere un teatro di tradizione però significa anche molto altro, in linea con i mutamenti della società e delle esigenze culturali che essa presenta. Significa avere un patrimonio da conservare, gestire e comunicare legato alle arti performative e al sistema culturale ad essa collegato. Un esempio: il Teatro di Ferrara ha uno degli archivi di fotografia di scena più ricchi d’Italia, una collezione di manifesti che va dal 1967 ad oggi, stiamo lavorando da tempo alla costruzione di un archivio di audiovisivi: si tratta di una immenso capitale che abbiamo il dovere di conservare e far conoscere alla città e al pubblico internazionale”.

La tradizione al servizio dell’innovazione e l’innovazione al servizio della tradizione, uno scambio che funziona?
“Si tratta di un rapporto fortunatamente inevitabile. Se abbiamo innovazione è perché siamo coscienti della nostra trazione che si traduce in know how. L’innovazione utilizza un immaginario, tecnica, dei linguaggi che fanno parte della storia di una forma artistica. Quelle che noi chiamiamo cross-medialità e la cross-culturalità non sono forme nuove, le arti si sono sempre reciprocamente parlate, influenzate, hanno sempre interagito, si sono sempre arricchite e formate l’una sull’altra. La creatività permea tutte le forme d’arte ed è il processo fondante, fulcro centrale, foriero di mille punti di partenza. Ma la ‘creatività’ è un processo presente in tutti i campi del vivere e dell’operare. Per l’attività teatrale teatrale atro sicuramente è ‘il processo – come direbbero gli economisti – ‘core’”.

Per il Teatro Comunale di Ferrara, la creatività è quindi a tutti gli effetti al centro di ogni processo?
“Si. Noi siamo diventati un’impresa culturale e creativa che offre spettacoli dal vivo, il teatro è la casa delle arti performative ma, al tempo stesso, facciamo tanto altro, le nostre attività si differenziano, sono molteplici. Ne cito alcune: oltre ai progetti che riguardano l’Archivio e la biblioteca (aperti al pubblico e con un’attrezzatissima sala di consultazione), le iniziative di didattica per le scuole di ogni ordine e grado, le collaborazioni con l’Università di Ferrara e con le numerosissime associazioni del territorio, la Fondazione ha puntato anche all’aspetto commerciale, proponendo l’affitto degli spazi per progetti di qualità, cercando di preservarne la natura storica e la qualità del luogo aprendo le porte a iniziative di spessore. La creatività è uno strumento importantissimo e incredibilmente legato alla realtà delle cose. – ha proseguito la presidente della Fondazione – I grandi artisti hanno le idee chiare, sono sistematici e sistemici, sono capaci di avere un’idea chiara e definita in se stessa e trovano il mezzo espressivo per esprimerla e comunicarla nella maniera più corretta possibile. Un artista è una persona perfezionista, che nello sviluppare il proprio lavoro mette in atto un processo creativo: la visualizzazione di un risultato, ossia l’idea alla quale vuole giungere e lo sviluppo del percorso per realizzarla e comunicarla”.

Come si applica la creatività dell’artista alle attività di una fondazione che si occupa di cultura?
“Abbiamo applicato questo approccio anche ad ambiti inconsueti, perché siamo consapevoli che il capitale artistico e creativo che possediamo va capitalizzato, anche dal punto di vista dell’organizzazione. La crisi prima e il terremoto poi ci hanno messo in condizioni di dover ripensare a quello che siamo e che avremmo voluto essere. In generale, penso che le criticità creino l’esigenza di capire dove sei, a che punto sei del tuo percorso, che cosa possiedi e quali strumenti hai per superarle, in che modo puoi superare il momento critico per gestire il cambiamento ed evolvere. In generale non esiste la stasi per nessun organismo e siamo sempre in una fase di cambiamento, la staticità è un’illusione perché siamo inseriti in un sistema e dobbiamo interagire con questo sistema, che sia il sistema città, nazione, il sistema teatro a livello nazionale e internazionale. Per interagire dobbiamo capire però quali strumenti abbiamo e come li dobbiamo usare. Noi a Teatro stiamo facendo questo”.

Per raccontare quali processi hanno messo in campo e quali risultati sono stati applicati, la Fondazione Teatro Comunale di Ferrara e l’ Associazione Teatri Italiani di Tradizione hanno organizzato un workshop al Ridotto del Teatro Comunale “Claudio Abbado”, per sabato 19 dicembre dal titolo “Strategie di innovazione nel sistema teatrale – Percorsi e soluzioni per nuovi modelli gestionali”, che vedrà l’analisi della crisi economica come opportunità di sviluppo di nuove soluzioni gestionali dei Teatri di Tradizione e in che modo il sistema teatrale, attraverso la tradizione innovativa, possa diventare un importante motore per per l ripresa dell’economia culturale del Paese.

“Il cambiamento è ineluttabile, fronteggiarlo, nuotare contro corrente è un inutile spreco di energia che è meglio preservare e impiegare per navigare in mezzo a questa corrente nel migliore dei modi. – ha spiegato ancora Roberta Ziosi – Per capire come cambia il sistema, per gestire al meglio il cambiamento, noi della Fondazione dopo il terremoto abbiamo cominciato a pensare a com’è fatta questa macchina, a come funziona, come interagisce con la città, la geografia dell sue attività. Noi che siamo interni sappiamo come funziona, nell’ambito del nostro spazio ma non in maniera sistemica: era oggi necessario riuscire ad avere una fotografia di un’organizzazione che si rendesse accessibile a tutti i soggetti di questa organizzazione ma, soprattutto, a tutti gli stakeholders interessati”.

Ma come si realizza praticamente il cambiamento che può portare una reale crescita nonostante il periodo di crisi, che pure si può leggere come stimolo, ma che è comunque un aspetto limitante allo sviluppo di un’impresa come la sua?
“Avevo proposto un nuovo approccio manageriale alla nostra organizzazione diversi anni fa e il Consiglio della Fondazione aveva approvato la mia idea. Avevamo quindi deciso di aderire alle normative richieste per ottenere le certificazioni ISO 9100, che riguarda la qualità dell’organizzazione e dei processi utilizzati nella gestione del lavoro e delle attività. Il terremoto ci ha rallentati per un po’ ma in realtà è servito anche da motore di sviluppo, ci ha fatto comprendere che non era sufficiente, per le nostre necessità, utilizzare solo la norma ISO 9001, quindi abbiamo deciso di ‘essere creativi’ anche sul percorso di analisi organizzativa e sperimentare un Sistema di Gestione Integrato che includesse anche la ISO 20121, a comprendere e definire la filosofia che è sta ‘dietro le quinte’ dell’ “impresa Teatro Comunale di Ferrara ‘Claudio Abbado’, il modo di comunicarla e di aderire alla stessa, definendo con i fatti la direzione che si sta seguendo. La certificazione va infatti a verificare la politica di gestione che un azienda ha e ne attesta la sostenibilità ambientale, economico e sociale. Per fare questo ci siamo affidati a dei consulenti che ci hanno accompagnati in questo processo di innovazione, Simona Tosi e Cesare Buffone per PUNTO3 che ringrazio per aver aderito a questo progetto anche per loro sperimentale, a cui poi si è entusiasticamente affiancato anche Bureau Veritas, in qualità di ente certificatore accreditato a livello europeo: differenti settori del mondo produttivo, mondi diversi che hanno portato avanti un progetto comune all’insegna della sperimentazione, della creatività e dell’innovazione.”

Che impatto ha avuto, ed ha tutt’ora, questo processo sulle persone che lavorano nella vostra organizzazione? 
“Tutti noi, ci siamo dovuti interrogare su ciò che facciamo ogni giorno nel corso nel nostro lavoro. Abbiamo dovuto definire il nostro ruolo nell’ambito del nostro spazio professionale e all’interno del sistema. Questo stesso studio è stato fatto quindi sul sistema dagli stessi soggetti che lo costituiscono: le persone che ogni giorno ci lavorano e che permetto di realizzare concretamente tutte le attività. Abbiamo cercato le parole per definire chi siamo, cosa facciamo e come lo raccontiamo all’interno del sistema e fuori da esso. Questo per poter avere tutti un quadro condiviso del mondo in cui ci muoviamo e – al tempo stesso – una idea condivisa di quello che possiamo proporre al mondo esterno, agli stakeholder, che per noi sono il pubblico pagante, il Comune di Ferrara che è il nostro socio di maggioranza, le altre istituzioni culturali e i cittadini. Definito ciò che siamo e perché lo siamo, abbiamo potuto trovare nuovi modi, più efficaci, di proporre e proporci, diventando soggetto economico ‘consapevole e comunicabile’ della città, un soggetto esterno internazionalmente accreditato per questa funzione – Bureau Veritas – ci ha certificati come ‘soggetto’ produttivo nazionale e internazionale innovativo e sostenibile ma la sfida non è finita… rimaniamo e rimarremo in costante movimento per continuare ad evolverci”.

Quanta fatica costa un processo del genere, visto che richiede nuovo approccio in ogni attività dell’organizzazione?
“Tanta fatica, tanto entusiasmo e tanto scoramento. L’importante è non perdere mai di vista la meta, apprezzando e facendo apprezzare i piccoli risultati intermedi. Alla fine però si arriva alla consapevolezza che tutta quella fatica nel cambiamento dei processi serve a fare meno sforzo in seguito, quando i meccanismi nuovi saranno acquisiti. Inoltre è stimolante, emozionante: avere il disegno di quello che sarà e trovare la strada giusta per realizzarlo, per il bene di tutta la comunità e del sistema teatro stesso, sperimentare formule nuove, è davvero esaltante.”

Quindi, cosa ci riserva il futuro della Fondazione e del Teatro Comunale di Ferrara?
“Dal punto di vista normativo, seguiremo il nostro piano di miglioramento triennale che abbiamo approntato attraverso il nostro sistema di gestione integrato che prevede e che fonde anche indicatori precisi di qualità per la 9001 e per la 20121: si tratta di uno strumento unico che è una sintesi degli strumenti delle due normative e che verrà verificato nella sua funzionalità di anno in anno. Lo useremo per costruire altri strumenti per realizzare dei percorsi che ci permettano di recuperare dei dati oggettivi per comunicare tutto il processo in se stesso in maniera diretta e più chiara internamente e esternamente. In parole semplici, la prossima fase sarà di lavoro sulla applicazione del sistema alla vita di tutti i giorni, sulla comunicazione dei suoi risultati e sulla creazione di migliori reti di partenariato e sinergie. Verificheremo anche quanto questo diverso approccio alla nostra stessa organizzazione ci porti una nuova energia per pensare e realizzare nuovi progetti, nuove prospettive. Speriamo anche che questa nostra esperienza possa diventare l’apripista per gli altri teatri di tradizione verso un’innovazione creativa dell’organizzazione”.

DIARIO IN PUBBLICO
Una giornata romana

di Gianni Venturi

S’arriva a Roma in una mattina di sole e resti senza fiato: nessuna coda ai taxi fuori stazione Termini, un silenzio irreale. Chiedi di portarti all’albergo dietro Campo dei Fiori. La bellezza diventa sempre più struggente. Il pesciaiolo di fronte all’hotel ti guarda stranito e tu sali le scale del vecchio albergone costruito sul teatro di Pompeo. Sì proprio là dove hanno ucciso Cesare. Arriva Portia e andiamo a mangiare. Sono le una e il ristorante è vuoto. Ci portano un sacchetto di tela: è pieno di tartufi e non resisti; così ti fai le fettuccine con il tubero, ma il ristorante resta vuoto.
A Campo dei Fiori i pakistani ti offrono meravigliose tuberose e rose e ancora rose. La città è quasi deserta. I turisti non arrivano e non sai se sia per l’effetto Isis o perché l’Europa è diventata meta pericolosa per le altre parti del mondo. Gran parte dei programmi universitari americani a Roma come in altre città italiane non riescono a coprire i posti. Molte Università americane quindi dovranno chiudere l’anno prossimo.
Alle tre l’appuntamento è nei locali di Civita, l’associazione culturale che possiede la più straordinaria terrazza di Roma: di fronte a Palazzo Venezia e, sotto, il più alto concentrato di bellezza e di storia. Così i ricordi si affollano: le conferenze in quel luogo promosse da Carife e dalla Fondazione nella illusione convinta che quello era il compito e il destino della “nostra” banca. Impercettibilmente l’idea della bellezza vira nel suo contrario, in quella storia della bruttezza –storia e non più idea- narrata da Umberto Eco in un importante libro. Cominciano i conversari, le idee, le proposte. Siamo in tanti a misurarci sulla occasione del Centenario della nascita di Bassani: politici, studiosi, artisti. Tutti offriamo il nostro contributo a un progetto che proietterà la figura del grande scrittore nel mondo intero.
Ma il sole che accarezza i monumenti più belli del mondo sbiadisce e s’intristisce al ricordo di ciò che ha offeso “Frara” città del Worbas. Usciamo alle prime ombre mentre s’illumina il grande albero di Natale ( vero e non di vetro) di fronte alla maestà dell’Impero e ci affrettiamo alla Casa delle Letterature in Piazza dell’Orologio, un luogo amato dallo scrittore ferrarese. E si passa per la Chiesa Nuova e per via del Governo Vecchio mentre i ricordi tumultuano e vogliono uscire. Lì alla casa delle Letterature si celebra un pomeriggio dedicato alla Luminosa, la mia Elsa Morante. Figure note, vecchi amici e giovani studenti: ognuno di noi dovrebbe leggere una pagina, una lettera, un documento che riguarda Elsa. Io non leggo nulla: ricordo solo la mia schiavitù d’amore per chi ha cambiato la mia vita, la grandezza di un ricordo che non cessa di alimentare ciò che resta del giorno. Roma silenziosa e deserta: un’esperienza mai provata. Poi nelle Grotte di Pompeo ci raccontiamo momenti della storia che ci ha in qualche modo resi intrinseci non solo all’arte ma alla vita dello scrittore ferrarese.
E, implacabile la televisione, mentre ricerchi il sonno ristoratore, ti trasmette le ultime informazioni sullo scandalo delle quattro banche. Nemmeno nella tragedia riusciamo a mantenere il primo posto. Immediatamente scippata dalle vicende della banca dell’Etruria quella della banca ferrarese sembra farci fare la figura dell’allocco. Nel gioco al massacro rimaniamo buon ultimi: gabbati e mugugnanti. Ma silenziosi. Come sempre.
Ora alcune voci di protesta sembrano alzarsi a fendere la nebbia fitta che materialmente e moralmente sembra gravare sulla città estense. Ma lo sconcerto rimane. E il dubbio: che fare?
Nel frattempo la Freccia argentea appositamente presa per evitare la discesa agli Inferi a cui approdano quelle rosse spaccando il minuto giunge a Bologna. La scelta sibillina era duplice. O prendere quella precedente 5 minuti prima di questa che fermava a Rovigo e poi con un regionale veloce tornare a Frara, oppure, nel pensiero sembrava logico, salire su un meglio identificato Bologna-Ferrara che partiva di lì a poco e che ovviamente si fermava a tutte le stazioni. Tempo previsto 55 minuti. Esattamente lo stesso tempo previsto per attraversare l’Appennino da Bo. a Fi. Eppure nel lento rantolare del trenuccio in evidente difficoltà di percorso la mente annebbiata guarda fuori e vede sfilare la bruttezza somma di paesini un tempo fieri di una loro dignità estetica e ora sfigurati dalla bomba della crisi economica. Capannoni dismessi, sporchi, diruti creano una monotona processione appena vivacizzata dai cosiddetti artisti di strada. Tra una bruttura e l’altra qualche casale ancora mantiene la dignità. Dall’erba giallognola dei campi arati perfettamente una palma a pena svetta; direbbe il poeta.
Poi la bruttezza s’impossessa anche di quel poco che resta di un paesaggio storpiato dalla demenza umana e dall’ingratitudine di chi ha pensato alla natura come opaca risorsa senza anima e storia. Come mai ci siamo ridotti a vivere nell’inferno della bruttezza?
Qualche lacerto di campagna si vede vicino a Coronella, nome gentile e pieno di ricordi. Poi inesorabilmente entriamo nella bruttura della periferia dove inutili imponenti opere mostrano le lro finestre cieche, chiuse perché nessuno ci abita.
Continuiamo a vivere così e forse ci accontenteremo di discutere sull’albero di vetro o sulle casette tirolesi del mercato. Questo sì che appassiona e ci consola (?) per lenire il costante pensiero di ciò che abbiamo perduto oltre ai nostri risparmi: la bellezza.

TRADIZIONI
La Novena di Natale: infreddoliti, ma felici

La Novena di Natale: preghiere che si recitano nei nove giorni che precedono il 25 dicembre nel calendario liturgico. E’ uno dei ricordi più forti legati al Natale di Lucia, Teresa e Maurizio: “Non so bene come spiegare quelle sensazioni, era una specie di periodo di preparazione, Natale per la nostra famiglia iniziava con la Novena”, racconta Teresa.
“Ogni giorno la celebrazione era alle sei del mattino”, perciò non è difficile credere a Maurizio quando confessa che le prime cose che gli vengono in mente sono “il buio, la neve e il freddo, molto più di ora”. Chissà quanti degli odierni strenui difensori della tradizione natalizia cristiana si sveglierebbero per nove giorni alle sei del mattino solo per recarsi, digiuni sia ben chiaro, a piedi in chiesa e prepararsi con canti e preghiere all’arrivo del bambinello di Betlemme? E poi, dopo una breve sobria colazione, via a scuola o al lavoro fino a sera.
“La cosa bella era che, forse proprio per il buio, le persone uscivano di casa tutte insieme. Quindi si intravedevano per le strade questi gruppi di persone, contadini e braccianti, che nella semioscurità arrivavano dalle varie vie e dalle grosse tenute del paese e si radunavano mano a mano davanti alla chiesa”, in un brusio che si faceva sempre più vociante.
Anche la chiesa era semibuia e fredda, anzi “gelida, allora non esisteva il riscaldamento”, ma nonostante ciò “era gremita, le donne a destra e gli uomini a sinistra, oppure addirittura dietro l’altare. Le famiglie più in vista avevano il proprio banco, mentre per gli altri c’erano le sedie e per averne una bisognava fare un’offerta. A volte però capitava che finissero anche quelle”.
“Ogni volta si accendeva qualche luce in più e l’ultimo giorno di Novena, la mattina del 24 dicembre, la chiesa si riempiva di luce perché tutti i lampadari erano accesi come nelle grandi solennità”. Inoltre a ognuno veniva distribuita un candelina sottile sottile e quando si accendevano tutte insieme formavano una folla di piccole fiammelle tremolanti, quasi fossero damigelle al seguito delle luci sfavillanti dei lampadari della chiesa.
“Per noi bambini solitamente la messa era un po’ noiosa, sai allora era ancora tutta in latino, quindi si recitava a memoria senza sapere bene cosa significassero le parole. Non era così però nel caso delle celebrazioni di quel periodo. In particolare aspettavamo la fine del kyrie*, intonato in modo un po’ stonato da una signora che si chiamava Anita – confessa Maurizio, sorridendo ancora al pensiero – perché poi iniziavano i canti che ci facevano entrare nell’atmosfera del Natale. Eravamo tanto infreddoliti, ma felici”

*Kyrie Eleison è un’antica preghiera della liturgia cristiana, in seguito alla riforma liturgica nel rito romano in lingua italiana è stata tradotta “Signore, pietà”.

4. continua

Leggi le puntate precedenti
Nei racconti dei nonni il significato autentico del Natale
Il Natale fra le due guerre: “Mandarini, caramelle e le zigale ci bastavano per fare festa”
Quando a Natale sbocciavano i fiori di carta

Elefanti e autovelox

Cocomaro di Cona è la piccola frazione vicino a Ferrara dove c’è la scuola elementare che frequento. Stamattina ho parcheggiato nel piazzale della chiesa di Cocomaro e mi sono accorto che qualcuno aveva piazzato un autovelox davanti alla chiesa (ho detto ai vigili che non potevo non fotografare quella situazione). L’ho postata su Twitter con una breve rima e stasera invece mi è scappata una filastrocca.
Magari è sbagliato, magari non ci sta. Ma a me è venuta questa roba qua!

In passato non era poi così raro
vedere un elefante a Cocomaro.
Ciò ai bambini sembra inventato
però l’elefante davvero c’è stato.
La loro bella incredulità festaiola
ho vissuto oggi vicino alla scuola.

Ho avuto infatti una buffa sorpresa:
un autovelox era davanti alla chiesa!
Come ci sia arrivato nessuno lo sa:
con salto o una corsa in velocità?
Era sulla porta con un’aria beffarda
Come chi rivela una storia bugiarda.

Aveva un gran bell’abito arancione
Con scritte 10 lettere: Attenzione!
Che volesse andarsi a confessare?
Sensi di colpa da farsi perdonare?
Forse cercava una sua redenzione
oppure bisognava di benedizione.

Stamattina io non gliel’ho chiesto
Non ho trovato il giusto pretesto.
Mi è venuta invece una curiosità:
ma quell’autovelox che fine farà?
Stasera l’autovelox non l’ho trovato,
che avesse un colloquio col prelato?

In questi scuri tempi sospettosi
certi commenti saranno curiosi.
Ci sarà chi grida, chi darà l’allarme,
Chi vorrà qualche altro gendarme.
Arriverà la condanna dell’assessore,
di sicuro l’anatema del monsignore.

Io non so se sia stata una bravata,
una provocazione, una pagliacciata;
forse mi sbaglio, sottovaluto, chissà
però anche se nessuno ci crederà
per me non è fatto da raccontare
piuttosto una storia da inventare.

Quella dell’autovelox e dell’elefante
E l’intreccio può essere accattivante.
Il primo, la velocità va a confessare
dall’altro c’è la lentezza da imparare.
Entrambi insegnano a vivere piano,
e che ciascuno dev’esser più umano.

Sho(w)pping

Non è un piacere vedere la gente con le mani piene di pacchi regalo? Dite la verità, non crea un certo senso di festa, non è uno spettacolo? Non posso negare che sia un piacere anche per me tenere tante sporte di regali in mano, tutte insieme, tutte nuove, colorate, prive di pieghe, degne custodie di regali impacchettati ad arte. Ma godermi lo show di chi entra ed esce dai negozi con l’aria contenta per gli acquisti natalizi, mi diverte ancora di più. Ricordando beninteso che lo spirito del Natale è tutta un’altra cosa…

In foto: una signora che ha appena fatto shopping in Piazza Trento Trieste a Ferrara

Immagini rappresentative di Ferrara in tutti i suoi molteplici aspetti, in tutte le sue varie sfaccettature. Foto o video di vita quotidiana, di ordinaria e straordinaria umanità, che raccontano la città, i suoi abitanti, le sue vicende, il paesaggio, la natura…

Giornata internazionale dei migranti

Si celebra la Giornata Internazionale del Migrante, istituita nel 2000 dalle Nazioni Unite. La data fu scelta per richiamare la Convenzione Internazionale sulla Protezione dei Diritti dei Lavoratori Migranti e dei Membri delle Loro Famiglie, adottata il 18 dicembre del 1990 dall’Assemblea delle Nazioni Unite.

Walt Whitman
Walt Whitman

“A te. Straniero, se passando mi incontri e desideri parlarmi, perché non dovresti farlo? E perché non dovrei farlo io?”
 (Walt Whitman)

Una quotidiana pillola di saggezza o una perla di ironia per iniziare bene la giornata…

Martin Reverby

Oggi è il 18 dicembre e come ogni 18 dicembre potrei sfracellare l’anima a chiunque con delle infinite pezze su Keith Richards.
Ma questa volta no.
Questa volta ho deciso di rendere onore a Martin Rev ovvero metà – insieme ad Alan Vega – di quella prima band che si definì “punk” con cognizione di causa.
Strano ma vero, nel 1971, furono proprio i Suicide a sbandierare per primi quella parola su un volantino.
Ovviamente, prendendo l’idea da Lester Bangs.
Rispetto a ciò che il punk divenne successivamente i Suicide rappresentavano e rappresentano ancora un’anomalia.
Due stronzi, vestiti sì di pelle, ma solo due.

Brano: “23 Minutes Over Brussels” dei Suicide Album: Suicide del 1977
Brano: “23 Minutes Over Brussels” dei Suicide
Album: Suicide del 1977

Rispettivamente, Martin Rev dietro a una tastiera scassatissima e a una drum machine altrettanto scassata “pensata per i bar mitzvah” (!) e Alan Vega dietro al microfono e con in mano una catena.
Il tutto in mezzo a molto molto riverbero.
I Suicide arrivarono al primo disco perfettamente in tempo, nel 1977.
Ma non andò benissimo.
Esiste una registrazione di un concerto di spalla a Elvis Costello, in Belgio, nel 1978.
Il pubblico li massacra di fischi e chiama a gran voce il buon Elvis ma i Suicide non si scompongono e reagiscono a modo loro: Martin Rev continua dritto come un treno e Alan Vega aumenta di volume le sue ormai proverbiali urla annegate nel riverbero.
E a una certa gli risponde urlando “SHUT THE FUCK UP! THIS IS ABOUT FRANKIE!”.
Giustamente, anche.
Per chi non conosce la storia di Frankie, beh, recuperatevi quel disco del 1977.
Quel disco, dicevo prima, non andò da dio a livello di vendite ma riuscì a guadagnare un culto di fan anche “insospettabili” come quel tipo famoso, Bruce Springsteen.
Quel furbacchione del Boss infatti sgamò subito le vere radici dei Suicide.
Perché dietro a quei suoni “proto-synthpop”, “proto-no wave” o come li volete chiamare, c’era una cosa che a uno come Bruce non poteva davvero sfuggire: Elvis ma non Costello, diomà.
E Alan Vega l’ha sempre detto e ridetto: è solo r’n’r.
Da lì vissero più o meno tutti felici e contenti.
Elvis muore lo stesso anno in cui esce il disco dei Suicide, Elvis Costello è ancora in giro, i Suicide continuano a fare dischi in linea di massima fighi (anche da solisti), il Boss gli ruba qualche idea per Nebraska e continua a suonare la loro Dream Baby Dream in live.
E in tutto questo Alan Vega quest’anno ne ha fatti 77 (!) e Martin Rev ne fa, proprio oggi, 68.
Quindi celebriamo Martin Rev e i Suicide con questo “defining moment in punk history”.
Auguri e grazie per il riverbero.

Ogni giorno un brano intonato alla cronaca selezionato e commentato dalla redazione di Radio Strike.

Selezione e commento di Andrea Pavanello, ex DoAs TheBirds, musicista, dj, pasticcione, capo della Seitan! Records e autore di “Carta Bianca” in onda su Radio Strike a orari reperibili in giorni reperibili SOLO consultando il calendario patafisico. xoxo <3

Radio Strike è un progetto per una radio web libera, aperta ed autogestita che dia voce a chi ne ha meno. La web radio, nel nostro mondo sempre più mediatizzato, diventa uno strumento di grande potenza espressiva, raggiungendo immediatamente chiunque abbia una connessione internet.
Un ulteriore punto di forza, forse meno evidente ma non meno importante, è la capacità di far convergere e partecipare ad un progetto le eterogenee singolarità che compongono il tessuto cittadino di Ferrara: lavoratori e precari, studenti universitari e medi, migranti, potranno trovare nella radio uno spazio vivo dove portare le proprie istanze e farsi contaminare da quelle degli altri. Non un contenitore da riempire, ma uno spazio sociale che prende vita a partire dalle energie che si autorganizzano attorno ad esso.

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