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Giorno: 22 Gennaio 2016

Froci e razzisti, indignazione e ipocrisia

Mi chiedo di che si sta parlando… Dobbiamo stupirci e indignarci perché qualche illetterato buzzurro che, per sua fortuna, ha azzeccato il giusto mestiere pallonaro e calca il proscenio del gioco nazional popolare per eccellenza attirando (ahinoi) attenzioni spropositate e immeritate, si spende in espressioni sue consone e niente affatto incredibili, frutto di un normale e radicato malcostume dialettico quando gli animi prendono a scaldarsi e le idee ad appannarsi? Sarri non è personaggio intellettuale, non è un professore, non è uno statista, non è un ideologo, uno studioso, antropologo, sociologo, politologo che sia, non un pensatore, un filosofo, una figura istituzionale… Sarri è un provinciale che insegna a giocare a pallone, non un uomo avvezzo alle parole ma all’azione, uno sanguigno, un esponente del popolo semplice e lavoratore, con tutte le qualità e pure i difetti che il suo esserlo comporta. Se registrassimo tutte le parolacce, le offese e soprattutto le bestemmie che ogni domenica, dai campetti delle pro loco agli stadi della serie A, puntualmente e naturalmente vengono urlate da spettatori, giocatori, allenatori e, perché no, dagli stessi presidenti delle squadre, ebbene, non ne usciremmo proprio più! Che fare allora?
La questione è alla fonte, come sempre, ma non cerchiamola prendendo direzioni sbagliate, come sempre! Malcostume e ignoranza sono questioni più grandi di qualsiasi scoop giornalistico che nasce e muore nel giro di poche ore, passando ben presto nel dimenticatoio mano a mano che le notizie successive occupano lo spazio di quelle precedenti. Epiteti come frocio, negro, mongoloide, sono deplorevoli perché offendono e mettono alla berlina minoranze e soggetti deboli che, per fortuna, la società attuale e le sue istituzioni hanno imparato o stanno imparando a tutelare e rispettare. Fanno scandalo più di altre offese proprio perché, spesso, servono a sollevare un problema di convivenza civile in fase di elaborazione, cioè ancora non del tutto risolto.
Un esempio di ciò è che, se torniamo indietro di nemmeno tanti decenni, chi era razzista non si offendeva affatto se qualcuno lo apostrofava come tale, anzi. Adesso, anche i razzisti militanti, se chiamati razzisti, si offendono e reagiscono.
Questo la dice lunga su come il sentimento comune stia evolvendo in direzione del riconoscimento delle altrui diversità. Si tratta di un processo in divenire ormai avviato da tempo e che impiegherà, temo, ancora alcune generazioni per risolversi in una piena e naturale integrazione. I processi culturali sono lenti per definizione, molto più lenti di quanto vorrebbero gli attivisti impegnati per il cambiamento.
Spesso chi offende in un impeto di rabbia, lucidamente o meno non importa, lo fa usando d’istinto il termine più offensivo e dispregiativo che riesce a pronunciare. Lo fa nell’intento esclusivo di ferire e umiliare l’antagonista che gli sta di fronte, poco importa che il termine scelto sia, guarda caso, un epiteto che offende e umilia un’intera categoria di persone, l’importante è che sia efficace e che l’altro accusi il colpo. Un tempo i termini preferibilmente usati erano altri: cornuto, bastardo, figlio di puttana, tutti termini che, riflettendoci bene, riguardavano e riguardano condizioni e situazioni individuabili all’interno della famiglia. Oggi non è più così, la famiglia è implosa schiacciata dalla società e dal suo nuovo, immenso potere mediatico che ha di fatto raso al suolo le mura domestiche. Quello sociale, con tutte le problematiche ad esso correlate, è diventato il principale ambiente di formazione dell’individuo, ecco tutto.
Dunque, dobbiamo mettere alla gogna il signor Sarri per aver detto frocio a un suo collega notoriamente eterosessuale? Facciamolo, se questo servisse a risolvere il malcostume popolare dell’offesa gratuita a spese di intere categorie di persone.
O dobbiamo invece riconsiderare il comportamento del signor Mancini, che ha furbescamente denunciato nella piazza mediatica un termine certamente becero, ma all’interno di un diverbio che, in teoria, sarebbe dovuto rimanere confinato al campo da gioco? Forse Mancini non ricorda che lui stesso, anni addietro, offese allo stesso modo un giornalista dicendogli proprio “frocio di merda”, e che ancor prima sminuì le offese razziste di un suo compagno di squadra all’avversario di colore sostenendo che “certe cose iniziano e finiscono nel terreno di gioco”.
Viene il dubbio, visto i suoi precedenti, che Mancini abbia agito per ragioni tutt’altro che etiche. Ovvero, non tanto per mettere sotto accusa un malcostume culturale quanto per mettere mediaticamente sotto pressione un diretto avversario nella corsa allo scudetto. Se fosse vero, allora sarebbe opportuno dissociarsi da tutto questo clamore, per non rendersi ogni volta complici dell’ennesima operazione di morale massificata, operazione tanto politicamente corretta quanto falsa e ipocrita, che tanti personaggi pubblici quotidianamente ci dispensano per i loro scopi non dichiarati.
Il gioco, la competizione agonistica soprattutto negli sport di squadra come il calcio, nasce come simulazione della guerra, della lotta, serve per liberare e controllare in un ambito non violento gli istinti aggressivi propri della nostra specie, come di ogni altra specie predatrice. E in quanto tale, nonostante le regole imposte per disciplinarne i comportamenti e confinarli in un ambito di civile convivenza, libera inevitabilmente i nostri più bassi e feroci istinti: le offese verbali, i falli di gioco, le spinte, fino alle scazzottate, non sono che lo sgradevole ma inevitabile corollario della liberazione di essi. Dobbiamo stupircene?
Possiamo senz’altro cercare di controllarli e isolarli, quello che si dovrebbe certamente evitare è farli fuoriuscire dal loro contesto per farne uno strumento di propaganda a vantaggio di qualcuno, casomai mascherato come fosse un’operazione di denuncia a beneficio di tutti.

LA LETTURA
Un Iran sempre più letterario e femminile

Fariba Vafi
Fariba Vafi

Vincitore in patria del prestigioso premio Golshiri (lo Strega iraniano), assegnato dalla Fondazione Golshiri, la più importante istituzione letteraria dell’Iran contemporaneo, e del premio Yalda, uno dei principali riconoscimenti letterari iraniani, Come un uccello in volo, di Fariba Vafi (uscito in Iran nel 2002), è un romanzo diverso, coinvolgente e toccante, lontano dagli stereotipi sull’universo femminile mediorientale cui la stampa e la propaganda ci hanno nel tempo abituati.

Nata nel 1962 a Tabriz, nel nord del paese, e formatasi alla scuola della polizia femminile islamica a Teheran (rientrata a Tabriz, viene impiegata come guardia carceraria ma abbandona il servizio dopo tre mesi), Fariba Vafi è oggi una delle scrittrici di maggior successo in Iran: ha pubblicato una raccolta di racconti (il primo racconto Rohat shodi pedar, Ora sei in pace, papà, risale al 1988) e quattro romanzi diventati dei best seller in breve tempo e rappresenta una nuova generazione di scrittori (in gran parte scrittrici, per la precisione) apparsi sulla ribalta letteraria dopo la Rivoluzione islamica del 1979 (da allora molte donne tornano sulla scena).

Come il precedente libro di altra bella scoperta letteraria iraniana (A quarant’anni, di Nahid Tabatabai, vedi), siamo immersi ancora una volta in un mondo femminile delicato e complesso, quello di una giovane donna come tamte (il cui nome non compare ma che ha molte somiglianze con l’autrice), alla ricerca della propria identità di casalinga stretta fra quattro strette mura che cerca di ridefinire il proprio ruolo di madre riluttante, di moglie stanca e di figlia insofferente, cui difficilmente ormai si riconosce. Siamo in Iran, lo si immagina, considerata la nazionalità dell’autrice e i nomi dei protagonisti (i figli Shadi e Shahin, le sorelle Shahla e Mahin e il marito Amir), anche se questo non viene mai scritto chiaramente. Questo il segno di una storia che potrebbe ancora una volta, essere universale, quella di molte donne nel mondo. Come lo era stato per Alaleh (vedi).

In una realtà che non è in bianco e nero, almeno non più. Fossilizzata in una condizione di inerzia, soggezione e insoddisfazione alla quale pare condannata dal suo difficile passato familiare rimasto avvolto nel mistero e nella paura (“io avevo paura del buio, delle cantine, delle ombre, di zio Qadir e perfono di mamma e di zia Mahbub e perciò non mi usciva la voce”), la protagonista comincia a prendere coscienza di sé stessa nel confronto con un marito sempre inquieto, la cui unica risposta al malcontento e alle difficoltà del vivere quotidiane pare fossilizzata nel sogno ossessivo di emigrare lontano, in Canada, terra di speranze, per tutti. E che, a un certo punto, se ne va a lavorare in Azerbaigian, a Baku. E’ stanca di combattere con la vita di ogni giorno e un marito indifferente (“sono stufa di dovermi occupare costantemente dei bambini, del muro scrostato, dello scaldabagno rotto, degli scarafaggi che non scompaiono con nessun insetticida”), si sente un po’ come “un uccello migratore”, “rinchiuso in gabbia”, finché trova dentro di sé la via per uscirne, cantando (Alaleh vi era riuscita riprendendo a suonare il violoncello. Ah, la musica!). Una donna che non si guarda allo specchio, che si rifugia nel silenzio, che, tuttavia, non è passivo né aggressivo. È un silenzio critico, pieno di domande. Nel suo silenzio, la protagonista guarda gli altri, osserva, s’interroga, e infine trova sé stessa. È una sorta di riflessione che le serve per valutare la sua vita, per capire come proseguire. Viaggia in sé stessa, con sé stessa e attraverso sé stessa. Devota e lavoratrice ma stanca, davanti a una calda tazza di caffè o a un intenso e aromatico the odoroso.

uccello in voloIl libro ha uno stile asciutto e denso, le immagini colorate e le descrizioni vive dei quartieri e della vita che vi ruota intorno sono di forte impatto ed empatia; tutto mi ricorda i colori, le sensazioni, i rumori, gli oggetti, le cianfrusaglie, i negozi, i fiori, il brusio, il rumore e gli odori di molti quartieri sovraffollati di paesi nord-africani. Mi vengono in mente Tripoli, Algeri o Il Cairo, i loro vecchietti sdentati per le strade, i giovani che chiacchierano, le donne che fanno acquisti, i venditori di verdure, i fornai che fanno il pane. Come dimenticarle. Una storia toccante e coinvolgente, per tutti.

Fariba Vafi, Come un uccello in volo, Ponte33, 2010, 136 p.

Una Ferrara inedita: fotografie e percorsi tra i marmi romani e bizantini

Città misteriosa per antonomasia, Ferrara non smette mai di scoprire o riscoprire tesori e angoli dimenticati. Come nel caso della mostra e del percorso ideato da Ferrarie Decus: si intitola “Voci dalle Pietre: marmi romani e bizantini a Ferrara” l’esposizione fotografica che sarà inaugurata oggi 22 gennaio alle 17.30 nel Salone d’Onore della residenza municipale. La  mostra, visitabile fino al 19 febbraio, si snoda attraverso diciannove pannelli finalizzati a far conoscere le ‘antichità’ romane e bizantine che Ferrara conserva e insieme i percorsi che, partendo dalla cattedrale, consentono di raggiungere gli edifici nei quali le varie ‘pietre’ sono conservate e visibili: il Lapidario civico, Palazzo di Renata di Francia, basilica di S. Francesco, chiesa soppressa di S. Apollonia, monastero di S. Giorgio, Museo della Cattedrale, Palazzo delle Poste Italiane.

Lo scopo dell’iniziativa è riportare all’attenzione della comunità le antichità cittadine, tra cui epigrafi funerarie, clipei, sarcofagi e manufatti risalenti all’epoca romana e bizantina. A corredo della mostra sono anche sono state organizzate cinque conferenze per riscoprire questo tesoro dimenticato: Chiara Guarnieri il 18 marzo al museo Archeologico Nazionale; le altre conferenze, in programma alle 16.30 a palazzo Bonacossi, saranno tenute dall’arcivescovo Luigi Negri (26 febbraio) e dagli studiosi Stella Patitucci (29 gennaio), Sauro Gelichi (5 febbraio), Paola Porta (4 marzo) e Stefano Bruni (11 marzo).

La mostra sarà itinerante: dopo Ferrara (dal 22 gennaio al 19 febbraio) si sposterà a palazzo Ludovico il Moro e poi nel Comune di Voghiera, e probabilmente nei mesi estivi a Pomposa.

Il progetto è a cura di Ferrariae Decus con la collaborazione del Comune di Ferrara e Voghiera, Arcidiocesi, Capitolo della Cattedrale, Deputazione ferrarese di storia patria, Polo museale Emilia Romagna Ferrara e Gruppo archeologico ferrarese.

Chi è l’uomo e chi l’animale

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Milan Kundera

Non esiste alcuna certezza che Dio abbia affidato davvero all’uomo il dominio sulle altre creature. E’ invece più probabile che l’uomo si sia inventato Dio per santificare il dominio che egli ha usurpato sulla mucca o sul cavallo.
(Milan Kundera)

Una quotidiana pillola di saggezza o una perla di ironia per iniziare bene la giornata…

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Pessimista con l’intelligenza, ottimista per la volontà

Claudio Lolli
Claudio Lolli

“Il mio stato d’animo sintetizza questi due sentimenti e li supera: sono pessimista con l’intelligenza, ma ottimista per la volontà.”

Così si descriveva nelle sue “Lettere dal carcere” Antonio Gramsci, uno dei più grandi pensatori politici e intellettuali del Novecento, che nasceva oggi nel 1891.
Fu il cantautore bolognese Claudio Lolli, nel 1973 e all’interno dell’album “Un uomo in crisi. Canzoni di morte. Canzoni di vita”, a dedicargli un struggente brano intitolato “Quello lì (compagno Gramsci)”.

Ogni giorno un brano intonato a ciò che la giornata prospetta…

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