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Giorno: 15 Settembre 2016

Il villaggio industriale di Crespi d’Adda e il capitalismo illuminato… che non c’è più

(Pubblicato il 16 maggio 2014)

Lavorare con lentezza senza fare alcuno sforzo / chi è veloce si fa male e finisce in ospedale / in ospedale non c’è posto e si può morire presto. / Lavorare con lentezza senza fare alcuno sforzo / la salute non ha prezzo, quindi rallentare il ritmo / pausa pausa ritmo lento, pausa pausa ritmo lento / sempre fuori dal motore, vivere a rallentatore (…)

‘Lavorare con lentezza’, cantava Enzo Del Re negli anni ’70 del Novecento, quando buona parte del sistema produttivo-economico moderno aveva svelato la sua essenza, acuito problematiche insolute, mostrato i vantaggi e il prezzo da pagare per raggiungere lo sviluppo economico.

Sempre negli anni ’70 il regista Ermanno Olmi ambientò nella bassa bergamasca L’albero degli zoccoli, uno dei film più importanti del cinema italiano, vivido spaccato che raccontava, con la consueta cura a cui ci ha abituato l’autore, il mondo contadino italiano di fine Ottocento. Me ne parla con perizia la piacevole guida di questa giornata.

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I cancelli e l’entrata della fabbrica dei Crespi sull’Adda

Penso a questi due autori, dopo aver visitato il villaggio industriale di Crespi d’Adda, dal 1995 ritenuto patrimonio dell’umanità dall’Unesco, testimonianza di una delle poche esperienze di capitalismo illuminato agli albori della rivoluzione industriale italiana. Una sorta di città “perfetta”, progettata dall’architetto Ernesto Pirovano, edificata affinché i numerosi operai delle cotoniere Crespi, installate sull’Adda dal 1878 dall’omonima famiglia originaria di Busto Arsizio, avessero le condizioni di vita ideali per dare il meglio sul posto di lavoro.

Mi inoltro nell’ordinato e geometrico villaggio, alla mia sinistra la chiesa, la scuola, e il busto del vecchio fondatore Cristoforo Benigno Crespi. Al di là della strada iniziano le graziose casette operaie disegnate sullo stile di quelle inglesi dell’epoca, con giardino, orto e una piccola staccionata ricavata dall’incrocio di vecchie cinghie, scarti del materiale industriale. La staccionata, volutamente bassa, non doveva rappresentare una barriera, la socialità era elemento significativo del villaggio e veniva favorita in ogni modo.

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La scuola di Crespi, affidata a una direttrice che reclutava i maestri e dirigeva l’istituto

Gli operai disponevano gratuitamente di case con servizi, docce calde in comune, una piscina, assistenza sanitaria, borse di studio, scuole gratuite fin dall’asilo nido, chiesa e addirittura di un loculo nel cimitero, costruito alla fine dell’agglomerato per simboleggiare la tappa finale dell’esistenza. All’interno del villaggio, per compensare le tante ore passate nell’ambiente caldo-umido, rumorosissimo e insalubre delle cotoniere, veniva incoraggiato lo sport, la vita all’aria aperta, il contatto con la natura e con la terra.

Lo scopo di questo paternalismo industriale, lungi dall’essere una copia degli arditi esperimenti di Robert Owen – padre del socialismo utopistico della prima parte dell’800 – piuttosto costituiva l’essenza dell’imprenditoria liberale moderna: ottenere prestazioni lavorative qualitativamente migliori, più competitività sul mercato, raggiungere maggiore profitto.

I piani del patron Benigno furono portati avanti dal giovane e promettente Silvio, ma al di là della buona volontà, le continue crisi del settore tessile a cavallo tra gli anni ’20 e ’30 del ’900, portarono la famiglia a rinunciare alla fabbrica e al villaggio.

Oggi, con un po’ di fortuna e con l’impegno di alcune associazioni ambientaliste del posto, si è riusciti a preservare il progetto originario dei Crespi, salvando l’area da numerose mire volte all’espansionismo edilizio. Il villaggio è stato costruito in circa cinquant’anni, dal 1878 al 1930, pur rimanendo incompleto rispetto al progetto finale della famiglia per via della cessione.

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Il simbolo che riecheggia più spesso nel villaggio Crespi, rappresenta la città ideale

Simbolo del luogo è una stella a otto punte formate dall’intersecarsi di due quadrati che al centro presentano un cerchio. Molti rosoni riportano questo stemma in maniera quasi ossessiva, denotando così qualcosa di più che un semplice ornamento estetico.

Nella fortunata storia del capitalismo all’italiana, di sicuro i Crespi incarnano l’eccezione. La loro esperienza nel tempo mi porta a pensare alla grande personalità di un altro uomo di industria: quell’Adriano Olivetti che alla metà del ’900 riprese e portò avanti in termini più radicali la missione del capitalismo illuminato dei Crespi. Egli rappresenterà la versione progressista e democratica dell’industria nostrana. Purtroppo, rimangono esempi quasi del tutto isolati per ciò che riguarda il grande capitalismo del Belpaese.

Adriano Olivetti che, stando a quanto testimonia Natalia Ginzburg in Lessico famigliare, ebbe parte attiva nell’organizzare la fuga all’estero del leader socialista Filippo Turati durante il fascismo. Oppure solo per citare i ricordi di uno dei suoi ultimi collaboratori, Furio Colombo, Olivetti che considerava l’ imprenditoria quale missione per portare benessere alla comunità in termini di ricchezza, cultura, democrazia.

Tra le intuizioni più importanti dell’ingegnere vi era il progetto di sposare cultura tecnico-ingegneristica e umanistica, di portare nella fabbrica musica, arte, letteratura, dibattiti; ragioni che lo porteranno a fondare la casa editrice Edizioni di comunità e ad assumere svariati intellettuali del calibro di Leonardo Sinisgalli, il poeta ingegnere, oppure Franco Fortini, addetto alle pubblicazioni aziendali, Giovanni Giudici alla biblioteca aziendale, Paolo Volponi ai servizi sociali per l’impresa.

Di fronte a esperienze di tale levatura, diventa inevitabile guardare con rimpianto alle condizioni attuali del panorama industriale italiano. Rimane la tentazione di cercare degli eredi, ma pure la paura di scoprirsi ogni anno un po’ più orfani di quello precedente.

Questi sono i tempi moderni dei Tanzi e dei Marchionne, della concretezza a scapito degli ideali, gli anni della finanza creativa, quelli della razionalità spietata, che non crede alle utopie e che i propri errori – la mancanza di coraggio, lungimiranza e capacità – li trasforma in titoli tossici, in delocalizzazione, finendo per addebitare il proprio conto sulle generazioni future.

dal blog di Sandro Abruzzese “Racconti viandanti” [vedi]

IL DOSSIER SETTIMANALE
Un mondo a rischio – Il Polo Nord si squaglia ma noi pensiamo allo spread

Il quotidiano La Stampa, nella sua edizione digitale, ogni mattina accanto alla testata, quindi nella posizione di maggior risalto, pubblica con tutta evidenza il dato relativo allo ‘spread’, a significarne evidentemente la presunta importanza. Ma c’entra davvero qualcosa, quel numero, con la nostra quotidianità e le nostre vite?
Il cronista finanziario di Sky, nel suo collegamento a chiusura della contrattazioni in borsa, informa che il prezzo del petrolio al barile è sceso a tot dollari e commenta che “si tratta del peggior risultato degli ultimi mesi”. Ma peggiore per chi? Non certo per me, che domani al distributore pagherò verosimilmente meno la benzina…

Al mondo, però, capita anche altro: “La regione polare del Mar Glaciale Artico potrebbe risultare pressoché libera dai ghiacci già nel settembre di quest’anno o – al più tardi – nello stesso mese del prossimo anno. Sebbene la maggioranza delle stime siano più prudenti, posticipando la completa scomparsa del ghiaccio marino attorno al 2030, nella comunità scientifica c’è consenso sul destino del Polo Nord”, scrive lo scorso 10 giugno l’autorevole National Geographic.

La notizia lanciata anche dall’Ansa, è solo sfiorata dai quotidiani. La Stampa, tre giorni prima, l’aveva anticipata – con l’eloquente titolo “Il Polo Nord? Potrebbe svanire già quest’anno” – relegandola però nelle pagine della cultura… Eppure ciò che riporta è terrificante: “Sembra l’inizio di un film catastrofico”, scrive il quotidiano torinese facendo riferimento alle ricerche di “un acclamato docente dell’Università di Cambridge, il professor Peter Wadhams”, che studia da anni i mutamenti climatici nell’Artico. E riporta: “In pochissimo tempo è scomparsa un’estensione di ghiaccio pari a cinque volte l’Italia e questo significa una sola cosa: la catastrofe può essere molto vicina (…) Per avere un’idea delle conseguenze del riscaldamento in atto nel Mare Artico, dice Wadhams, basta guardare qualunque tg. Gli eventi meteorologici estremi sono quotidiani: cicloni ‘bomba’ e tornado fuori stagione, inondazioni negli Usa e in Europa, tempo sempre più violento e imprevedibile. Ma il peggio deve ancora arrivare (…) Il livello dei mari s’innalzerà e l’acqua dolce immessa negli oceani modificherà il ciclo delle correnti, con conseguenze devastanti”. “L’ultima volta che è accaduto è stato 100 mila anni fa, quando l’uomo di Neanderthal viveva sulle montagne dell’Altai, in Siberia”.
I suoi colleghi sono più cauti, ma solo nella datazione: “Secondo Gleick, lo scenario ipotizzato dal collega di Cambridge è realistico, ma non si realizzerà prima del 2030-2050. Ma nemmeno lui si fa illusioni sulla possibilità che il processo possa essere fermato: ‘Siamo come su un treno impazzito – ha detto – sul quale gli scienziati azionano continuamente il fischio, mentre i politici gettano carbone nella caldaia del motore’. Ma nessuno ha commentato. E di questo, in seguito, non si è letto più nulla…

E allora – domandiamoci – cosa conta veramente? Lo spread? A quali valori facciamo riferimento, quali fatti sono significativi e quali invece ci fanno credere siano importanti? E qual è il nostro punto di vista, da che parte vogliamo stare?

Il nostro pianeta è in pericolo proprio perché i principi guida che orientano le scelte dei governanti e le conseguenti azioni da loro intraprese di norma non tengono primariamente conto dei reali bisogni delle donne, degli uomini e di tutti gli esseri viventi che popolano questo nostro mondo, ma si definiscono e si conformano in prima istanza sulla base delle logiche economicistiche che garantiscono gli interessi e il profitto di chi attende la remunerazione del proprio capitale.
Non dunque la salvaguardia del benessere e la propugnazione dell’istanza di progresso, ma la tutela degli appetiti e della brama di ricchezza sta in cima ai pensieri di chi muove le leve che regolano i rapporti fra individui e comunità. E’ una logica, però, che non solo penalizza la maggioranza delle persone e non tutela i soggetti deboli d’ogni specie, ma pone addirittura a serio repentaglio la vita stessa del pianeta e delle creature che lo popolano.

A questo tema, attraverso la segnalazioni di una serie di significative ed emblematiche emergenze (che ampliano lo sguardo dalle insidie all’ambiente al livello comunitario, con il deterioramento del senso del legame sociale, la prevalenza dell’egocentrismo e dell’egoismo proprietario o per converso di un diffuso sentimento di anomia), Ferraraitalia dedica il proprio dossier settimanale. Buona (ri)lettura.

Un mondo a rischio – vai al sommario

Le relazioni intangibili e l’eclissi delle emozioni

(Pubblicato il 5 maggio 2014)

Nella primavera del 2011, mentre frequentavo il quinto anno del liceo scentifico, una troupe delle Iene (il noto programma di Italia 1) venne nel mio liceo per condurre un esperimento. La mia classe fu scelta dal preside come la più adatta ad essere sottoposta a questa valutazione. Dopo un’ora di domande relative all’uso dei telefoni cellulari e di Internet, la iena Enrico Lucci chiese chi sarebbe stato disposto a rinunciare per due settimane a questi strumenti. Solo in 7 su 26 accettammo. Avevo deciso di mettermi alla prova.
Ci ritirarono i cellulari, che vennero consegnati al notaio presente in aula, chiusero temporaneamente i nostri account di Facebook e ci vietarono l’ascolto di musica ad alto volume (non potevamo usare l’i-pod), e di conseguenza anche le serate in discoteca.
All’inizio e alla fine delle due settimane fummo sottoposti a valutazioni psicometriche e psicofisiologiche. Uno psicologo ci pose diverse domande che vennero registrate da uno strumento simile alla macchina della verità, per classificare le variazioni emotive. In ospedale un otorinolaringoiatra ci fece fare prima un normale test dell’udito, poi un esame di psicoacustica per vedere come fosse cambiata la nostra percezione del suono dopo le due settimane di “astinenza”. I risultati mostrarono solo esiti positivi: il nostro umore era migliorato, come anche la nostra capacità di concentrazione; eravamo meno stressati e la nostra soglia di sopportazione del rumore si era notevolmente abbassata.

Oggi non solo abusiamo di tutti questi nuovi dispositivi, ma impariamo ad utilizzarli nella più tenera età. È impressionante vedere bambini di 2-3 anni che sanno usare l’ipad e questo grazie (leggi “per colpa”) dei genitori, che danno ai figli il proprio tablet affinché stiano tranquilli. Quando avevo la loro età e andavo al ristorante con i miei genitori portavo sempre con me un album da disegno e pastelli colorati. Le femmine avevano le bambole, i maschi le macchinine, ora invece è come se Internet stesse cancellando tutta la genuinità e l’ingenuità dell’infanzia. È la comunicazione che sta cambiando. Prima ci si guardava negli occhi e ci si parlava faccia-a-faccia, adesso invece ci si osserva attraverso uno schermo e la voce viene filtrata da un microfono. È una comunicazione spersonalizzata… selfie, like, file sharing, re-tweet, ashtags… che mondo è questo? Un mondo nuovo, un mondo che cresce e corre alla velocità della luce. Un mondo che ci connette con i miliardi di altre persone che lo abitano.
Oggi viviamo online e anche se abbiamo la possibilità di “contattare” milioni di persone, siamo molto più soli di una volta. Amicizie su Facebook, follower su Instagram, commenti e like di persone sconosciute: questi non sono legami reali, concreti. Si parla di “mondo virtuale” perché oggi tutto è astratto, immateriale. Eppure ciascuno di noi sembra aver bisogno di questa intangibilità, e i giovani più di chiunque altro.
La tecnologia ha sicuramente migliorato molti campi della comunicazione: attraverso programmi come Skype possiamo parlare e addirittura vedere persone, con cui abbiamo rapporti sentimentali, affettivi o lavorativi, che vivono dalla parte opposta del pianeta. Ma allora perché i nostri genitori, che sanno cosa significa vivere senza un telefono cellulare e sicuramente senza le miriadi di piattaforme multimediali oggi esistenti, dicono che si stava meglio 50 anni fa? Oggi non si conosce più l’attesa, tutto è istantaneo. Le chiamate dai telefoni fissi? Ridotte all’osso; le lettere? Inesistenti. Ho chiesto ad alcune adolescenti perché non chiamino anziché mandare migliaia di messaggi al giorno, mi hanno risposto: “Non mi piacciono le telefonate, mi annoiano e la mia voce non è bella al telefono”. Impersonalità: questa la parola che mi viene in mente per descrivere questo nuovo mondo, che è il nostro mondo.
Ho 21 anni, uno smartphone, sono iscritta a più di un social network, e come ogni mio coetaneo non sono immune da questa realtà. Ma so cosa vuol dire scrivere una lettera e aspettarne una in risposta, controllare ogni giorno la buchetta postale, assaporando l’ansia e il fremito dell’attesa. So cosa vuol dire stare ore al telefono, sentire la voce di chi sta al capo opposto del filo, percepire i pensieri e le emozioni dell’altro, dedurli da una pausa, un sussurro, un sospiro. La mia paura è che questa nuova realtà, questo mondo in cui si teme il confronto diretto, possa creare solo generazioni progressivamente immuni alle emozioni.

Un miliardo di tonnellate di gas serra in più ogni anno. O si cambia o è catastrofe

(Pubblicato il 18 aprile 2014)

Ogni anno immettiamo nell’atmosfera un miliardo di tonnellate di gas serra in più rispetto all’anno prima. E tra il 2000 e il 2010, le emissioni sono aumentate più rapidamente rispetto ai tre decenni precedenti. I dati sono contenuti nel “Quinto rapporto del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico” (Ipcc), un foro scientifico che ha lo scopo di studiare il surriscaldamento globale. Domenica 13 aprile, a Berlino, è stato presentato il loro studio.
Secondo uno dei tre copresidenti del gruppo di lavoro, il tedesco Ottmar Edenhofer, “per evitare pericolose interferenze con il sistema climatico occorre smettere di avere un atteggiamento di sottovalutazione” e agire in fretta. Per invertire la rotta del riscaldamento globale, è necessario diminuire l’utilizzo dei combustibili fossili (petrolio, carbone e gas naturale) e puntare sulle energie rinnovabili. Per contenere l’aumento della temperatura globale entro i due gradi, il massimo considerato sostenibile, le emissioni dovrebbero essere ridotte da qui al 2050 tra il 40% e il 70%, con un impegno ad arrivare a un valore prossimo allo zero entro la fine del secolo.
Il carbone, che produce oggi il 39% dell’energia elettrica mondiale, è considerato il principale responsabile dell’accumulo di gas tossici nell’atmosfera; per questo motivo si punta a una sua progressiva riduzione a favore del gas. Questo in vista di un auspicabile abbandono, o comunque ridimensionamento, dell’uso dei combustibili fossili a favore delle rinnovabili, considerate “pulite” e inesauribili. Se l’allarme degli scienziati non sarà ascoltato, entro il 2100 le temperature medie globali aumenteranno fra i 3,7 e i 4,8 gradi, e lo scenario di una catastrofe climatica potrebbe essere a questo punto realistico e irreversibile.
Sergio Castellari, delegato del governo italiano all’Ipcc, ha spiegato che l’Italia e l’Unione Europea sono tra le realtà “più avanzate” al mondo nella lotta al surriscaldamento globale, e ha aggiunto che il nostro paese “segue le direttive europee sul 20-20-20”, ossia ridurre del 20% le emissioni di gas serra, portare al 20% il risparmio energetico e aumentare al 20% il consumo da fonti rinnovabili entro il 2020.
Passando a quelli che sono considerati i paesi meno virtuosi nel campo delle emissioni, si punta il dito verso i paesi emergenti, primo tra tutti la Cina, che sta vivendo un vero e proprio boom economico. Mentre i paesi occidentali, di antica industrializzazione, hanno da tempo avviato un processo di riduzione delle sostanze inquinanti rilasciate nell’atmosfera, la Cina cresce e consuma energia elettrica a ritmi molto elevati, con un impatto molto alto sull’ambiente. Nel 2011 è stato il primo produttore mondiale di Co2, con oltre il 26% del totale delle emissioni.
In parte la diminuzione delle emissioni inquinanti in occidente può essere ricondotta alla crisi economica globale, che ha avuto ripercussioni negative sulla produzione industriale (e quindi sul consumo di energia in generale) e in parte al fatto che molte industrie europee e americane hanno spostato gran parte delle loro produzioni in Cina, che quindi produce e inquina per conto di altri. Se si considera invece il livello di emissioni pro capite, scopriamo che la Cina ne emette appena un quarto rispetto a quelle degli americani e un terzo rispetto agli europei. Nel Paese asiatico vivono oltre un miliardo e 300mila persone, ma i consumi di queste sono molto inferiori ai nostri, e sono 700 milioni i cinesi che abitano nelle regioni rurali e che vivono con meno di tre dollari al giorno.
Ma anche in Europa c’è chi inquina e si oppone al taglio delle emissioni di gas serra. È la Polonia, la cui economia cresce a un ritmo del 2% annuo, e che continua a fare affidamento sulle proprie superinquinanti centrali a carbone, infischiandosene di ogni normativa europea. Secondo alcuni dati presentati da Greenpeace, nel 2013 la combustione del carbone nell’Ue ha provocato 22.300 morti premature, più di 5 mila solo in Polonia, dove si è registrato il dato più alto.
Secondo Andrea Boraschi, responsabile della campagna “Energia e clima” di Greenpeace Italia, “il carbone è una delle principali cause di avvelenamento dell’aria. Per salvare i nostri polmoni dobbiamo mettere fine all’era del carbone e avviare una radicale rivoluzione energetica”. La soluzione più logica sembrerebbe quella delle energie rinnovabili, anche se queste non sono ancora sfruttate su una scala sufficientemente ampia, a causa di incerte politiche ambientali e dei costi piuttosto alti, pur in diminuzione.

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