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Giorno: 2 Dicembre 2016

Bechir tra le onde

di Liliana Cerqueni

Il mare si muove con un fragore assordante. Le onde sembrano muri altissimi che si inabissano e poi riemergono ancora più imponenti e terrificanti, in un’altalena infernale. Sulla barca sono appiattiti l’uno contro l’altro premendo, schiacciando, urtando in continuazione il vicino di posto, tentando di mantenere disperatamente la posizione perché è sufficiente che uno, anche solo uno si sbilanci e la fila crolla come un grande domino. Gli uomini sono accovacciati, inginocchiati, acciambellati con quelle loro lunghe gambe che hanno percorso interminabili distanze, abituate a marce senza fine, una volta scattanti e ora anchilosate. Una tristissima fila umana che procede a spirale e si avvolge per tutta la lunghezza del peschereccio e quelli che non hanno trovato posto sulla tolda, siedono ora sul tetto della cabina di comando, ancora più esposti agli schiaffi violenti dell’acqua e alle potenti raffiche del gharbi che proviene dal Sahara. Una moltitudine di esseri viventi che occupa ogni centimetro quadrato di quello spazio in balìa del finimondo, appesantendo l’imbarcazione oltre ogni limite. Le donne, solo una trentina rispetto ai 200 uomini, quasi tutti libici in fuga dalla guerra, dal caos e dalla fame, stanno raggruppate a poppa, un branco di esili figure coperte da stole coloratissime ormai sporche, rannicchiate in se stesse, incollate fra loro per proteggersi dal freddo, dall’acqua e dal senso di morte che cavalca i flutti. Alcune di esse abbracciano i loro figli piccoli che spariscono sotto l’ampio vestito delle madri perché è l’unica barriera difensiva in quel momento. Dal capo coperto delle donne sbucano ogni tanto sguardi furtivi e veloci che esplorano rapidamente ciò che appare intorno, cioè mare, mare, mare rabbioso. L’imbarcazione sembra una gigantesca ‘Zattera della Medusa’ che, come nel dipinto di Thèodore Gèricault, trasporta speranza e terrore, fortuna e avversità, vita e morte, che si intravvedono in quei volti tesi e stravolti. Sono già 15 ore che navigano su quella carretta del mare che incassa acqua e nessuno si è ancora mosso perché ad ogni tentativo scattano le urla del capo che impugna una pistola e ha già sparato alcuni colpi in aria. Dalla spalla sinistra gli pende anche un fucile che lui tocca ogni tanto come sentisse il bisogno di assicurarsi che è sempre là, pronto per l’uso. Ha una faccia terribile, deformata dalle smorfie, con una bocca semisdentata spalancata, pronta ad ogni tipo di ingiuria e minaccia, un infame nocchiero, un Caronte moderno, traghettatore di anime all’inferno. Di cibo e di acqua non si osa parlare, anche se negli accordi e nel prezzo erano previsti anche quelli, poche cose, tanto da mettere qualcosa nello stomaco durante la navigazione. Qualcuno l’ha ricordato ma ha ricevuto in cambio delle percosse col calcio del fucile. O si sta fermi e passivi, o si viene buttati a mare – richiama l’altro individuo che pilota la barca. Si dividono quello che sono riusciti a portare ma non basta per tutti e lascia affamati e assetati anche coloro che lo possedevano. E quelle poche bottiglie di alcol ricavato dal legmi fermentato, la linfa del tronco di palma da dattero, che qualche tunisino teneva nascoste, sono ormai terminate e non sono servite a nessuno, nemmeno a scaldarsi, stordirsi e farsi coraggio.
Il barcone oscilla paurosamente e si inclina così tanto da far temere che si capovolga ogni volta. Qualcuno vomita, qualcun altro lancia un urlo ogni volta che sprofondano tra le onde. C’è un uomo che assurdamente intona una nenia, immobile e concentrato. Mai la musica è stata così fuori posto come ora, in questo scenario. Il mare rivendica esclusività con il suo rimbombo, il frastuono, il sibilo del vento tra onde e il boato senza fine. Un rumore inconfondibile e macabro, lo stesso rumore che i pescatori conoscono da sempre perché è diventato parte di loro.
Bechir si nasconde sotto i teloni di plastica, tra i bidoni di carburante e i rotoli di cordame, sempre più circospetto, sempre più vigile, clandestino tra i clandestini. Si è nascosto là che non era ancora l’alba, dopo aver osservato attentamente l’andirivieni di quegli imbarchi disperati di chi voleva abbandonare la Tunisia e l’Africa per un altro mondo, non importa quale, sicuramente l’Europa, l’Italia, chissà che altra meta. L’importante è partire, scappare dalla miseria o dall’orrore della guerra, lasciarsi alle spalle tutto con il miraggio cangiante di una vita migliore come nei film e nei racconti conditi con molta affabulazione di altri che ce l’hanno fatta.
Dal suo nascondiglio ha scorto salire Yassine, Fouad, Sabri e pochi altri di Chergui, la sua isola, nell’arcipelago delle Kerkennah, nel Golfo di Gabès, proprio di fronte a Sfax. La sua isola, troppo stretta per coltivare sogni, troppo arida e ormai desertificata per coltivare grano! La sua famiglia come tante altre vive di pesca e si aiuta con l’allevamento di qualche capra e qualche pollo. Accompagnava suo padre ogni giorno a pesca di polipi e seppie ed erano due braccia in più per raccogliere le anfore adagiate sui fondali e lasciate là affinchè attirassero i molluschi che, una volta entrati, rimanevano imprigionati nella sabbia che riempiva il vaso. “Agricoltori del mare” li chiamano, per quella strana suddivisione dell’acqua in appezzamenti, come fosse un grande latifondo frazionato in campi, che ciascun padre ha ricevuto dal padre e a sua volta lascerà al figlio assieme a quel patrimonio di anfore indispensabili. Il pescato non manca mai in quei posti dove regna una quiete statica perenne. Niente disturba gli isolani, quella piccola comunità distribuita sulle uniche due isole abitabili, tra una corona di altri brulli e ostili puntini che emergono dal Mediterraneo. Niente e nessuno è riuscito a modificare e stravolgere l’esistenza di questo piccolo popolo di origine berbero-libica, abituato, nel corso della storia, agli approdi ed agli sbarchi di Fenici, Cartaginesi, Romani, Musulmani, Spagnoli e Ottomani. Le “Isole dell’esilio” hanno dato rifugio accoglienti, rassicuranti, discrete, circondate dai miti e dalle leggende che ne fanno il regno della maga Circe, seduttrice di Ulisse, il rifugio di Annibale inseguito dai Romani e, in epoca più recente, la dimora di Habib Bourghiba, padre della Tunisia moderna in fuga dalla repressione coloniale francese.
Eppure, la voglia di andarsene è forte e il richiamo di altri luoghi ridisegnati nelle singole menti come paradisi di fortuna e felicità si fa sentire proprio come il canto delle sirene, che popolano i racconti di queste isole.
Erano mesi che Bechir ascoltava le chiacchiere giù al porto e, mentre riavvolgeva funi e scaricava cassoni di anfore selezionando i molluschi col padre, tendeva l’orecchio e beveva ogni singola sillaba di quei discorsi che giravano intorno al partire, andarsene da là. Erano giovani e meno giovani che si passavano informazioni sulle grandi città, sugli altri Paesi dove sarebbe stato diverso. Occorrevano oltre 2000 dollari ma ne sarebbe valsa la pena, si diceva. Bastava girare al largo da Malta, perché Malta non ti vuole; meglio puntare, invece, l’Italia, la Sicilia, è un po’ più a Nord-Ovest e nessuno ti rimanda indietro. Se le motovedette della polizia costiera maltesi ti respingono, si deve proseguire, non rischiare. La sapevano tutti lunga, ognuno diceva la sua ed aggiungeva altre informazioni, frequentissimo il nome di Pantelleria. Bechir ascoltava e guardava il padre logorato dalla vita in mare, vecchio senza essere vecchio, le mani deformate dall’artrite e ragnatele di solchi sul viso, prodotto del sole, delle tempeste e della salsedine che cristallizza la pelle. Non avrebbe fatto quella fine, si ripeteva.
Là al porticciolo arrivano i camion carichi di gente, prevalentemente libici in fuga, che da quel posto partono in tutta fretta di notte per le rotte dell’imponderabile. Hanno raggiunto l’isola dopo aver vagato a lungo nel deserto, ed hanno lasciato tra la sabbia quei loro compagni troppo deboli e fragili per resistere; un lungo esodo su cui aleggia la morte probabile, per alcuni la morte certa. Prima del mare c’è il deserto che uccide. E i trafficanti di uomini esultano ogni volta che realizzano il carico, tanto di disperati non ne mancano mai. La merce umana ha un valore e ogni carico corrisponde a un bottino consistente. Chergui e Gharbi, le “isole dell’esilio” sono diventate le “isole della fuga”.
Nel cuore della notte i mezzi sgangherati arrivano quasi di soppiatto, con i fari spenti e il motore al minimo. Scaricano i fuggitivi che hanno raccolto nelle varie zone dell’isola e se ne vanno in pochi minuti. Un’operazione quasi silenziosa perché è meglio abituarsi subito alla clandestinità. I barconi arrugginiti sono già pronti per salpare e gli scafisti si aggirano come mastini in allerta, pronti a incassare, controllare, intervenire, smistare, ordinare. Hanno in mano il destino di quei disgraziati e questo li rende arroganti, aggressivi, tronfi. Chi non ha pagato non sale, gli altri si affrettano a raggiungere la barca entrando per alcuni metri in mare. Questo è il rituale, questa la surreale scena che nelle notti più chiare assume connotati ancora più tristi perché le shilouette di uomini e donne si stagliano nitide e visibili in tutta la loro tragicità.
Bechir aveva agito d’impeto, non occorrevano tante elucubrazioni per decidere di andarsene. Aveva sentito tante storie, tanti racconti su quello che lo attendeva aldilà di quel mare: c’erano grandi città, c’era una vita che prometteva qualcos’altro che la povera quotidianità fatta di anfore, ritmi lentissimi, la terra arida e le capre. Quando era salito furtivamente sull’imbarcazione, eludendo l’occhio implacabile dei trafficanti, si era raggomitolato nell’unica zona buia che gli permettesse di sparire alla vista di tutti. Se ne era rimasto là immobile, ad aspettare che tutto si compisse. Sentiva l’andirivieni di chi man mano prendeva posto sul tavolato della tolda, qualcuno questionava innervosito, altri parlavano sottovoce tra loro, un bambino piangeva sommessamente, consolato dalla voce calda di una donna. Erano partiti quasi subito, col favore della notte, diretti verso una seconda vita, animati da un senso di disperazione e frenesia di arrivare ad una qualche destinazione. Non esistono su quella barca, sentimenti di quieta speranza, fiducia nel domani, eccitazione nel pensare e disegnare un futuro diverso. No, esiste solo l’impulso primordiale della preda che fugge al predatore, l’aggrapparsi all’unico proposito che è quello di lasciare quei posti della costa africana e guardare ad un punto indistinto e lontanissimo davanti a sé. E’ tutto il loro bagaglio.
Nessuno si è accorto di Bechir che sta acquattato nel suo spazio nascosto e non riesce a vedere quello che in superficie sta accadendo. Non vede il mare ma lo sente sempre più furibondo, non raccoglie distintamente quello che gli altri dicono ma avverte la tensione che si sta trasformando in terrore, perché il terrore ti raggiunge come avesse una sua materialità e si potesse toccare con la mano.
Si avvolge sempre più in se stesso abbracciandosi le ginocchia e come un flash lo raggiunge il pensiero di suo padre Chali, la madre Fatma, i fratelli, la gente del suo villaggio. Ma sono solo brevissimi istanti perché quell’apocalisse non consente di pensare.
Bechir si alza improvvisamente e sale malfermo i pochi scalini che lo separano dal ponte, emerge in superficie dopo ore ed ore di beccheggi, scossoni, secche virate e rollii che ora sono diventati movimenti violenti e scoordinati, un procedere a vuoto, un girare su se stessi a mulinello nel pieno di una burrasca indescrivibile. Non riesce a vedere nessuno in particolare, solo una massa di esseri in preda a forze devastanti e distruttive. Urla di uomini che si perdono nel vento, gente che si aggrappa al parapetto dell’imbarcazione ormai ingovernabile che sta colando a picco. La bagnarola perde pezzi ed ha una falla enorme sul fianco. Un gruppo di donne si abbraccia come se quell’abbraccio fosse l’ultima possibilità salvifica rimasta.
Due uomini cadono in mare, seguiti dopo poco da molti altri. Impossibile opporre resistenza a quel mostruoso risucchio senza fine.
Bechir si sente scivolare verso quell’acqua fredda e si lascia andare, abbandonando ogni sforzo, la questione sopravvivenza non gli appartiene ormai più perché quel duello col mare è ridicolo, una partita persa.
E’ tutto finito, anche i canti delle sirene.
Sono solo corpi che scompaiono in quel mare che inghiotte avidamente vite umane, un enorme dio Moloch che chiede il sacrificio estremo, il suo tributo all’umanità.
Bechir aveva solo 15 anni

Stephan

di Liliana Cerqueni

Lo si trova tutti i giorni sulle panchine del parco pubblico, ormai è parte integrante di quello spazio verde come la fontana, la statua di Galilei fasciata da graffiti colorati, le aiuole di azalee spennacchiate, la colonnina dell’idrante che perde acqua e qualche fazzoletto di prato freschissimo rimasto integro. Stephan è conosciuto in quel quartiere difficile, dove anche i giardini sono ormai zona di tossici e sbandati, dove i ragazzini girano e sbraitano senza controllo ad ogni ora del giorno e della sera e le donne gridano ancora più forte del viavai di motorini elaborati che impestano l’aria. Una scena urbana consueta, fatta di suoni, rumori e colori di ogni tipo che negli ultimi anni è diventata ancora più movimentata. Ora si spaccia tranquillamente per strada e la gente gira alla larga da qualsiasi cosa desti sospetto o inquietudine. Non si ferma nemmeno se qualcuno è rovesciato sull’asfalto in crisi di astinenza. Tirare dritto sembra essere la scelta migliore, quella che garantisce incolumità e sicurezza. Fa’ gli affari tuoi, è la parola d’ordine per tutti, che gli altri si arrangino. Un quartiere che vive di espedienti, dove il più furbo, il più scafato, il più duro, ha il monopolio delle situazioni e il controllo sulle vite degli altri. Stephan è là, in mezzo a quella gente con la quale vive senza mescolarsi ad essa, condividendo strade, piazze, vicoli e panchine, angoli di metropolitana e stazioni ferroviarie. Di giorno cammina, quando è in grado di camminare perché le varici gli gonfiano le gambe e lo fanno soffrire. Si sposta con metodicità, sembra avere una sua mappa ben precisa in testa, un GPS tutto suo che lo porta verso percorsi ordinati fino alla meta di turno. Di sera cerca un posto per la notte, di solito in qualche androne non troppo controllato. E quando arriva la notte, coperto da un doppio strato di cartoni, perde conoscenza dopo l’alcol trangugiato senza ritegno e lo sfinimento che la vita randagia gli provoca. E’ un uomo di sessant’anni, magro di quel magro consumato, quello che noti e ti desta compassione perché pensi subito alla fame vera. I suoi abiti sembrano puliti ma sicuramente consunti, troppo larghi e spesso inadeguati. La Caritas, racconta lui, fa miracoli: riesce a trovarti di tutto, perfino il berretto di finta pelliccia che lui aveva chiesto per l’inverno. E ti garantisce un pasto caldo, anche un letto per i periodi in cui si gela e una mano tesa che, anche vuota, risulta salda e rassicurante. Esistono autentici angeli che girano in quelle zone, discreti e gentili, che vigilano su quella parte di umanità allo sbaraglio, sull’orlo del precipizio, in balìa di se stessa, ma fanno quello che possono, misurandosi spesso con il fallimento. Stephan, ovvero ‘il tedesco’, così lo chiamano comunemente tutti, talvolta sparisce per periodi interi, per poi riapparire sulle sue panchine come se niente fosse. “E’ in ferie!” ridono gli altri vagabondi più stanziali e abitudinari, ma nessuno sa dove vada. Ha la pelle del viso a chiazze, disidratata e rinsecchita da sembrare vecchio cuoio, indicatore di bevute colossali frequenti, trascuratezza e alimentazione carente. Ma soprattutto poco amore per se stesso. Passa dalla tristezza profonda all’allegria con una rapidità sorprendente e quando l’effetto dell’alcol si fa più intenso, ridacchia, intona la Canzone di Lorelei, la poesia di Heinrich Heine, con una voce calda ed emozionata o fischietta Tristano e Isotta di Wagner con virtuosismi sbalorditivi.
Ich weiβ nicht was soll es bedeuten,
Dass ich so traurig bin;
Ein Märchen aus alten Zeiten,
Das kommt mir nicht aus dem Sinn.

Non so cosa significhi,
Che sono triste, così triste;
Una storia d’altri tempi
Persiste nella mio pensiero.

In quei momenti pensa alla Germania, ad Amburgo, la sua città.
Gli occhi gli si fanno lucidi e il dolore è evidente, anche se si riprende subito e rimuove con prontezza ogni ricordo tormentoso. E’ diventato un esercizio quotidiano, ormai, nei momenti di sobrietà e coscienza.
Quando se ne era andato precipitosamente, aveva reciso il legame con la città e forse anche con se stesso. In un attimo cambi il corso della tua vita per follia, necessità, istinto di sopravvivenza, bisogno impellente di andarsene.
Stephan possedeva un’ agenzia pubblicitaria e il successo personale, professionale ed economico era arrivato come una botta di vita inarrestabile che dava vertigini e sensazione di possedere il mondo. In quella Germania unificata del 1990, la spinta entusiastica verso un futuro immediato di grandi prospettive e possibilità era il motore che azionava scelte, investimenti, proposte e anche azzardi perché la svolta era reale e il corso della Storia offriva immensi spazi di azione. Da un lato una Germania già collaudata e solida, dall’altra una realtà tedesca tutta da reinventare, ricomporre, ridisegnare, riscoprire e valorizzare. Per Amburgo, in particolare, significava un nuovo rilancio del porto e le ambizioni della città si spingevano a rincorrere Rotterdam e a puntare sul primato navale transoceanico in Europa. E’ una città fiera che ha trovato la forza di risollevarsi dai devastanti bombardamenti a tappeto del 1943 ed ha saputo reagire alla stagnazione e all’immobilismo periodici dei decenni successivi, decollando splendidamente negli anni del post-unificazione.
Uno scenario promettente, per Stephan, che aveva trovato le sue entrature nelle sedi delle testate tedesche più prestigiose e diffuse, prodotte ad Amburgo, cominciando la sua fantastica ascesa con operazioni pubblicitarie di avanguardia, innovative ed eclettiche. Parallelamente a questo, lo stato di benessere si estendeva ai rapporti sentimentali e alla vita sociale, dove l’uomo era una figura di punta per le sue capacità comunicative, la sensibilità culturale, l’estroversione e l’ottimismo che riusciva a trasmettere a chiunque. Aveva sposato Helga Marie, la storica compagna di università con la quale il rapporto era ormai simbiotico: un cenno d’intesa sostituiva grandi discussioni, uno sguardo esprimeva tutto, le parole erano quasi superflue. Non si sa chi dei due fosse al timone di quel legame indistruttibile perché l’equilibrio e la condivisione totale erano evidenti a tutti. Non avevano avuto figli perché non ne erano arrivati o perché erano un po’ essi stessi anche figlio l’uno dell’altra oltre che amici, amanti e collaboratori.
Una vita intensa, pregna di senso, gioia e impegni che ciascuno di loro affrontava con trasporto e passione, finchè non arrivò l’imprevisto, la sferzata, ciò che non avrebbero mai e poi mai messo a bilancio o anche solo osato pensare. L’Alzheimer. Subdola malattia, arriva piano, quasi in sordina, mimetizzandosi con altri sintomi, trucchetti e mascheramenti come se fosse un ladro che entra in punta di piedi in casa per rubarti quanto di più prezioso possiedi: i ricordi, il pensiero cosciente, l’anima.
Quello che in Helga Marie sembrava fosse un periodo di fragilità e stanchezza progressive, divenne certezza inconfutabile davanti alla diagnosi impietosa.
Basta un attimo alle volte, perchè crolli tutto, un piccolo frammento di tempo in cui sei costretto a realizzare velocemente che non ti è rimasto granchè della tua vita, del tuo percorso, della percezione e delle proiezioni che ti eri fatto a proposito della realtà dorata costruita passo dopo passo.
Era come l’ultima mossa nell’edificare un castello di carte, quella che ti tradisce e fa cedere miseramente la struttura, dopo che hai vantato abilità e precisione, fortuna e fermezza.
Stephan aveva pianto davanti alla diagnosi e aveva capito immediatamente che era una condanna senza appello. Erano cominciati gli anni bui, i periodi alterni di lucidità relativa di Helga e oscurità completa, in cui si trovava a comunicare solo con se stesso avendo perso l’interlocutore. A volte si ostinava a pensare che ci fosse uno spiraglio, altre volte cadeva in una sorda disperazione; apatia e iperattività agitata avevano drasticamente preso il posto del suo equilibrato modo di porsi. Rabbia, tenerezza, distacco, indifferenza e dolore viscerale, rifiuto, paura e rassegnazione erano sentimenti che coabitavano in ogni istante della sua giornata che era diventata lunga, senza ore e scansioni. Solo un indifferenziato scorrere del tempo che ti fa perdere i riferimenti precisi.
Le energie che prima orientava nel lavoro e in tutto ciò che lo attirava, il canotaggio, gli eventi culturali, i viaggi e molto altro, erano ora destinate a sua moglie. Ogni istante era diventato un attimo da non perdere e ogni balenìo di coscienza della donna, era da vivere totalmente perché prima o poi sarebbe scomparso anche quello. Si sentiva un assetato in pieno deserto che considera un miracolo ogni singola e piccolissima goccia d’acqua che il destino fa trovare.
Si ritrovò a vivere con un dolore costante che non dava requiem e con il fantasma di quella donna che aveva amato più di se stesso. Niente ricordi, come se tutti quegli anni fossero trascorsi invano; la donna citava qualche episodio di un passato remoto in cui lui non c’era ancora, e poi il vuoto, le stranezze, l’espressione che le deformava a volte i lineamenti e li privava di tutta la loro bellezza d’un tempo. Era un’estranea che lui non riconosceva, una creatura in balìa di sproloqui, sbalzi d’umore, irascibilità e incattivimento quando non era il mutismo e l’isolamento mentale. Spesso, quello che non riusciva a sopportare erano gli occhi, lo sguardo assente e irraggiungibile, senza sfondo. Davanti a quello si sentiva anche lui perso. E il coraggio venne annientato dalla paura del futuro che divenne la sua compagnia costante.
Helga Marie venne affidata ad una casa di soggiorno in cui sarebbe stata accudita e Stephan se ne andò da Amburgo senza voltarsi indietro, dopo aver ceduto l’attività ai soci e garantito alla moglie il sostegno economico di cui ci sarebbe stato tanto bisogno. Lasciò alle spalle gran parte della sua vita e dei suoi sogni realizzati provocando stupore e molti interrogativi tra gli amici e le persone che lo conoscevano come un combattente che non si arrende mai. Era giunto ad un punto di non ritorno e poteva solo affidarsi alla voglia di scomparire, scappare, trovare una tana che lo tenesse al riparo dalla sofferenza più profonda e lenisse almeno un po’ quelle insopportabili lacerazioni dello spirito. Spleen, l’aveva denominato Baudelaire, quel malessere che non dà respiro e ti succhia la linfa vitale fino a diventare angoscia irreversibile. Bisognava andarsene.
Perché l’Italia? gli aveva chiesto qualcuno. Perché c’è stato Goethe, aveva risposto lui in modo del tutto naturale. Difficile credere che sotto i cartoni, dietro le numerose bottiglie vuote e tutto quel peregrinare senza fissa dimora, si celi un uomo romantico di grande cultura. Ha imparato l’italiano ma la tonalità grave, spigolosa e decisa della sua lingua originale rimane.
Sono venuti dalla Germania a cercarlo e una volta trovato, non hanno potuto fare altro che andarsene perché hanno capito che quell’uomo non si sarebbe mai staccato dalla sua strana nuova dimensione.
Barbone, clochard, senzacasa, senzatetto, vagabondo, accattone… è sempre lui, Stephan ‘Il tedesco’: ora ha allentato quella morsa che lo stritolava, camminando senza fretta sulle strade del mondo. Ogni tanto scompare e finalmente qualcuno ha scoperto dove va: raggiunge il mare e se ne sta là sulla riva a guardarlo per ore, bevendo, pensando al Mare del Nord che ha ancora nelle narici e nelle orecchie, accarezzando la sabbia così fine, calda, piacevole.

Volo LH 778 Francoforte-Singapore

di Liliana Cerqueni

Rocco è arrivato in Germania, a Duisburg, da qualche giorno per incontrare lo zio Gaetano ed il cugino Salvatore. Non si vedevano da almeno tre anni ma i legami di sangue permettono di superare le assenze e le distanze, dicono sempre. Si sono salutati con trasporto e grandi abbracci, parlano tutti insieme perché le domande sono tante e la voglia di raccontare trabocca.
Lo zio era partito da San Cono, in Sicilia, nel 1968, aveva solo 17 anni e la fame addosso che lo avvolgeva come una sottile pellicola che non si voleva staccare. La sua famiglia, numerosissima, era tra le più povere del paese e viveva di attività stagionali che gravitavano attorno alla produzione del fico d’india e le mandorle. Non possedevano terra ma braccia sane e forti per fare i braccianti al servizio dei grandi proprietari degli appezzamenti e questo lavoro dava loro un sostentamento scarso ma sicuro. Braccianti erano stati i bisnonni, i nonni e braccianti erano i giovani che, come zio Gaetano, si graffiavano le mani per raccogliere quelle bacche piene e consistenti passando di pianta in pianta tra estesi filari, senza mai fermarsi da mattina a sera, sotto un sole che disidratava e la fame che tormentava. E nelle annate in cui il prodotto era meno abbondante a causa di insetti e funghi parassiti che flagellavano il raccolto, le famiglie erano costrette a lesinare ancora di più e accontentarsi di campare. Erano gli anni ’60, gli anni in cui anche nella periferia agricola più remota arrivava l’eco dei fermenti e del cambiamento in atto in un’Italia che si stava avviando verso nuovi modelli culturali e prospettive ed un’Europa che già si proponeva come un grande comune denominatore a tutte le tensioni e le richieste delle nuove generazioni. Si leggevano i giornali al bar del paese, si commentava, si criticava ma poi si piegava la schiena e si tornava ai campi perché non è con le chiacchiere che si campa e nemmeno con le manifestazioni di piazza, dicevano i vecchi, meglio lasciarle ai continentali. E la vita continuava a scorrere ai ritmi naturali di quei posti, dove le luci delle prime ore dell’alba assomigliavano alle sfumature del tramonto poichè nessuno le distingueva e le notava tant’era la fatica massacrante che annebbiava gli occhi. Testa china e fatica, tanta fatica, neanche il tempo di guardarsi attorno e godere di quel po’ che era consentito. Bestia da soma, così si sentiva qualcuno, un asino con le bisacce che percorre tutti i giorni la stessa strada avanti indietro, mangia la stessa razione di biada, prende la stessa quantità di botte e reagisce con la stessa rassegnazione di sempre. E la stessa cosa valeva per la vita familiare: si conosceva la ragazza che andava bene alla famiglia, ci si sposava, si facevano i figli, tanti, si condivideva la stessa minestra e si moriva. E uguale sarebbe stato per chi sarebbe arrivato dopo.
La ribellione di zio Gaetano era cominciata piano, in sordina, covando giorno dopo giorno tra i fichi d’india, alimentata dalla fame e dalla frustrazione di quell’esistenza di stenti e mancanza di un futuro diverso. Un giovane doveva avere di meglio, si ripeteva quasi ossessivamente, mentre assisteva all’esodo sempre più consistente dei suoi paesani verso il Nord, fosse che fosse Torino, Milano, Zurigo, Losanna, Monaco, Düsseldorf o Lussemburgo, Belgio, Francia. C’era bisogno di manodopera e il Sud rispondeva immediatamente con quelle masse di lavoratori che dalla campagna e dalle zone depresse si spostavano verso le grandi città nei bacini industriali più esigenti, dalla cintura torinese alla Ruhr e la Saar tedesche, i bacini carboniferi del Limburgo in Belgio o i grandi poli edilizi che dalla Baviera allo Schleswig-Holstein testimoniavano il rilancio di una Germania affamata di riscatto. Cantieri, fabbriche, miniere erano le nuove mete mentre la produttività viaggiava a ritmi veloci e il profitto cresceva miracolosamente anche se non in modo del tutto proporzionale al benessere di tutti. Un’ondata migratoria che riportava in superficie il ricordo di tanti altri flussi e spostamenti della storia italiana, una fuga dietro l’altra in epoche diverse ma sempre uguali per la portata traumatica del commiato dalle proprie famiglie e lo strappo che quel viaggio significava: un lasso di tempo sospeso tra ciò che si lasciava, conosciuto e vissuto e ciò cui si andava incontro, estraneo, incerto. Era il momento della cesura che cambiava la vita per sempre.
“Ancora quest’anno e basta, poi torno!” dicevano tutti, e l’aveva detto anche zio Gaetano. Ma rimanevano sempre là, in quelle terre che avevano raggiunto con una valigia malconcia, qualche fagotto e tanta voglia di cambiare il corso delle cose guadagnando e sputando sangue.
Lo zio racconta sempre di quel poco che aveva messo nella valigia, il cambio degli indumenti, il rasoio, un caciocavallo, una salsiccia pasqualora e una bottiglia di vino rosso. Ci aveva anche messo, all’ultimo istante, un piccolo pezzetto di fico d’india avvolto in una carta oleata, che poi aveva tenuto sul comodino accanto al letto per molti anni, come un oracolo, ormai annerito, rinsecchito ed atrofizzato. Il viaggio in corriera era stato interminabile e massacrante ma era un viaggio di speranza e dove c’è quella non esiste altro. Accomunati tutti dallo stesso spirito e dalla stessa fame, quei giovani e meno giovani emigranti avevano cantato e suonato le canzoni siciliane appoggiati ai finestrini sporchi del mezzo…Mi votu e mi rivotu…Jetta la riti…Ciuri-ciuri…Canzuna di li carritteri…La barunissa di Carini… Luntananza. Voleva essere un arrivederci ma per qualcuno era stato un addio.
Tre anni prima, era il 30 agosto 1965 a Mattmark, in Svizzera, in un cantiere sotto il ghiacciaio dell’Allalin erano morti sepolti da una frana 88 lavoratori, 55 erano italiani.
Si partiva verso l’ignoto anche se spesso si creava una catena migratoria fatta di legami e richiami interpersonali, accompagnati dalle prime informazioni necessarie per farsi una rudimentale idea di quello che sarebbe stato.
Gaetano e gli altri erano arrivati in Germania timorosi e guardinghi: era come entrare in casa d’altri in punta dei piedi dopo aver aspettato quell’ agoniato “avanti” sul pianerottolo. Tecnici e lavoratori non specializzati erano forza-lavoro necessaria nel settore manifatturiero, nell’industria automobilistica, nelle acciaierie, nel settore elettrico, in edilizia, ma rimanevano sempre Gastarbeiter, lavoratori ospiti, quando non venivano definiti Fremdarbeiter, lavoratori stranieri, oggetto di ostilità e xenofobia mai sopita. Alloggiavano in alberghi-locande che non erano né più né meno che baracche gestite da altri emigrati, spesso residuati di vecchi alloggi militari o di qualche campo di raccolta nel periodo della guerra dove, raccontava zio Gaetano, 6 metri quadrati dovevano bastare per 6 persone.
Durante la giornata non c’era il tempo di pensare a niente ma la nostalgia arrivava implacabile e puntuale la sera, quando il rientro nella baracca ricordava impietosamente che la famiglia era dall’altra parte dell’Europa.
Ogni tanto la domenica, chi era esente dai turni si ritrovava con gli altri e si mangiava e beveva qualcosa assieme, si giocava a carte, si suonava e si ballava tristemente fra uomini, così, tanto per non perdere anche quello o per illudersi che fosse festa. Mai come in quei momenti si avvertiva l’assenza di tutte quelle figure femminili lasciate a casa: madri, sorelle, fidanzate, mogli. Lo zio ricorda che un suo connazionale non si era mai rassegnato alla lontananza e si era fatto mandare le tendine da casa sua per appenderle sulla finestrella in baracca: avrebbe così potuto vederle, toccarle, odorarle ogni giorno e con esse assaporare i colori, la consistenza e i sapori della Sicilia. Ognuno elaborava un modo per andare avanti, una strategia che gli facesse superare tanta solitudine e sofferenza.
E intanto le famiglie potevano campare, i figli piccoli crescevano con minori privazioni, i vecchi morivano invocando i nipoti fuori dall’Italia, qualche ragazza trovava un altro fidanzato che non espatriasse e il quadro sociale ed ambientale di quella Sicilia e di quell’Italia mutava.
Gaetano, che a 23 anni si era poi sposato con Lucia ed aveva messo su famiglia ogni volta che poteva, non era più tornato a vivere nella sua isola se non per brevi periodi ogni tanto e in occasione del Natale e della Pasqua, giusto il tempo di stare un po’ con i parenti. Si era portato in Germania il figlio maggiore e non aveva mai smesso di inviare le sue rimesse in solidi Marchi prima e in Euro poi.
Ora ha una casetta sua in una tranquilla zona di Duisburg dove coltiva un piccolo orto, incontra amici di vecchia data con cui parlare siciliano, ospita i visitatori che arrivano dalla Sicilia e si gode il frutto del suo lavoro. La sua vita è là, non si schioderebbe mai da quel posto e la moglie, a dire il vero, non lo ha mai preteso. Di tanto in tanto raggiunge in autobus la fabbrica in cui lavorava, diventata ora un lugubre esempio di archeologia industriale in stato di abbandono e si siede su una panchina di fronte ai cancelli principali: Dio solo sa cosa pensi e cosa provi.
Il nipote Rocco è felice di stare con lo zio qualche giorno, un piccolo scalo prima di partire da Francoforte alla volta di Singapore. E’ giovane, pieno di energia, idee, intraprendenza, progetti. Ha terminato con successo l’università ed ha deciso di andarsene dall’Italia per uno stage presso una multinazionale high tech. Poi chissà…! Singapore è un Paese dinamico, capace di diventare in meno di 50 anni una delle nazioni più moderne e ricche del mondo con una società meritocratica, cosmopolita, aperta ad ogni innovazione ed investimento. Un posto dove pensare al futuro senza scoraggiarsi e ritrattare. In fondo, ha pensato Rocco, ci vuole lo stesso coraggio sia a restare che a partire, quindi tanto vale.
Guarda con affetto lo zio Gaetano che sta preparando gli spaghetti e pensa che tra poco se ne andrà anche lui, giovane migrante, con una comoda e spaziosa valigia, il pc, l’iphone in tasca, un aereo che lo aspetta, uniti nello stesso destino. Questa volta la ‘fuga’ non è dettata dalla fame come nel secondo dopoguerra ma dal desiderio di affermazione e realizzazione in quei luoghi dove esistono possibilità e spazi per crescere. Rocco è l’odierno Ulisse alla ricerca di nuovi approdi da scoprire, provare, sperimentare, vivere. Buon viaggio, giovane viaggiatore del mondo!

Solo una canzone dell’estate

di Alberto Amorelli

Ci avevo scritto sopra pure una poesia.
Una di quelle poesie da neanche ventenne, romantiche e un po’ disperate, piene di se e di ma, di riflessione e struggimento, una bella poesia d’amore.
Faceva così:

Era bello di notte stare seduto
sulla spiaggia con te.
Gli unici che ascoltavano i nostri
segreti erano gli astri splendenti.
Le onde erano nostre consigliere.
Sapevo che se solo tu l’avessi voluto
il mio mondo si sarebbe fermato
per te.
Sotto il portico di casa tua
ho sempre saputo che
avrei dovuto baciarti.
Quelle notti sono passate.
Ora ci divide solo questo
immenso scuro mare.
Strano che sia tu quella
a cui paradossalmente sono
indissolubilmente legato.
Affido il mio amore ad una bottiglia
che la corrente porterà chissà dove.

Non male per un ragazzo di 16 anni.
Recentemente l’ho anche modificata, migliorata, l’ho fatta crescere, anche perché di tanto in tanto, non ostante gli anni, certe sensazioni ed emozioni non cambiano, e questo è il grande dono della poesia.
Ma torniamo a noi, chi era lei? Si chiamava Agnese come nella grandissima canzone di Ivan Graziani, che tra l’altro, coincidenza delle coincidenze è dell’anno della mia nascita.
Ma alla fine questa poesia era la fine della storia, la fine di quell’estate, l’estate del ’96, che se la giri diventa l’Estate del ’69 come la canzone di Bryan Adams, altro pezzo immenso. Comunque diciamo che, per chi conosce le due canzoni, la mia storia era più come quella di Graziani, con tanto di mare, biciclette malinconia abissale e cosmica.
Quell’anno ero andato al mare prima del previsto, le vacanze di famiglia in montagna a S.Vigilio di Marebbe erano già finite, solo quindici giorni quell’anno, e la casa dei miei al Lido di Spina era libera, la sorella di mio padre non era scesa quell’anno, non ricordo più per quale ragione. Della mia compagnia del mare non c’era ancora nessuno, a parte pochissimi sporadici elementi che erano al mare da giugno, il grosso sarebbe arrivato ad agosto, come sempre. Quindi quel Luglio era particolare, solitario, sembrava che tutto il Lido fosse nostro, cioè mio e di Lele, un ragazzo di Como con cui avevo preso a far “squadra”, uniti dall’essere praticamente gli unici due presenti in spiaggia, certo ad eccezione delle ragazze. Ecco la pietra miliare di ogni estate, le ragazze, sfuggenti, giovani, fresche ed ingenue lontane anni luce delle vamp sedicenni che girano adesso in tanga ai Lidi, ah sia chiaro, non sto criticando, ogni tempo ha i suoi protagonisti, ma non posso negare che nel ’96 tutto fosse più semplice, più ingenuo e diretto, c’era veramente poco di costruito, oppure così ci sembrava, cosa volete vi dica, probabilmente quegli anni ci ritornano alla mente, rilucenti d’oro e con un’aura innaturale che ci fa sorridere e che ci intenerisce il cuore, quelli erano anni grandiosi, non avevamo nulla e non avevamo bisogno di nulla, solo un sorriso di una ragazzina, una bici scassata, parole grosse come “ti amo” che non ci sembravano le incredibili montagne che ci sembrano ora, la notte, la musica lontana di una festa e i primi tremori, il brivido unico che esplode prima di un bacio agognato lungamente. Erano anni così, nessuno me li toglierà mai, non sono durati per sempre, come pensavamo, erano solo un hic et nunc, ma nei nostri ricordi ci strappano ancora un sorriso, quasi da fratello maggiore.
Io e Lele passavamo le giornate a cazzeggiare fondamentalmente, eravamo i due ragazzi più grandi a Luglio, lui di un anno più vecchio, e tutti gli altri erano bambini agli occhi nostri, si prendeva il sole e si giocava a beach volley al bagno della spiaggia e poi come se avessero aspettato proprio il mio arrivo fuori stagione, comparvero loro. Le Ragazze, il miraggio dell’autunno e dell’inverno, in bikini, t-shirt e jeans tagliati. Erano quattro, tutte di Ferrara, alcune pure del mio stesso liceo, c’era Annalisa, piccolina, minuta, carina da morire, poi Cristina, bionda, riccia, splendidi occhi azzurri e un sorriso che levati, Michela sempre bionda, lentiggini una specie di fatina trilly ed infine c’era Agnese, carnagione olivastra, capelli castani e occhi che così neri non ne avevo mai visti, quasi senza distinzione tra pupilla e iride, come se fosse un betazoide di Star Trek, emanava un’aura di malinconia e timidezza, una perfetta ragazza della porta accanto.
Ricordo ancora che io Lele stavamo risalendo dalla spiaggia, puntando verso lo stabilimento balneare dopo un lungo bagno quando le avevamo viste sedute a bere una granatina e giocare a carte, tutte carine, da sole e a portata di mano. E ora lo so, non ci fosse stato Lele probabilmente sarebbero rimaste li, ma lui, sapete, era quello grande, atletico, capello scuro e occhi di ghiaccio, lui era quello figo della squadra e io l’altro, come quasi sempre ero stato, ma la cosa non mi aveva mai dato nessun problema, ogni dinamico duo ha bisogno di un mattatore e di un spalla, ecco quell’estate io ero la spalla. Lui era quello che aveva già avuto almeno due ragazze, io costellavo amori platonici. Anche le ragazze ci notarono, o meglio notarono lui che era già al mare da inizio luglio ed era super abbronzato, io probabilmente facevo ancora riflesso al sole, anzi peggio avevo l’abbronzatura da montagna, quella con il segno delle maniche corte, la coppa rossa e la gamba dal ginocchio in giù, probabilmente non mi aiutava nemmeno il ciuffo a banana stile Brandon di Beverly Hills 90120, ma tant’era.
Ricordo che ci sedemmo ad un tavolo non lontano da loro e tra un magnum e una coca cercavamo d farci notare, facendo un po’ gli sbruffoni, quelli grandi e un po’ cercando di capire di cosa parlassero. Giuro che non ricordo come riuscimmo ad attaccare bottone, non lo ricordo proprio, ma successe e mentre iniziavamo a conoscerci un’illuminazione colpì la mia sedicenne mente. Io conoscevo già due di loro, non so per quale strano caso, Annalisa era nella compagnia del mare l’anno prima e quindi era il mio asso nella mia manica, la mia possibilità di non essere un completo estraneo per loro e incredibilmente trovavo Agnese familiare, come se l’avessi già vista in precedenza. Ricordando l’estate prima iniziammo a parlare del più del meno, e da subito notai che Lele aveva “puntato” Cristina, riservandole il suo miglior sorriso alla Clark Kent a cui la ragazza rispondeva senza esitazione, quasi fosse scattato un qualche interruttore, io parlavo con Annalisa che trova molto carina in effetti, e, quasi quasi, un pensierino ce l’avrei pure fatto se non fosse che la silenziosa presenza di Agnese stesse gravitando la mia attenzione irrimediabilmente, già presagivo languori e amori non corrisposti, non perché non avessi particolare fiducia nelle mie capacità ma perché ero abituato a non concludere mai nulla, a farmi illusioni e castelli in aria, ma che dire avevo sedici anni e forse tutto mi sembrava possibile, sentivo una buona predisposizione per quell’estate.
Finalmente, dopo esserci aggiornati un po’ su come era passato l’anno scolastico, mi venne in mente dove avevo visto Agnese, lei era la mitica primina con cui avevo attaccato bottone a scuola nella primavera passata. Scusate la digressione ma questo tassello ha avuto una discreta importanza nel tutto, anche se mi ero quasi dimenticato di lei. Era la fine dell’intervallo di un maggio non troppo fresco, ed ero davanti ad uno dei nuovi distributori automatici che avevano inserito da quell’anno anche nelle succursali del Liceo Ariosto dove smistavano durante la settimana i vari studenti, io e la mia classe eravamo quasi sempre al Varano, una vecchia ed imponente scuola elementare in disuso nella zona di via Carlo Mayr. Stavo per inserire la mie cinquecento lire quando mi ero reso conto che dietro di me c’era una ragazzina, una primina, circa quattordici anni, caschetto castano e sguardo timido e sperduto, mi sembrava di fretta, la campanella stava quasi per suonare, io ero invece più tranquillo perché l’ora dopo avevamo Religione e il profe era sempre un po’ in ritardo.
“Devi prendere qualcosa?” Domanda banale ovvio, ma, che dire, io ero quello di terza e lei di prima potevo me lo potevo permettere. In realtà il problema è che senza saperlo, quello sguardo scuro un po’ triste mi si era già in qualche modo attaccato dentro.
Lei aveva annuito e io con un gesto di galanteria, propria di me, mi ero fatto da parte per farle inserire prima le sue cinquecento lire. Mi aveva sorriso, anche un po’ stupita, quasi non fosse abituata a chi era gentile con lei, mi era passata di fianco e aveva inserito i soldi, non era tanto alta, maglietta bianca e jeans, io probabilmente sfoggiavo una delle mie improbabili camice a scacchi a mezze maniche. Aveva digitato il numero e aspettato che scendesse il pacchetto di tarallini, poi si era chinata e rialzata, dopo di che mi aveva guardato.
«Grazie, davvero! Se no facevo tardi.»
«Nessun problema figurati…» avevo risposto con un’alzata di spalle che avevo valutato essere molto figa. Poi in uno slancio di coraggio mi ero presentato.
«Agnese.» Aveva risposto. Tempo di un sorriso, di una campanella ed era fuggita. Mi era rimasta in mente per un po’ poi il mio momentaneo amore platonico per una delle mie compagne di classe aveva preso il sopravvento. E l’avevo dimenticata, almeno fino a Luglio.
E così eccoci tornati a quel pomeriggio, seduti al bagno della spiaggia. Le cose si stavano mettendo bene, in serata si sarebbe usciti tutti insieme, forse andando a fare un po’ di struscio sul vialone di Lido degli Estensi, che per noi di Spina rappresentava all’epoca il non-plus ultra della movida dei lidi ferraresi, le ragazze sembravano a loro agio e persino Agnese, solitamente silenziosa, aveva iniziato a parlare del più e del meno, Lele guardava Cristina, lei guardava lui, Agnese li osservava attenta, ed io guardavo il quadro d’insieme contento per come quello strambo luglio si stava mettendo, certo, come di mio solito mi stavano sfuggendo i particolari.
Così quella sera, biciclette alla mano andammo in giro per Lido degli Estensi, noi due e le quattro ragazze. C’è da dire che la serata non fu lunghissima, non era come adesso, tutti noi avevamo un coprifuoco anche abbastanza presto nella serata, verso le undici e mezza, ogni tanto noi maschi riuscivamo a tirare mezzanotte, io per tutto il tempo avevo intercettato alcuni sguardi tra Lele e Cristina, occhi che si incrociavano e subito si distoglievano, una deriva fisica che li portava ad essere vicini, quasi fossero catalizzati l’uno dall’altra. Ricordo che quella sera Agnese era carina, in jeans e maglioncino a “v” blu, tennis e un bel sorriso, era contenta e di riflesso lo ero pure io, le stavo appiccicato, ma a lei non sembrava dare fastidio, e questo non poteva che farmi piacere.
Verso mezzanotte ci ritrovammo solo io e Lele, seduti su una panchina del Centro DeRica grande e iconico ritrovo di noi ragazzi di tutte le estati, mangiavamo una piada presa al chioso della Livia dall’altro lato della piazza, era un rituale, l’avevamo sempre fatto, da che avevo iniziato a fare le vacanze a Spina non mi era mai mancata la classica piada della mezzanotte, crescendo negli anni era diventata quella dell’una, delle due o del dopo Barracuda.
«Mi piace Cristina…» stava dicendo Lele, tra un morso e un altro.
«A me piace Agnese, credo…» questa è una differenza che sarebbe sempre stata la mia croce, con lei e con molte delle ragazze che avrei incontrato in futuro, l’indecisione. Mi piaceva da matti una tipa, però anche di un’altra magari vedevo i lati positivi e me ne sentivo attratto. Certe sfide non sono fatte per essere vinte, ma solo per testarci, ma allora non lo sapevo.
Sorseggiai la mia cola.
«Si, credo che ci proverò…» Sorrise Lele, con lo sguardo che si illuminava.
«Fai bene!»
Questa convinzione ci portò attraverso le tre serate seguenti, c’erano sicuramente stati dei cambiamenti, loro due stavano più vicini, qualche volte, con mia gioia, avevo notato anche si erano presi per mano, ma non c’era ancora stato il grande passo, il bacio che avrebbe sancito il tutto, o meglio così ancora credevo in quegli anni. Un bacio ed era tutto a posto, non esistevano nella mia mente baci rubati, il toccarsi delle labbra era la sigla di un bel film che avrebbe visto lui e lei come felici protagonisti, innamorati per tutta la vita, non avevamo la percezione che tutto a quell’età durava il tempo di una canzone, solo una canzone dell’estate.
Quella terza sera mentre ci mangiavamo un gelato sul viale di Estensi, Agnese mi prese da parte per parlarmi, e, come si può immaginare, io ero a mille e la radio della gelateria accompagnava la serata con la hit di quell’estate, Lemon Tree dei Fool’s Garden.
Ero io il ragazzo grande, ma volete mettere l’effetto che fa vedere una ragazza che con un sorriso ti chiede di parlare in privato, chissà quali segreti, chissà quali rivelazioni, fuochi d’artificio e champagne. Così con questa predisposizione mentale mi appartai con lei e le riservai anche uno dei miei sorrisi migliori.
«Volevo chiederti una cosa su Lele e sulla Cri…» ed ecco come crollano i castelli di carte. Non ricordo, forse fui bravo a mascherare la delusione, ma tant’è che Agnese non si accorse di nulla.
«Dimmi pure…»
Sembrò pensarci un attimo mentre leccava la menta dal cono.
«Lele fa sul serio?»
Feci spallucce e spostai lo sguardo verso gli interessati che parlavano fitti fitti sulle panche di pietra della gelateria.
«Non so. Di sicuro le piace…» Come tu piaci a me, avrei dovuto aggiungere, ma le parole mi si incastrarono tra i denti.
Agnese rimase pensierosa per qualche istante.
«Perché a lei piace, e anche parecchio e non vorrei ci rimanesse male, sai…» schiacciò la voce su quell’ultima parola, con fare complice. Io annui senza sapere a cosa si stesse riferendo in effetti, la perspicacia mi aveva sempre un po’ difettato.
«Non credo abbia intenzioni da carogna…è un bravo ragazzo…» Mi venne spontaneo difenderlo anche se a tutti gli effetti lo conoscevo da dieci giorni e probabilmente l’idea che potevo essermi fatto di lui non poteva essere così precisa come stavo dando impressione fosse. Negli anni poi avrei scoperto che avevo assolutamente ragione, e che la mia prima impressione era stata quella corretta.
«E’ che lei non ha mai avuto un ragazzo…e lui abita anche lontano…non so se una storia a distanza…»
«Sono abbastanza grandi per decidere…non credo dovremmo preoccuparci…» Ripensandoci ora, il dire sono abbastanza grandi a sedici anni era estremamente fuori luogo, ma si sa, l’età in cui viviamo fino ad un certo periodo ci sembra l’unica e anche le parole guadagnano un significante specifico nel periodo esatto in cui le stiamo pronunciando e vivendo.
Agnese aveva sorriso.
«E’ mia amica, mi preoccupo per lei…tutto qui…»
Le misi una mano sulla spalla e le sorrisi per rassicurarla.
«Non ti preoccupare, tutto andrà per il meglio…» Ah le convinzioni dell’adolescenza! Miele bollente con cui ricoprire tutto il nostro essere affacciati per la prima volta alla finestra di un mondo così vasto e così sconosciuto, le insenature e i meandri del sentire e dei sentimenti, l’unica materia che non si smette mai di studiare.
«Credi la bacerà?»
«Non so, sicuramente lo vorrebbe, ma anche lei immagino…» Almeno quanto io vorrei baciare te in questo momento, ma l’idea mi si arenò sul palato, bloccata dai paletti dell’insicurezza.
Agnese mi guardò, molto nel profondo, e per un attimo, solo per un infinitesimale attimo mi sembrò quasi stesse sondando i miei tumulti interiori, gli occhi nerissimi indagatori rovistavano tra le mie mal celate intenzioni, con un facilità disarmante. Un leggero sorriso le si profilò sulle belle labbra carnose, poi inclinò il capo.
«Torniamo?»
«Torniamo.» Asserii.

Finimmo la serata a raccontarcela tutti assieme seduti sui lettini umidi di un bagno a caso di Estensi, la luna era alta sull’orizzonte di acque nero, quasi un perfetto cerchio, pallido e rilucente, catalizzava l’attenzione di tutti e mi scoprii ad ammirare come la sua luce argentata giocava con i lineamenti giovani e morbidi di Agnese, il sorriso, le belle labbra piene, il naso un po’ tondo ma grazioso e quegli occhi che, nonostante fossero una propaggine della notte intorno a noi, risplendevano come specchi bagnati dalla luminescenza delle stelle sopra di noi. Anche quella sera, con l’oscuro mare a fare da contraltare alle gioiose risate, giungeva alla sua naturale fine e per quanto sia Agnese che io a questo punto fossimo molto interessati ai mutamenti del rapporto tra Lele e Cristina la situazione non cambiò, nessun bacio, nessun inizio di una storia. Niente, solo un’altra splendida cornice adolescenziale.

Mezzora dopo seduti a mangiare una piada Lele sembrava preoccupato.
«Che c’è?»
«Eh, ho saputo che non ho molto tempo…a fine Luglio Cristina torna a casa…»
«Ma è già il 26…»
Lui annuì tristemente.
«Quindi penso succederà domani sera.» concluse dando un ultimo morso alla piadina.
«E poi?»
«Non so, lei mi piace, io sarei per continuare a stare insieme anche se io abito lontano, potrei venire a trovarla a Ferrara in treno…»
«Potrebbe essere un’idea…»
«Vedremo, comunque domani sarà una serata decisiva…»
«Beh cercherò di tenere lontane le altre…»
«Non serve, ci saremo solo noi quattro, io, lei, te e Agnese…le altre, se ho capito bene dovrebbero essere impegnate, sai i genitori di Michela sono ad una cena allo stabilimento in serata, i gestori fanno pesce alla griglia, e Annalisa, essendo ospite loro, sarà li pure lei…»
«Quindi un’uscita a quattro…»
Lele annuì.
«Fatti valere anche tu, che a fine Luglio torna a Ferrara pure Agnese…»
Ricordo ci rimasi di sasso, questo non lo sapevo, non mi era nemmeno passata per la testa l’idea che in effetti per alcuni villeggianti le ferie al mare stessero finendo, pensavo di avere tutta l’estate davanti ed invece non avevo proprio nulla, sabbia tra le dita. Percepii un baratro aprirmisi sotto i piedi e passai tutta la notte a scivolarci dentro lentamente e inesorabilmente.

Dormii male e la mattina ero ancora stanco quando mi alzai per andare allo stabilimento.
La mattina passò tranquillamente, prendemmo un po’ di sole, Agnese aveva uno splendido costume blu, cioè con il senno di poi era molto normale, ma a me sembrava stupendo, e mi persi a fantasticare sulle sue gambe lisce, sul seno piccolo e persino sulla leggera cicatrice di un’appendicectomia che sbucava più bianca dal costume, e che faceva un affascinante contrasto con l’abbronzatura sulla pelle olivastra.
Facemmo il bagno, e mangiammo al bar della spiaggia. Una normale e lineare giornata al mare, l’unico dettaglio era una certa tensione che sentivo crescere in me mano a mano che lo scoccare delle ore si mangiava la mattina e il pomeriggio avvicinando la serata. Notai che anche Lele e Cristina sembravano tesi, carichi di un’aspettativa montante fatta di foriere promesse, l’unica tranquilla, in effetti, sembrava Agnese, manteneva quel suo fascino ombroso che già mi aveva provato nei giorni precedenti.

Alla fine arrivò la sera. L’appuntamento era fissato, io e Lele saremmo passati a prenderle a casa e poi avevamo optato per boicottare per una sera Estensi e rimanere nei locali di viale Raffaello o al massimo al Cutty Sark, grandioso posto che forse meriterebbe una parentesi per l’importanza che aveva riservato per me al Lido Spina dai quattordici anni fino a quando non era bruciato nel 2000. Era il tipo di locale che rimaneva aperto praticamente tutta notte e che spesso avevamo usato come base per la colazione dell’alba, quando decidevamo di fare il falò in spiaggia e di passare la notte a suonare la chitarra per tutta la notte. Ma questa è davvero tutta un’altra storia.
Una delle immagini più vivide di quella serata ricordo essere stata assolutamente Agnese seduta sul cannone della mia bici mentre ci spostavamo per il lido. C’era vento quella sera e l’aria mi portava il profumo dei suoi capelli e il buon odore che ho sempre associato a lei, e poi praticamente l’abbracciavo, chinò sul manubrio, eravamo veramente vicinissimi, tant’è che probabilmente si fosse girata in fretta ci saremmo baciati, ovviamente, come potete immaginare, ciò non accadde, ma era bello pensarlo, dava un sapore speciale alla serata. Quella sera lei aveva una polo a righe, verde e blu, jeans e adidas ai piedi; è incredibile quello che ci si fissa nella memoria anche ora che ci sto ripensando quella polo è ben ancorata alla mia memoria, portava il colletto alzato e potrei giurare fosse della ralph laurent, i tre bottoni erano slacciati e le righe delineavano perfettamente il seno, non era un abbigliamento particolare, era semplice, era questo che me lo rendeva vincente, la semplicità completa e la naturalezza del suo portamento. Non ho più memoria di come fossero vestiti gli altri e di quello che indossavo io, sicuramente legato in vita avevo il mio maglione a “v” preferito, blu chiaro a costine. Nulla importava, l’immagine che è impressa nella mia mente è Agnese, sul cannone della mia bici, in polo e con quel profumo pungente e speziato che soffia intorno a noi.
Come da programma alla fine uscimmo dal Cutty Sark verso le dieci e mezza e puntammo diretti alla spiaggia, sembrava la scelta migliore, la notte, il vento fresco, le stelle e tutto il contorno. La radio del locale suonava la solita Lemon Tree, e io potevo quasi percepire il palpitante cercarsi di Lele e Cristina, e sapevo per certo che nel momento in cui si fossero trovati soli tutto si sarebbe svolto come doveva.
Lasciate le biciclette nella rastrelliera i due accelerarono il passo, Agnese stava per fiondarsi dietro l’amica, ma la fermai.
«Non disturbiamoli dai…guardali…»
Lei si era fermata e sospirando aveva annuito, osservando la coppia che guadagnava le ombre, fuori dalla luce fioca dello stabilimento balneare.
«Che facciamo?»
«Scendiamo in riva anche noi…» dissi nel modo più semplice possibile. Fianco a fianco ci incamminammo per lo stradello che tagliava le file degli ombrelloni chiusi nella scura spiaggia.
Ecco, ora è difficile con molti più anni sulle spalle, dire perché quei momenti mi rimasero così in testa, forse era quel palpitare costante del mio cuore che mi rimbalzava dal petto alla gola mentre vicino ad Agnese lentamente camminavamo. Forse era quel lieve vento che increspava il lento sciabordio del mare, la luna imponente nel cielo blu, o magari solo il fatto che forse era la prima volta che mi trovavo con una ragazza da solo, nella notte promiscua nel romanticismo di una notte di luglio al mare. Non saprei, ma quell’immagine rimane.
«Eccoli li guarda!» Esclamò lei indicando Lele e Cristina che si spostavano dalla passerella fino alla terza fila di ombrelloni. Agnese iniziò a deviare in quella direzione.
«Ma non vorrai mica seguirli??» Alla fine ero divertito.
«Dai! Voglio vedere…sono in pensiero!» Mi afferrò per una mano tirandomi.
«Ma che ci interessa? Su dai non sta nemmeno bene spiarli così…»
Era inamovibile, così ovviamente, come sempre facevo, mi feci trascinare. Ero sicuro che i due se si fossero voltati ci avrebbero visto sicuramente, non c’era nessuno praticamente in spiaggia e la luna illuminava bene tutto. Scendemmo fino alla stessa fila. Ora li vedevo abbastanza distintamente, si erano seduti a cavalcioni di un lettino, uno davanti all’altra, erano molto vicini, sembrava stessero parlando. Era il loro momento, non mi andava di rovinarlo così mi fermai all’improvviso, e di riflesso anche Agnese si fermò e lasciò la mia mano. Mi guardò interrogativa.
«Dai non roviniamo questo momento. Se proprio vuoi seguire lo svolgimento della situazione, sediamoci qui, siamo ad almeno cinque lettini di distanza, non diamo fastidio e se proprio vuoi, li puoi comunque spiare…» con un sorriso calcai volutamente la voce sull’ultimo verbo.
Agnese ci pensò un attimo, poi annuì.
«Ma non li spiamo, controllo solo…non voglio che la Cri faccia qualcosa che non si sente…» Asserì mentre si sedeva pure lei a cavalcioni di un lettino, io mi sedetti di fronte.
«Non succederà nulla di male…»
«Ma qualcosa succederà vero?» Sembrava ansiosa.
«Ti piacerebbe succedesse qualcosa, o no? Non ho mica capito…»
Fece spallucce e storse le labbra.
«Si, cioè no…non voglio succeda nulla che non vogliano…sarebbe bello ma anche difficile…lei vorrebbe ma credo abbia paura e quindi potrebbe tirarsi indietro…»
Ecco, qui mentalmente chiesi la resa. Stavo incominciando a capire quanto potessero essere complicate le ragazze, e questa consapevolezza non mi avrebbe mai abbandonato. Non sapevo cosa avrebbero fatto i due, sapevo cosa avrei voluto fare io, tirarla a me e baciarla, era così vicina. Peccato che tenesse la faccia praticamente sempre voltata verso Lele e la Cri. Potevo solo seguirne il profilo incorniciato nello scuro orizzonte, era una situazione assurda e ironica. Così se lei ha mai saputo che in quel preciso istante l’avrei baciata come se non ci fosse stato un domani, perché a sedici anni è un po’ così, sembra davvero non ci sia mai una seconda possibilità, e forse è davvero così chissà, chissà se certi treni ripassano?
«Perché Cristina ha paura?» Chiesi nel tentativo di far girare Agnese verso di me.
Mi guardò, con un lieve sorriso, un po’ storto.
«Non ha mai baciato nessuno…è la prima volta…non vuole fare una brutta impressione…»
«Non credo possa esserci una brutta impressione in un bacio…» risposi facendo spallucce.
Lo sguardo che mi dedicò fu incredibile, sembrava carico di milioni di domande che io non mi ero mai posto e di cui lei aveva già invece le risposte. Le ragazze e le donne hanno sempre già le risposte per qualsiasi domanda che tu abbia mai pensato di porti, è così, gente, abituatevi.
Tornammo a guardare i due. E come potevamo largamente immaginare, finalmente, l’ombra di Lele si chinò verso l’ombra di Cristina e si baciarono. Agnese trattenne il respiro e mi artigliò la mano destra, appoggiata sul mio ginocchio.
«E’ successo!! Hai visto!!»
«Beh, non potevo non vedere…»
«Chissà cosa succederà ora??»
«Non credo siano più fatti nostri sai? Senza contare che probabilmente stanotte quando andrete a dormire Cristina ti racconterà tutto…»
«Questo è vero…» e si girò finalmente verso di me, completamente. Poi non saprei spiegarvi cosa accadde, ma rimanemmo lì a fissarci, mano nella mano, perché lei non aveva lasciato la mia, occhi negli occhi, come se non sapessimo bene cosa fare. La mia gola era secca e la testa era in confusione, forse lei si sarebbe aspettata qualcosa, o forse no, forse eravamo anche noi preda di quel misto di paura/attesa, schiavi della risacca, della luna furba e del sussistere in quell’istante l’uno per l’altra. Nel mio vago ricordo di quello stato confusionale, forse mi verrebbe da dire che ebbi l’istinto di baciarla ma non lo feci, non so. Dopo non saprei nemmeno quanto lei si girò, mi diede le spalle e si accucciò contro il mio petto guardando il mare, e davvero in quel momento non potei fare a meno di sentire il lontano fischio di un treno che si allontanava e le ultime note di una canzone portate dal vento e riversate chissà da dove. Mi limitai a cingerla con le braccia, quando ebbe freddo le diedi il mio maglione, perché è questo quello che si deve fare quando una ragazza ha freddo. Lei nascose le mani dentro le lunghe maniche del maglione, impregnandolo con il suo dolce profumo, poi poggiò la testa all’indietro sulla mia spalla, per un attimo i sui capelli mi fecero solletico sul collo e sentii la calda presenza della sua guancia vicino alla mia. Poi fummo trascinati via anche noi dal mare, dal vento, da tutto, soffiati via su malinconiche note musicali.
E come in quella vecchia canzone, ancora oggi ogni tanto fantastico sul come e fantastico sul perché. Non ho risposte ora come non ne ebbi allora, mi rimane un sorriso dolce amaro sulle labbra perché, alla fine, non era nulla di più che questo, un’altra vecchia canzone d’estate.

La ruggine

Durante la notte, Joshua Lustig si sveglia di soprassalto. È appena uscito da un incubo in cui ha creduto che lui e sua moglie fossero le probabili vittime di un orrendo delitto. Il provvidenziale risveglio ha impedito che nel sogno il dramma si consumasse in tragedia.
Ma Joshua è visibilmente provato, gocce gelate di sudore si sommano sulla fronte e sulle guance, è completamente fradicio e il freddo lo punge arrivando fino alle ossa. Batticuore, respiro affannoso e un leggero tremito su tutto il corpo testimoniano il terrore da cui si è appena destato.
Decide di accendere la luce per interrompere un vago senso di inquietudine rimasta come sospesa nel suo animo dal momento del risveglio e acuita dalla circostante oscurità. La lampada sul basso comodino a fianco del letto illumina solo un angolo della stanza, lasciando in ombra tutto il resto. Joshua si siede nel letto poggiando la schiena alla spalliera, s’infila gli occhiali da vista trovati accanto alla lampada e comincia a scrutare ogni angolo della stanza: sembra tutto a posto, tutto in ordine.
Distrattamente sbircia alla sua destra e constata che Therese, sua moglie, è sempre lì, immobile, girata come al solito dall’altra parte e avvolta quasi completamente dalle pesanti coperte. Il solito ciuffo di capelli fuoriesce dal bordo della trapunta; è seminascosta nella penombra ma c’è, ed evidentemente dorme un sonno profondo, inconsapevole delle ansie del marito.
Era sembrato tutto così reale: lui e lei sorpresi nel sonno da uno sconosciuto armato di una grossa accetta; un implacabile senso di smarrimento e di impotenza mentre l’aggressore, di cui non riusciva a vedere la faccia, minacciava di farli a pezzi.
L’improvviso risveglio ha fortunatamente risolto tutto.

Joshua Lustig ha cinquantotto anni, pochi capelli in testa e l’alito perennemente cattivo. Afferra l’orologio da polso appoggiato sul comodino e se lo avvicina alle lenti degli occhiali: le lancette segnano le tre e mezza del mattino. Cercando di non fare rumore scende dal letto e, infilatosi le pantofole, s’incammina verso il bagno.
È malfermo sulle gambe, il tremore non è ancora passato del tutto, e poi sente un freddo intenso e fastidioso. La maglia del pigiama che indossa è tutta bagnata, si deve cambiare e se la sfila da dosso gettandola su una sedia in fondo al letto. In bagno, accende la luce al neon posta sopra lo specchio, si abbassa le mutande e orina nel lavabo striato di macchie giallognole. “Tanto lei dorme e non mi può rompere le palle.” pensa. Appoggia i palmi delle mani al bordo del lavabo, si guarda allo specchio e vede delle macchie rosse intorno alla bocca: è sangue.
La piorrea lo tormenta da anni (è la causa principale del suo alito sgradevole, oltre alla scarsa igiene orale) e di notte capita che perda sangue dalla bocca, tutto normale quindi. Apre il rubinetto dell’acqua calda, il pomello è arrugginito e il flusso d’acqua esce ad intermittenza con sbuffi improvvisi e rumorosi. Dopo cinque o sei schizzi di liquame scuro l’acqua inizia a scorrere in modo regolare e sempre meno torbida fino a diventare completamente trasparente. Nel frattempo Joshua si osserva le mani e si accorge che anch’esse sono sporche di sangue, probabilmente si è macchiato muovendosi e toccandosi la faccia nel sonno, afferra una mezza saponetta tutta rinsecchita e inizia a lavarsi le mani con cura. Fa i soliti gargarismi sciacquandosi gola e gengive e sputando acqua mescolata al sangue abbondante proveniente dalle fessure createsi tra i colletti scoperti dei suoi incisivi. Tra un risciacquo e l’altro avverte nell’acqua un forte e sgradevole sentore di ferro che gli rimane in bocca anche dopo aver sputato una decina di volte. Una volta ripulito, si asciuga mani e faccia col telo di spugna ancora ripiegato; vi affonda il viso assaporando per un attimo il soffice calore della spugna di cotone sulla pelle.
La tensione sembra essersi attenuata e rimane a guardarsi allo specchio per un po’: è pallido, lo è sempre stato, ma adesso gli pare di esserlo più del solito, magari è l’effetto del neon. Anche la sua magrezza sembra essersi accentuata. Occhiaie scure cerchiano due occhi infossati nelle orbite; occhi lacrimosi, cerulei, opachi, ai lati dei quali profonde zampe di gallina si allungano fino alle tempie.

Non è mai stato un bell’uomo. Anche da ragazzo lo prendevano in giro per via del suo fisico gracile, quasi rachitico, e per la sua piccola testa, che pareva fatta apposta per mettere ancora più in risalto il naso adunco e le orecchie a sventola che sporgevano da un cranio già allora povero di capelli.
Del resto, pure la ragazza che poi divenne sua moglie non era per niente avvenente: una tipa qualsiasi, grassottella e assolutamente priva di grazia femminile. Fu comunque l’unica disposta ad offrirsi a lui, e lui non si fece pregare.

Indugia ancora davanti allo specchio. Ormai il tremore è passato. Scorre la mano ossuta sulle guance scavate e sente la barba che inizia a spuntare con l’effetto di una sottile carta vetrata che si sfrega ruvida sul proprio palmo calloso. La sua barba è dura, ispida e folta, e cresce assai in fretta, obbligandolo a radersi praticamente ogni giorno, forse quasi a compensare la carenza di peli sulla testa. Ma adesso non ha voglia di perdere tempo con schiuma e rasoio, magari più tardi.

Della sua bruttezza non gli è mai importato granché, e quando a scuola lo chiamavano Nosferatu non si offendeva nemmeno. Era un solitario e coltivava le sue passioni in casa, lontano dai suoi coetanei, troppo stupidi per capirlo.
Solo qualche anno più tardi, quando alcuni bulli presero di mira la sua prima e unica ragazza (e futura moglie) additandola ripetutamente col nomignolo di Miss Piggy, reagì alle continue provocazioni sfidandoli e invitandoli a vedersela con lui nel cortile della biblioteca.
Coraggiosamente, i bulli non si fecero intimorire dall’inattesa reazione di Joshua, e, in tre contro uno, lo pestarono a dovere, mandandolo dritto dritto all’ospedale. L’esperienza di calci e pugni, ricevuti in gran quantità dagli arditi teppistelli, gli procurò un temporaneo problema alla masticazione e una definitiva sordità all’orecchio destro. Ma gli regalò anche l’esclusiva e assoluta devozione di Therese, che sposò tre anni più tardi.

Joshua, finalmente, decide di congedarsi dallo specchio. Afferra una maglia che ha trovato sullo stendino chiuso e appoggiato a bordo vasca, sembra asciutta anche se non proprio pulita, pigramente se la infila ed esce dal bagno. Attraversa un breve tratto di corridoio al buio, entra nella cucina e, tastando la parete alla sua sinistra, tocca l‘interruttore della luce che si accende.
Si accorge subito della sporcizia sparsa un po’ dappertutto, dalle stoviglie sudice ammassate sul lavello di marmo, alla tavola ricoperta di polvere, al centro della quale nota un vassoio pieno di palline raggrinzite e annerite che in origine dovevano essere state delle arance.
“Non capisco perché quella donna debba ridurre la casa in questo modo, prima di decidersi a ripulirla.” riflette infastidito, mentre apre il frigorifero e tira fuori il cartone aperto del latte.
Beve, sente dei grumi sulla lingua e subito un pizzicore ed un saporaccio acido gli riempie il naso e il palato, inducendolo a rigurgitare l’intera boccata di latte andato a male sul pavimento. Va sotto la luce al centro della stanza e legge la data apposta sul bordo del cartone, la rilegge una seconda volta e si accorge che il latte è scaduto ormai da oltre un anno. “Non è possibile!” pensa.
“Come può essere?” continua a ripetersi, mentre il disgusto rimasto nella bocca lo costringe a cercare dell’acqua da bere per togliersi quel miscuglio amaro e nauseante di formaggio scaduto e ruggine.
L’acqua del rubinetto sa di ferro, ma da qualche parte dovrebbe esserci una bottiglia di acqua minerale.
Eccola! Finalmente la vede, è quasi nascosta dietro alcuni barattoli sul ripiano superiore della dispensa, non sarà fresca ma almeno gli toglierà quel saporaccio schifoso dalla bocca.
Afferra la bottiglia, toglie il tappo e inizia a bere.
Fa in tempo a deglutirne un’ampia sorsata, quando, quasi immediatamente, un impulso meccanico proveniente dalle viscere lo porta ad espellere violentemente l’intero contenuto del suo stomaco. I conati ripetuti lo lasciano senza fiato, mentre i succhi gastrici, riemersi in quantità, gli bruciano la gola andandosi a sommare coi loro acidi al sapore di marcio dell’acqua ingerita e subito rigettata.
Un’improvvisa, grande debolezza gli fa tremare le ginocchia. Si appoggia ad una sedia e rimane in piedi a fatica, non ha più fiato e avverte un gran dolore al diaframma. Si sente come prosciugato, per un po’ gli è sembrato che ogni liquido del suo corpo volesse abbandonarlo, persino gli occhi hanno iniziato a lacrimare.
Sparso sul pavimento vede ciò che resta dei suoi ultimi pasti, e un nuovo stimolo, accompagnato da nuova e abbondante salivazione, lo avverte che non è ancora finita. Altri conati e altre convulsioni gli percuotono il petto, ma, a parte la saliva, nient’altro gli esce più dalla bocca.
Odore di vomito tutt’intorno, ma Joshua non ci fa più tanto caso, anzi, ripensa al sapore pessimo di quell’acqua e al suo odore: un misto di pesce ed erba marcia. “Meglio la puzza di vomito.” conclude.

È sconcertato, non riesce a comprendere cosa sia successo. Poi riprende in mano la bottiglia di plastica contenente quell’acqua pestilenziale, la guarda attentamente e capisce, all’interno vede ciò che non avrebbe mai voluto vedere: una brodaglia verdastra in cui pezzi di animaletti morti e putrescenti stanno in sospensione tra loro circondati da una miriade di minuscole particelle di alghe. In superficie, una sottile pellicola grigia (probabilmente muffa), sulla quale alberga una colonia brulicante di vermetti gialli (ovvero larve di mosca assai vive e indaffarate in continue contorsioni), completa il ributtante quadretto visibile all’interno della bottiglia. Vede tutto ciò e si ricorda del sapore lasciatogli in bocca, quindi un nuovo e potente sforzo di vomito gli inchioda il diaframma, obbligandolo a piegarsi in avanti.
Ma, con lo stomaco ormai svuotato del tutto, nulla più gli fuoriesce dalle fauci martoriate, se non una serie di profondi e dolorosi singulti.

Esausto e mortificato si abbandona sulla sedia, ripensa alle stranezze trovate in cucina e riflette sul da farsi.
“Non riesco a credere che quella donna abbia ridotto la cucina ad un simile porcile! Adesso vado là e la sveglio, poi gliene dico quattro!” decide. Poi ci ripensa.
“È pur vero che non è mai stata una moglie disordinata… e non ricordo di aver mai visto la cucina ridotta così! Mah, più ci penso e più non riesco a spiegarmelo… Comunque deve sapere le porcherie che ho trovato! Le deve sapere! Sì sì, la vado a svegliare…” conclude alla fine.

Con grande sforzo si alza dalla sedia per tornare in camera da letto, ma, nel farlo, deve oltrepassare per forza la larga chiazza di vomito che insozza il pavimento della cucina tra lui e l’ingresso al corridoio.
In uno slancio di ottimismo nei propri mezzi fisici, sceglie di azzardarsi in un improbabile salto dell’ostacolo. Scelta che in pochi istanti si rivela molto infelice: ciò che nelle intenzioni doveva essere un facile saltino di qualche spanna, a causa di una sottovalutata debolezza e della natura viscida del fondo, si trasforma in una specie di grossolana spaccata con scivolata e perdita di equilibrio finale.
Il risultato è un ginocchio slogato, una forte contusione alla spalla destra e, per non farsi mancare nulla, un taglio sul palmo della mano sinistra procurato dal bordo sporgente in lamierino del piano cottura a cui Joshua ha tentato di aggrapparsi, prima di rovinare definitivamente sul pavimento e sui propri rimasugli gastrici.
La prima conseguenza è un forte dolore al ginocchio sinistro dovuto alla distorsione. Prima uno spasmo acuto, lancinante e, per fortuna, di breve durata; un lampo di dolore che gli ha strappato un grido di sofferenza, subito soffocato dall’immediata caduta. Dolore poi diventato più blando, ma comunque tale da togliere le poche forze rimaste.
La botta alla spalla invece non gli ha procurato alcun dolore immediato, si accorge però che il braccio destro è indolenzito e incapace di alzarsi oltre la propria spalla.
Del taglio alla mano se ne accorge solo in seguito, quando prova ad afferrare la maniglia arrugginita della credenza nel tentativo di alzarsi: il contatto col metallo ruvido gli infligge istantaneamente un forte bruciore che lo spinge a lasciare la presa.

Ora è steso sul pavimento, dolorante e inzaccherato nel proprio vomito, ne respira la puzza e ne sente il sapore.
Sente il ginocchio gonfiarsi e il taglio alla mano comincia a pulsare. Dà un’occhiata alla ferita: sembra profonda e perde un bel po’ di sangue. “Cristo, qua c’è ruggine dappertutto… Dovrò fare l’antitetanica!” pensa guardandosi la mano.
Vorrebbe alzarsi ma ha una gamba e un braccio praticamente fuori uso. Quindi rimane immobile a terra per un po’ a far funzionare l’unica cosa che ancora può usare di sé senza timore: il cervello!

La situazione può essere analizzata da diversi punti di vista. Si potrebbe evidenziare l’aspetto tragico della cosa, oppure quello comico. In entrambi i casi a livello pratico non cambierebbe granché, ciò che cambierebbe sarebbe eventualmente l’approccio umorale.
L’umore, specie quando è buono (è risaputo), è un ingrediente essenziale della forza di volontà e della relativa voglia di ricerca delle soluzioni ai problemi.
Pessimismo, ottimismo e realismo sono le tre visioni del mondo che l’uomo di volta in volta è portato a condividere in base all’umore del momento e all’esperienza accumulata. Dove agire quindi?
Sull’esperienza direi di no: l’esperienza può condizionare ma è come un’eredità, ognuno ha la propria e quella rimane.
Sull’umore invece sì: su quello si può intervenire e si può fare cambiando il proprio punto di vista.

Ma quale punto di vista può mai avere Joshua? Un uomo brutto, con una moglie brutta, una casa brutta e sporca, un lavoro brutto e monotono, una vita brutta e anonima?

Questo è ciò che il suo cervello sta producendo: pensieri astratti, inutili, che girano su se stessi senza andare da nessuna parte.
Joshua Lustig non è mai andato da nessuna parte, ha sempre preferito il basso profilo: l’unica cosa che lo fa sentire al sicuro in un mondo che odia da sempre, e da cui è ricambiato con gli interessi.

Inaspettatamente Joshua si mette a ridere.
È steso a terra, sporco, puzzolente e dolorante, e ride. Forse è una risata isterica, sicuramente è forzata; voluta apposta per aggirare il proprio punto di vista. Magari funziona. Magari, ridendo di sé, si può diventare ottimisti.
Ma non funziona affatto!
E dal riso si passa ad un pianto di frustrazione, dai conati ai singhiozzi, altro lavoro per il suo diaframma dolorante.

Non è un pianto liberatorio: è dolore che si somma al dolore, dolore che diventa rabbia, rabbia che diventa un pugno di stizza contro il pavimento sporco sferrato con la mano sana. E tutto quanto si risolve con una bella schizzata di vomito sulla faccia!

Vorrebbe gridare, chiamare sua moglie, chiedere aiuto almeno per potersi alzare da quel pantano lurido che lui stesso ha creato. Ma non può e non vuole.
Del resto, come potrebbe mai farsi vedere ridotto a quel modo?
Come potrebbe confessare tutta quella miseria all’unica persona che abbia mai avuto il riguardo di considerarlo (almeno per un po’) importante?
Therese Dobrinov, la donna che ha sposato, dopo tutto non merita una simile delusione, e quella notte Joshua non ha nessuna intenzione di procurargliela. Rimarrà un segreto tra lui e la sua goffaggine.
Quindi deve cavarsela da solo. Trovare un modo e sperare che nel frattempo sua moglie non si svegli.

Si sente umiliato, patetico, spaventosamente ridicolo. Ma deve trovare il modo per uscire da quella penosa situazione, e l’unico modo che gli viene in mente è strisciare.
Ed è così che si trascina dalla cucina al bagno oltre il corridoio: striscia sul pavimento lasciando dietro di sé tracce di vomito e impronte insanguinate.
Ora è entrato in bagno ma è al buio. Non basta la luce che dalla cucina arriva ad illuminare l’angolo del bagno affacciato al corridoio, deve alzarsi in qualche maniera e premere l’interruttore del neon.
Si appoggia alla vasca da bagno e puntella la gamba sana contro la parete, poi, con entrambe le braccia e vincendo il dolore alla spalla e alla mano, si solleva lentamente fino a sedersi al bordo della vasca.
Il più è fatto! Finalmente si alza in piedi e, facendo attenzione a non caricare il proprio peso sulla gamba slogata, zoppica arrivando sino all’interruttore di fianco allo specchio e accende la luce.

Ciò che vede riflesso nello specchio di certo non poteva aspettarselo.
Sente il cuore accelerare, il rimbombo dei suoi battiti echeggiargli nelle orecchie sempre più forte; teme che possa scoppiargli nel petto, e forse sarà così.
E se stesse per avere un infarto?
La domanda si fa assillante e comincia a cancellare ogni altro pensiero. Joshua ha sempre avuto paura che, prima o poi, il suo cuore ingrossato potesse stancarsi definitivamente di lavorare in quel corpo inutile. La batosta subita in cucina potrebbe forse essere stata la goccia finale.
E poi, adesso, la sua faccia riflessa nello specchio gli sta dando la conferma che di certo il peggio non è passato: se mai avesse immaginato il suo aspetto da morto, quello che ora sta vedendo ne è l’inequivocabile proiezione.

Un volto prosciugato di ogni sfumatura e di ogni spessore vitale, con due occhi sempre più infossati e spenti. Le rughe che segnavano la sua faccia, prima profonde e numerose, ora sembrano scomparse, quasi cancellate dalla tensione di una pelle grigia e insolitamente liscia e sottile ritiratasi nei propri orifizi. Intorno alla bocca, quasi ridotta ad un foro circolare privo di labbra, una cornice di grumi di vomito e sangue rimane l’unica traccia di colore di quel quadro mostruosamente grottesco.
Per tutta la vita è stato abituato a fare i conti col suo aspetto, ma ciò che vede ora lo spaventa. Ormai il cuore viaggia all’impazzata e ad esso si aggiungono affanno e tremore, il petto comincia a far male e le forze residue stanno per abbandonarlo.
Prima di stramazzare di nuovo a terra, lentamente e intenzionalmente, si adagia sul pavimento.

La paura si è trasformata in terrore!
Vorrebbe gridare ma non riesce neppure a respirare. Gli sembra che tutto si allontani; ogni cosa, ogni oggetto, come se stesse precipitando. Chiude gli occhi per non guardare e ascolta il rumore del suo cuore impazzito.

Poi sente un altro rumore: sono passi provenienti dal corridoio.
Riapre gli occhi e vede spuntare sulla porta una donna enorme, avvolta da un’enorme vestaglia bianca.

«Therese, sei tu? Aiutami ad alzarmi, ero venuto in bagno a pisciare e devo aver avuto il mio solito attacco di panico… Penso di essere svenuto, ma ora sto meglio, credo…» si affretta a spiegare Joshua.
Ma la moglie non si muove, rimane sulla porta davanti a lui.
Allora Joshua, spazientito, la guarda ed esclama: «Anche se sei morta, dato che ti sei alzata dal letto, potresti pure darmi una mano!»
«Vorrei farti presente, caro Joshua, che sei morto anche tu!» risponde lei con aria di rimprovero, «Mentre quello stava per farci a pezzi, sei svenuto dalla paura e mi hai lasciata da sola! Smettila di far finta di essere vivo! Vai a raccogliere l’intestino che hai sparso in cucina e torna con me a letto! Ora l’unica cosa da fare è continuare a dormire… per sempre!»

Cipolline al sangue

“Troppo zucchero in queste cipolline…” pensavo mentre le pescavo assieme ai pezzi di pomodoro e insalata. Fortuna che avevo a portata di mano del Barbera, fresco e secco al punto giusto. Quel tanto che bastava per spegnere la sgradevole sensazione di dolce quando invece ti aspetti un cibo salato.
Avevo fame, e le cipolline agrodolci all’aceto balsamico, troppo dolci e poco agre, non mi evitarono di vuotare l’intera terrina. Merito dei bicchieri di Barbera che m’aiutarono ad affogare quel sapore dolciastro rimasto nel palato. O forse fu proprio colpa del vino se, mentre mangiavo, mi dimenticai completamente di fare quella telefonata!

Passò un’ora poi squillò il cellulare. Dormivo seduto scomodamente, piegato in avanti con la faccia buttata dentro le braccia incrociate sulla tavola. Mi raddrizzai, come investito da una scossa elettrica, e afferrai il cellulare.
«Pronto»
«Dovevi chiamare un’ora fa», la voce era seccata.
«Cazzo è vero! Sono proprio uno stronzo. Scusa Boss» dissi.
Non avevo scuse, l’unica cosa che avrei dovuto fare era quella telefonata, nient’altro.
La voce continuò: «Ascolta. Ora dovrai rimediare andandoci di persona… E stavolta fai quello che ti ho detto, Non obbligarmi a venirti a cercare»
«T’assicuro che non volevo…», sentii riagganciare. Rimasi a fissare i rimasugli del mio pranzo e la bottiglia vuota di Barbera. «Fanculo!»
Mi alzai di scatto e andai a prendere la pistola, erano passati mesi dall’ultima volta che avevo dovuto usarla, controllai il caricatore, armai il carrello e misi la sicura. Mentre l’infilavo in tasca sperai intimamente che tutto ciò si rivelasse una precauzione eccessiva.
Indossai la giacca e uscii. Fuori il tempo era di merda come la situazione in cui m’ero cacciato. Ma ormai ero in ballo e dovevo andare fino in fondo. Quel giorno, se non fossi stato io il guaio di qualcuno, i guai sarebbero venuti a cercare me.
Sarebbe bastato telefonare all’ora stabilita e la mia parte sarebbe finita lì, invece avevo voluto fare il coglione ubriacandomi per colpa di una manciata di cipolline… Cazzo!

Il luogo era a cinque isolati dal mio palazzo e dovetti andarci in macchina. Guidavo stando attento a non beccare la polizia, non avevo nessuna voglia di finire nei guai quel giorno.
Non ho mai avuto un buon rapporto con gli sbirri. Si potrebbe dire che, di tutte le botte che ho preso in vita mia, molte ne avevo ricevute da solerti e permalosi agenti di polizia che non gradivano la mia vivace eloquenza riguardo a opinioni e commenti sulle abitudini delle loro mogli. Del resto, se per loro io ero un figlio di puttana, perché mai non dovevano accettare il fatto d’esser cornuti?
Ripeto, contrariamente a ciò che si dice sul mio conto, non sono mai stato un attaccabrighe, giuro. E chi ha sostenuto il contrario è un bugiardo in malafede!

Erano due anni che rigavo dritto.
Dieci anni di gattabuia mi son fatto per quella rissa col morto. E non l’ho nemmeno iniziata io…
Quello aveva tirato fuori un coltello ed io mi ero solo difeso. Se mi facevo accoppare si sarebbero tutti dispiaciuti per me. “Povera vittima” avrebbero detto, e intanto stavo due metri sottoterra!
Non era bastato prendergli il coltello, quello era fuori di testa e aveva afferrato un piede di porco con tutta l’intenzione di fracassarmi il cranio. Non era bastato nemmeno il grappolo di cazzotti in faccia che gli avevo tirato, niente, continuava ad avanzare schiumando sangue dalla bocca e roteando quella spranga su di me. Bestemmiava come un posseduto e mi fissava con gli occhi iniettati di sangue.
Poi il suo sguardo cambiò di colpo: dalla ferocia passò allo stupore. Si guardò il petto e vide il manico del suo coltello che spuntava, la lama no perché ce l’aveva piantata tutta dentro. Mi pare che stesse per dire qualcosa ma non fece in tempo, stramazzò a terra stecchito col cuore spaccato in due.
Anch’io non riuscii a dire nulla, forse ero stupito quanto lui, e di quel che successe immediatamente dopo ho un ricordo vago. Però ricordo molto bene l’arringa efficacissima dell’accusa qualche tempo dopo, al processo, e ricordo pure gli sguardi di disprezzo dei giurati puntati sul sottoscritto.
Confesso che, dopo dieci anni di galera scontati per intero, non sono affatto pentito d’aver cercato di salvarmi la pelle restituendogli il coltello in quel modo. Ciò che invece, da quella volta in poi, ho evitato come la peste è di scoparmi una donna sposata e vantarmene con uno sconosciuto incontrato in un pub senza prima essermi accertato che non si tratti del marito.

Fatto il primo incrocio, cominciò a piovere, ma a piovere di brutto!
La Pontiac scassatissima che mi aveva passato Boss, il mio capo, batteva in testa e, soprattutto, aveva il tergicristalli che funzionava a rilento. Sul parabrezza cadevano gocce che sembravano gavettoni e non si vedeva quasi nulla, tanto che mi misi a guidare a passo d’uomo.
Odiavo dover andare piano e il mio umore ne risentì parecchio, sbattevo i pugni sul volante e imprecavo contro quella dannata pioggia, ma alla fine arrivai all’indirizzo e fermai la macchina.
Restai in macchina per un po’ ad aspettare che l’acquazzone si placasse, così ne approfittai per ripassare la mia parte. Il tizio non mi aveva mai visto in faccia, quindi avrei dovuto presentarmi e spiegargli la faccenda. La prima volta, di solito, non serve far troppa paura, basta parlar chiaro e quasi sempre il tizio comprende la situazione e capisce che è meglio sganciare.
L’unica cosa che mi disturbava era che quel giorno non toccava a me fare il giro. Boss m’aveva detto di chiamare Grumo e dargli la dritta, perché quel giorno il giro avrebbe dovuto farlo lui.
Ma invece di chiamarlo m’ero messo a dormire e m’ero sognato di vomitare quelle cipolline di merda. Colpa di tutto quel vino che avevo bevuto naturalmente. E adesso avevo fatto incazzare Boss e per rimediare dovevo sbrigarmela da solo!
Boss era un buon capo, ma se facevi una cazzata, prima o poi, te la faceva pagare. Quel giorno la cazzata la feci io, quindi dovetti solo sperare di non pagarla troppo cara.

Dopotutto il lavoro non mi dispiaceva e, appena uscito di galera, Boss fu l’unico a darmi una possibilità mettendomi sul suo libro paga. Poi, delle tante attività di cui si occupava, la più onesta di tutte era certamente quella di allibratore e prestasoldi. Il mio ruolo era quello di addetto alla riscossione, e lo dividevo appunto con Grumo.
Grumo non era di certo un tipo particolarmente arguto, ma aveva un pugno assai pesante e quando serviva essere convincenti Boss voleva lui. Sapevo che questo era uno di quei casi.
Quel pomeriggio dovevo avvisarlo al posto del capo perché Boss era impegnato in una riunione importante. Dovevo dirgli dove andare a riscuotere, solo questo.

Tuttavia era inutile rimuginare oltre, la pioggia aveva perso intensità e uscii dalla Pontiac. Il luogo era deserto, non c’era nessuno in giro e in tutta la via c’era soltanto una Buick verde scuro parcheggiata proprio davanti a quella casa.
Attraversai la strada. Il posto era in una zona isolata di periferia e la casa, vista da fuori, sembrava una vera e propria catapecchia.
“Questo, tremila dollari non ce li ha di sicuro” pensai mentre mi dirigevo di corsa alla porta cercando di bagnarmi il meno possibile.
Quel giorno non avevo voglia di pestare nessuno, mi sentivo buono, ma sapevo anche che probabilmente non avrei avuto scelta, e la cosa mi metteva di malumore. Del resto il malumore poteva darmi un buon motivo per voler menare le mani. Sapevo che comunque fosse andata era solo lavoro, io ero pronto.

Quando fui davanti all’ingresso, m’accorsi che la porta era socchiusa. La spalancai del tutto ed entrai, la luce era accesa.
«Ehilà! È permesso?» dissi a voce alta. Nessuno rispose, così mi guardai attorno.
Se da fuori la casa sembrava un rudere, dentro era anche peggio: sporcizia e disordine dappertutto, pochi mobili disposti un po’ a caso, miseri e mezzi rotti, poi scatoloni accatastati e cianfrusaglie di ogni genere. Le luci al neon accese e l’assenza totale di finestre davano a tutto l’ambiente un’atmosfera insolita, claustrofobica, quasi irreale.
Ero sempre più convinto che sarebbe stato complicato incassare tremila dollari dal proprietario di quel posto.
«C’è nessuno in casa?» chiamai di nuovo. Più che una casa pareva il magazzino abbandonato di un rigattiere. Mi venne anche il sospetto che l’indirizzo non fosse quello giusto.
Ridiedi un’occhiata al foglietto che m’aveva dato Boss qualche giorno prima ed ebbi la conferma che la casa fosse proprio quella.
Però non c’era nessuno.
Forse il tizio, sapendo del mio arrivo, se l’era svignata. Pensai che quasi sicuramente fosse andata così.
Ma ormai ero lì, così decisi che sarebbe stato conveniente dare un’occhiata in giro, casomai si fosse solo nascosto sperando che me ne andassi. Se dopo la mia dormita pomeridiana fossi anche tornato da Boss a mani vuote come un fesso, di certo per me non sarebbe finita bene.

Ero entrato da nemmeno cinque minuti e già avrei voluto girare i tacchi e andarmene via. Mi trovavo in un corridoio che dall’ingresso terminava in una stretta scala col corrimano mezzo staccato e penzolante. Sulla destra tre porte spalancate collegavano il corridoio agli altri locali del pianterreno. Malgrado l’accumulo di cartoni e rottami, l’appartamento dava l’aria d’essere abbastanza ampio. Pensai subito che non sarebbe stato facile scovare un tizio nascosto là dentro, sempre che ci fosse stato qualcuno da scovare.
In più, qualora l’avessi trovato, era chiaro che avrei dovuto ricorrere alle maniere forti per convincerlo che non era più il caso di giocare a nascondino. Perciò dissi definitivamente addio ai miei propositi di pace.

Entrai in una stanza che doveva essere la cucina, anche se per cucinare c’era solo un piccolo fornello a gas sistemato in un angolo e seminascosto da una fila di cassette di legno e scatole di cartone. Al centro della cucina stava un tavolone su cui erano ammucchiati svariati attrezzi da manovale, poi, sparse un po’ dappertutto, diverse sedie impilabili, alcune di esse rovesciate.
Mi venne voglia di fumare. Presi il pacchetto di Winfield rosse che tenevo nel taschino della giacca, vi sfilai una sigaretta e me l’accesi. Quindi afferrai una sedia capovolta ai miei piedi per sedermi. Proprio nel farlo m’accorsi che sul pavimento c’erano diverse gocce, erano rosse, era sangue.
La sporcizia sul pavimento era tanta, e questo, in qualche modo, non mi aveva subito fatto notare quelle gocce. Ora però le avevo viste, e notai che ce n’erano parecchie e formavano un tracciato preciso che dal centro della cucina proseguiva nel corridoio. Anche se la cosa non mi piacque granché, non mi rimase altro da fare che seguire quelle tracce.
Al momento non riuscivo a farmi nessuna idea. Magari il tizio s’era ferito maneggiando qualcuno di quegli attrezzi sparsi sul tavolo. Magari era andato da qualche parte a farsi medicare. E magari, da qualche parte in quell’appartamento, aveva lasciato la busta con dentro i soldi che doveva a Boss. Magari sì e magari no.
Le gocce di sangue mi condussero fino alla rampa di scale che collegava il pian terreno al primo piano e al seminterrato. Vidi chiaramente che le gocce proseguivano lungo i gradini che portavano al piano superiore e mi decisi a salire. La frequenza delle gocce mi fece intuire che la ferita doveva essere una cosa seria. E mi chiesi pure come mai durante lo spostamento il tizio non l’avesse fasciata o comunque tamponata per evitare tutta quella perdita di sangue.
La verità era che non m’importava proprio nulla di cosa fosse successo. Se anche l’avessi trovato dissanguato e agonizzante l’unica cosa che contava era farmi dare quei cazzo di tremila dollari, poi poteva pure crepare per quel che mi riguardava. Il mio lavoro era quello, se avessi voluto aiutare il prossimo avrei fatto altro.

Giunsi in cima alle scale e mi trovai su un pianerottolo con due porte chiuse, le osservai e notai chiaramente che una di esse aveva la maniglia tutta insanguinata. Presi il fazzoletto dalla tasca, avvolsi la maniglia, aprii la porta ed entrai.
La stanza era buia, non si vedeva nulla, tastai con la mano in cerca dell’interruttore della luce che doveva trovarsi sulla parete di lato, lo trovai e l’accesi.
Quando la luce illuminò la stanza mi cadde la sigaretta dalla bocca.
Posso dire che in vita mia ne avevo viste di tutti i colori, ma quella volta il colore prevalente fu decisamente il rosso. Rosso sangue!
C’era un uomo riverso in un lago di sangue, era a faccia in giù e pensai subito che fosse il tizio dell’appartamento. Mi avvicinai, il tipo era decisamente morto. Aveva parecchi buchi sulla schiena, erano ferite da coltello, da esperto qual ero le riconobbi subito.
Mi chinai e lo girai per potergli vedere la faccia.
«Cazzo!» esclamai. Fu l’unica cosa che riuscii a dire prima di alzarmi di scatto e affrettarmi ad afferrare la pistola che avevo nella tasca dei pantaloni. Controllai che ci fosse il colpo in canna e tolsi la sicura, «Cazzo, cazzo, cazzo!» continuai a ripetere.
Potevo correre fuori da quel cesso di posto e salire sulla Pontiac per andare il più lontano possibile. Potevo prendere il cellulare e chiamare Boss per avvertirlo della piega che aveva preso tutta la faccenda. Potevo coprirmi le spalle con la mia Spartan calibro 45 e inveire e minacciare qualcuno che nemmeno vedevo.
L’uomo che era stato usato come un puntaspilli era Grumo!
Ma perché si trovava lì? Non doveva essere lì!
O meglio, sarebbe dovuto essere in quel posto se io gli avessi telefonato quando dovevo farlo, e in quel caso sarei stato io a non esser lì.
Quindi cos’era successo? C’era qualcosa che mi sfuggiva.
Imprecai in silenzio, mentre guardavo la strana smorfia di dolore impressa sulla faccia morta di Grumo. Grumo aveva un caratteraccio, era uno che menava duro ed era pure un po’ suonato. Ma era anche un tipo leale e per questo lo rispettavo. Quando doveva spezzare una gamba la spezzava senza pensarci due volte, però non ci provava nessun gusto, per lui era soltanto lavoro come per me. Sapevamo entrambi che potevamo pure fare una brutta fine prima o poi, erano gli incerti del mestiere. Certo non m’aspettavo di vederlo ridotto in quel modo, proprio per niente.
Cominciai a provare una gran rabbia.
«Dove sei bastardo?» esclamai. Mi convinsi che il pezzo di merda che aveva ammazzato Grumo fosse ancora lì, nascosto da qualche parte.
E chi poteva essere se non il tizio dei tremila dollari?
Dovevo trovarlo, e stavolta il debito che aveva con Boss era l’ultimo dei suoi problemi. Stavolta il debito ce l’aveva con me, e me l’avrebbe pagato con la sua pelle.

Iniziai a guardare ogni angolo della stanza senza sapere nemmeno di preciso cosa o chi cercare. Vidi il revolver di Grumo per terra di fianco al corpo e lo raccolsi, era insanguinato come tutto il resto e col fazzoletto lo ripulii alla meglio. Nel tamburo i proiettili c’erano ancora tutti, non aveva fatto in tempo a sparare nemmeno un colpo. Infilai il revolver nella tasca della giacca. Tutt’attorno c’era solo sangue, ce n’era sul pavimento e pure sulle pareti. Macchie, impronte e schizzi di sangue.
“Ma che cazzo è successo?” mi ripetevo, “È tutto di Grumo questo sangue? Possibile?”
Cominciai a sentirne l’odore e dovetti uscire dalla stanza per non vomitare.
Non mi aveva mai dato fastidio la vista del sangue, col mestiere che facevo sarebbe stato un bel problema, ma l’odore proprio non lo sopportavo. Da bambino accompagnavo mia nonna a fare la spesa, ma quando toccava entrare in macelleria per me era una sofferenza. I tranci di carne, le interiora esposte sul bancone e gli animali squartati e appesi ai ganci m’affascinavano. La cosa che mi opprimeva era il puzzo rancido: quel tremendo e soffocante odore di sangue stantio.

Ero appena uscito sul pianerottolo in cima alle scale quando mi suonò il cellulare. Lo estrassi dalla tasca e risposi. «Pronto», sul display non lessi nessun nome.
Rispose la voce del capo: «Roman»
«Boss»
«Sei arrivato dal tizio?»
«Sì»
«Quando hai finito lì, devi andare in un posto, sempre da quelle parti, per un’altra faccenda. Ho mandato Grumo lì a prenderti. Ti accompagnerà lui e ti spiegherà i dettagli…»
«Boss»
«Sì?»
«Quando sono arrivato, Grumo era già qua»
«E allora? Li ha incassati lui i soldi?»
«Boss, quando sono entrato in casa del tizio ho trovato Grumo in un lago di sangue… morto stecchito!»
«Morto? E il tizio?»
«Non l’ho trovato. Lo sto cercando, dev’essere ancora qui in casa, nascosto da qualche parte»
Boss rimase in silenzio, nemmeno io dissi niente, sapevo che stava pensando. Finalmente parlò: «Trovalo e ammazzalo. Poi fai sparire entrambi i corpi, mi raccomando. Quando hai finito vieni da me e mi racconti ogni cosa»
«Per i soldi?»
«Te li fai dare, trova tu il modo, poi l’ammazzi!»
«Ok Boss» dissi alla fine. Boss riattaccò, e comunque adesso, se non altro, sapevo cosa dovevo fare.

Entrai nella stanza a fianco, ero armato e incazzato. Avevo in mano una calibro 45 carica e stavolta non vedevo l’ora di usarla. Volevo trovarlo il tizio e, prima di poggiargli la canna sulla fronte e fargli saltare la testa, volevo guardarlo in faccia e chiedergli cosa cazzo aveva creduto di fare.
Trovare chi era stato capace di massacrare Grumo in quel modo, avendo infierito con decine e decine di coltellate, significava avere di fronte uno degno di fare la peggior fine. Quindi nessuna pietà.
Anche la seconda stanza era al buio, accesi la luce e rimasi di nuovo a bocca aperta. La scena era pressoché la stessa: sangue dappertutto! La differenza stava nel fatto che non c’era nessun cadavere.
Lì dentro l’odore del sangue era ancora più forte, così dovetti uscire immediatamente: stavolta rischiavo di vomitare sul serio.
M’appoggiai alla balaustra delle scale, ebbi un conato ma riuscii a ricacciare indietro i succhi gastrici. Mi bruciava la gola, ma non volevo dare nessuna soddisfazione al tizio nascosto da qualche parte, magari mi stava osservando. La rabbia era più forte dello schifo che provavo.
«Per non pagare tremila micragnosissimi dollari hai ammazzato il mio amico? Mi sa che hai fatto un vero sbaglio, Steven Corvino! Ti chiami così giusto? Comunque sono disposto a sentire cos’hai da dire. Vieni fuori e parliamone!» dissi ad alta voce. “Col cazzo! Prima ti faccio tirar fuori i soldi e poi ti scanno come un maiale!” pensavo in realtà.
Scesi le scale. Al primo piano, a parte il cadavere di Grumo e una quantità industriale di sangue, non c’era nient’altro. Quando fui di nuovo al pianterreno c’erano ancora due stanze da controllare, e pure il seminterrato.

Comunque, i conti non mi tornavano: era impossibile che tutto quel sangue appartenesse soltanto ad un corpo. Grumo era grande e grosso, ma non poteva aver inzaccherato completamente di sangue due ambienti grandi come quelli. Era pazzesco!
Poi mi venne in mente che, quando ero arrivato lì, avevo trovato la porta d’ingresso aperta. Iniziai a pensare che era improbabile che chi aveva provocato tutto quel macello non se ne fosse andato. Chi sarebbe tanto imbecille da restare e aspettare d’essere scoperto?
In quel momento, suonò di nuovo il cellulare.
«Sì Boss?»
«Roman, sei sempre in quella casa?»
«Sì. Lo sto ancora cercando, ma credo che se ne sia andato»
«Roman, ascolta bene! Ora alzi i tacchi e te ne vai da lì immediatamente!»
«Perché Boss? E Grumo?»
«Lascia perdere Grumo! Vattene da lì ti dico!»
«Ma…»
«Ascolta, è appena stato qui Mr. Corvino. Mi ha portato i tremila dollari di persona scusandosi per il ritardo. L’indirizzo che avevamo era sbagliato! Non ho proprio idea di che posto sia quello in cui ti trovi, perciò ora te ne vai via da lì! È chiaro?»
«Ok, chiaro!», sospirai, poi riposi il cellulare in tasca.
Ero frastornato. La mia testa cominciò a riempirsi di domande: In che razza di posto ero finito? Chi diavolo era stato ad accoppare il mio socio? E perché poi? In sostanza cosa cazzo era davvero successo lì dentro prima del mio arrivo?
Domande che probabilmente erano destinate a restare irrisolte, almeno per il momento.
Riflettei un attimo e conclusi che se mai ci fosse stato un ordine di Boss che avrei seguito molto volentieri, ebbene, quello di tagliare la corda lo era sicuramente!
«Fanculo a questo posto!» sussurrai mentre m’avviavo in tutta fretta verso l’uscita.

Arrivai alla porta d’ingresso e la trovai chiusa.
Non ricordavo di averla chiusa quando ero entrato, ma non ci feci caso finché non girai la maniglia per aprirla. La porta era chiusa a chiave.
Ebbi subito una sgradevole sensazione: la sensazione d’esser finito in trappola.
Ero bloccato all’interno di quella casa, con il cadavere dissanguato del mio socio al primo piano e il fastidioso sospetto che qualcuno si stesse divertendo a giocare al gatto e al topo col sottoscritto.
Sentii un rumore provenire dalle stanze che non avevo ancora controllato.
«Ok adesso basta! Esci fuori chiunque tu sia!» gridai. La rabbia aveva ceduto il passo all’incertezza. Incertezza che in breve tempo avrebbe significato timore di fare la stessa fine di Grumo.
Non era la prima volta che il mio lavoro m’aveva procurato una certa strizza. Ma quel giorno fu diverso. Era tutto molto strano, quasi assurdo.
Spesso avevo avuto a che fare con avversari più grossi di me, tipi veramente cattivi e con le peggiori intenzioni. Ma alla fine ero sempre riuscito a cavarmela, più o meno.
Questa volta sentivo che la situazione era diversa. Mi trovavo in balìa di qualcosa di molto più grande di me, qualcosa di ignoto che non potevo controllare. E questo mi fece agitare.
«Vieni fuori stronzo! Dai finiamola qui. Fatti vedere!» continuai a gridare.
Per quanto sbraitassi, nessuno rispose e tantomeno comparve. Non che m’aspettassi che succedesse qualcosa del genere, sapevo che sarei dovuto andare a stanarlo io. Probabilmente sentire il suono della mia voce mi dava coraggio, ecco tutto.

La paura può avere due effetti: o diventi aggressivo o ti abbandoni alla più completa sottomissione.
La mia reazione fu di affrontare la cosa di petto. Forse, se non avessi iniziato a temere seriamente per la mia pelle, magari sarei stato meno avventato. O forse no.
La verità è che stavo iniziando ad avere una paura fottuta. E la cosa m’infastidiva e m’innervosiva.

Nella pistola avevo otto colpi più uno in canna, e avevo un caricatore in tasca con altri otto colpi. Poi avevo pure il revolver di Grumo con sei proiettili calibro 357 magnum. Pensai che se lo stronzo fosse sbucato fuori per saltarmi addosso l’avrei ridotto a un colabrodo. Ripresi coraggio e mi diressi verso l’ala dell’appartamento che non avevo ancora guardato.
Cercai di restare calmo e lucido, vista la situazione fu veramente difficile ma ci provai. Dovevo allertare tutti i sensi, ogni piccolo rumore e ogni minimo movimento percepiti con un attimo di ritardo potevano risultare fatali.
Poi mi venne un altro dubbio: e se di stronzi in agguato ce ne fossero stati più di uno? Mi bloccai su quella domanda, poi, quasi subito, mi convinsi che così non poteva essere.
Conclusi che se fossero stati più di uno, sarebbero già usciti fuori per fottermi. Doveva essere da solo, e non usciva allo scoperto perché aveva più strizza di me. Era l’unica spiegazione.

Attigua alla porta della cucina c’era un’altra porta che dava a una stanza lunga e stretta, doveva essere una specie di ripostiglio. Avanzai lentamente e controllai ogni angolo del locale.
Tenevo la pistola vicina al petto con la canna puntata in avanti, avevo il dito sul grilletto pronto a sparare all’istante. Lì dentro c’era di tutto: sacchi, cartoni, cassette, stracci, rottami. Ma soprattutto sacchi, sacchi di soda caustica in granuli.

«Grumo non s’aspettava la tua accoglienza, è per questo che sei riuscito a fotterlo. Con me sarà diverso, credimi, stavolta sarai tu a crepare!» dissi ad alta voce, convinto che il tizio mi stesse ascoltando nascosto lì vicino. Tentavo di provocarlo, speravo in una sua reazione, un suo passo falso. Ormai era una guerra di nervi, io e lui.
Il problema era che oltre a me sembrava non esserci proprio nessun altro.
Trovarlo e accopparlo era l’unica soluzione: avrei vendicato Grumo ed eliminato una minaccia mortale per me stesso, inoltre ero sicuro che avesse con sé le chiavi della porta d’ingresso. Quella dannata porta era blindata e tentare di sfondarla era da escludere. Perciò non avevo altra scelta.
Trovarlo e accopparlo era senza dubbio l’unico modo per andarmene da quel posto di merda.

Uscii dal ripostiglio, era rimasta l’ultima stanza. Entrai, lo vidi e sparai immediatamente!
Due colpi secchi dritti in faccia. E lo specchio sulla parete di fronte andò in mille pezzi. Avevo centrato la mia immagine riflessa.
«Fanculo!» bisbigliai, più che mai in preda all’agitazione.
Quello era il bagno e del tizio non c’era traccia. Provai a calmarmi. Prima d’uscire guardai distrattamente la vasca da bagno e notai qualcosa che m’incuriosì. M’avvicinai e osservai il fondo della vasca, c’era una poltiglia scura che emanava un forte odore di candeggina o peggio. Poi guardai meglio…
Ciò che vidi mi fece quasi cadere all’indietro.
«Cristo santo!» esclamai, «Ma che… che posto è questo?»
Dalla poltiglia emergeva quel poco che restava di un piede umano. Probabilmente la poltiglia era tutto ciò che rimaneva di un uomo.

«Quindi ti diverti a sciogliere i tuoi ospiti. È a questo che ti serve tutta quella soda che tieni nel ripostiglio» gridai, «Volevi fare la stessa cosa con Grumo e me?»
Mi sforzai in una rumorosa risata, tanto rumorosa quanto falsa. Volevo sembrare tutt’altro che turbato, in realtà lo ero più di quanto non fossi mai stato. Quel posto aveva tutta l’aria d’essere il covo di un maniaco, ed io mi sentivo sempre più come un agnello capitato nella tana di un lupo.
“Un agnello molto incazzato con una calibro 45 pronta a sparare” mi dissi per riguadagnare coraggio. A proposito della pistola: la tenevo così stretta e così da tanto che non sentivo più le dita. Dovetti passarla nell’altra mano, anche se questo mi tolse un po’ di sicurezza.
Ora mi trovavo di nuovo nel corridoio, aprivo e chiudevo le dita della mano buona per riattivare la circolazione. Era evidente che al pianterreno oltre a me non c’era nessuno.
Rimaneva il seminterrato.

Impugnai la pistola di nuovo con la mano destra e scesi le scale.
«Eccomi, sto arrivando. Sei al capolinea stronzo!» gridai.
Mentre scendevo subito avvertii uno strano odore, come di cavoli marci. In realtà di strano non aveva nulla, conoscevo bene quell’odore: era puzza di cadavere.
Più scendevo più la puzza aumentava.
Arrivai in fondo alla scala dove trovai una piccola anticamera illuminata anch’essa da un neon. L’aria era quasi irrespirabile e dovetti tapparmi il naso col fazzoletto.
Respiravo a fatica. M’aggiustai il calcio della pistola nel palmo in modo da sentirla un tutt’uno con la mano e m’accorsi che, nonostante stessi sudando, avevo le dita gelide.
Davanti a me c’era una porta socchiusa.
Avevo i nervi a fior di pelle. Puntavo la Spartan verso la porta, la mano destra mi tremava, così cercai di mantenere l’arma ferma usando anche l’altra mano. Ero pronto a sparare, qualunque cosa avessi visto muoversi l’avrei riempita di piombo.
Spalancai la porta con un calcio. La stanza era avvolta dall’oscurità.
«Sono arrivato! Fatti vedere figlio di puttana!» gridai.
Quasi senza volere mi partirono due colpi. Il rumore degli spari rimbombò nel seminterrato lasciando intuire un grande spazio vuoto oltre il buio della stanza.

Ero sulla porta ma l’oscurità che avevo davanti a me mi bloccava. Guardai l’unico pannello che stava sulla parete dell’anticamera: c’erano numerosi interruttori, erano tutti posizionati sull’on mentre uno solo era sull’off.
Lo girai e subito, nella stanza buia, si accesero una dopo l’altra diverse luci al neon poste sul soffitto.
Un fremito scosse tutto il mio corpo fino alle ossa, pensai d’essere capitato all’inferno.

La stanza era ampia e tutta rivestita di piastrelle bianche, al centro c’erano due lunghi tavoloni fatti completamente d’acciaio come il resto degli arredi: diversi scaffali, un cassettone e probabilmente due congelatori.
Sul soffitto, oltre ai neon, era installato un grosso argano elettrico che scorreva su una guida d’acciaio che ricopriva il locale per tutta la sua lunghezza. Dall’argano pendevano tre robuste catene che terminavano con altrettanti ganci. Sugli scaffali erano allineati numerosi contenitori di vetro, mentre sul ripiano del cassettone erano sparsi, mescolati tutti assieme, strumenti da chirurgo e arnesi da macellaio.
Il tutto condito di cadaveri e pezzi di cadaveri!

La prima cosa che feci fu di vomitare. Non cercai di trattenermi, rigettai tutto ciò che avevo nello stomaco, comprese quelle maledette cipolline. Quando mi fui svuotato completamente mi sentii anche peggio: le gambe mi tremavano ed ero in preda al terrore.
Disgusto, angoscia e smarrimento. Non riuscivo più a fingere nessuna sicurezza, non riuscii a dire niente.
Camminavo in quella che poteva assomigliare a una specie di sala operatoria, oppure al retrobottega di una macelleria. In realtà quel posto era semplicemente una camera degli orrori.
Ovunque mi girassi vedevo cose indicibili: ai ganci delle catene erano infilzati tre corpi nudi squartati e privati della testa, due di essi erano maschi mentre il terzo era di una donna. Alla mia sinistra, sistemati l’uno sull’altro, due grandi sacchi neri da cui fuoriuscivano rivoli di liquame scuro. Erano proprio quei sacchi la principale fonte di quella puzza tremenda. Nei contenitori di vetro sopra gli scaffali si distinguevano delle mani, dei cervelli e dei membri maschili, tutti immersi in un liquido giallo, probabilmente formaldeide. Sui tavoli, infine, altri due cadaveri distesi, uno dei quali era stato dissezionato e poi ricomposto. L’unica parte mancante era la testa.
L’altro cadavere sembrava tutto intero, un telo ripiegato gli copriva la faccia…

Alla fine, a parte tutto quello scempio, l’unica cosa evidente fu che del maniaco non c’era traccia nemmeno lì, e in qualche modo ne fui sollevato. Anche se, dopo quello che avevo visto, la cosa non poté bastare a rendermi tranquillo.
In verità non ero più in grado di controllare la mia paura. Entrare in quel posto aveva demolito ogni mia residua sicurezza, avvertivo che l’essere armato non era più sufficiente.
Se fossi riuscito a fuggire da lì, me ne sarei andato il più lontano possibile, avrei cambiato città e mestiere.
Fanculo Boss e fanculo il recupero crediti. Avrei fatto finalmente un lavoro onesto, dove non avrei dovuto picchiare più nessuno.
Boss. L’unica cosa che mi restava da fare era chiamarlo e chiedergli aiuto, non avrei voluto ma era l’unica cosa da fare.
Estrassi il cellulare dalla tasca e…
All’improvviso sentii un rumore dietro di me. Mi voltai di scatto e feci per sparare ma mi bloccai subito.

Un gatto sbucato dal nulla faceva le fusa e annusava la chiazza di liquame nauseabondo che colava dai sacchi. Era un gattone nero bello grosso, aveva due grandi occhi gialli, spalancati con le pupille ridotte a due linee sottilissime. Mi fissava senza apparente timore.
Mi chinai e allungai una mano per accarezzarlo, lui non si ritrasse e mentre gli grattavo la testa aumentò le fusa. I gatti erano la mia passione e vederne uno, in qualche modo, mi fece rilassare.

Ero alle prese col micio quando avvertii un altro rumore alle mie spalle, un fruscìo quasi impercettibile.
Quasi immediatamente provai una specie di scossa elettrica su un fianco e subito una serie di fitte lancinanti alla schiena. Mi girai su me stesso e sparai all’impazzata.
Cinque colpi senza colpire nessuno e svuotai il caricatore. Dovevo recuperare l’altro caricatore che avevo in tasca ma non avevo più forza nelle braccia. Mi cadde la pistola, avevo la vista annebbiata e mi girava la testa. La stanza oscillava e facevo sempre più fatica a respirare.
Mi toccai la schiena col dorso della mano, stranamente non sentivo quasi nessun dolore. Però m’accorsi che ero tutto bagnato, guardai la mano: era lorda di sangue. Poi guardai in basso: c’erano gocce di sangue.
Ai miei piedi c’era già una piccola pozza di sangue, e stavolta il sangue era mio.

Mi vennero in mente tutte le gocce di sangue che mi avevano condotto da Grumo. “Ora tocca a me” pensai.
Ero sempre più debole, talmente debole che mi reggevo in piedi a malapena. Lentamente m’accorsi di non tremare più, mi dimenticai persino di avere paura. Per non stramazzare a terra, m’appoggiai ad uno dei due tavoloni con sopra i cadaveri, e mi resi conto che su quel tavolo il cadavere non c’era più.
Era quello col telo sulla faccia, ma non c’era più.

Mi venne da ridere, e stavolta non fu per finta. «Bastardo figlio di puttana m’hai fregato. Sei stato in gamba!» sussurrai col poco fiato che m’era rimasto.

Un uomo completamente nudo era dritto in piedi davanti a me, aveva in braccio il gatto e lo stava accarezzando. Io avevo la vista sempre più annebbiata e non riuscii a distinguere i tratti del suo volto.
«Il micio e tuo? Anch’io amo i gatti…» fu l’ultima cazzata che riuscii a dire prima di stramazzare a terra.

I pensieri s’affievolivano come il respiro e ogni altra cosa.
In bocca m’era rimasto il gusto delle cipolline e del sangue. Cipolline al sangue. “Che schifo di pranzo. L’avessi saputo che era l’ultimo, mi sarei scelto qualcosa di meglio” pensai.

Poi, la luce al neon si spense per sempre.

La tana di Cloe

Primo giorno
Quel pomeriggio il parco era quasi deserto. Forse il maltempo e una pioggia imminente avevano convinto i più a starsene a casa propria, magari belli comodi sul divano a leggersi un libro e a sorseggiare una tazza di tè; praticamente quello che avrei fatto io di lì a poco, appena fossi arrivato a casa.
Già immaginavo una bella doccia calda, sarei rimasto sotto l’acqua per almeno mezz’ora. Il calore mi avrebbe ammorbidito i muscoli e pure i pensieri.
Stavo correndo da un’ora e dieci, il cardiofrequenzimetro segnava centotrentacinque battiti e pensai fosse buono. Dopo quasi diciotto chilometri dei venti previsti non mi sentivo affatto stanco, la respirazione era regolare e le gambe rispondevano ancora bene. Il dolorino alla caviglia, che mi aveva afflitto dopo la gara del mese prima e che mi aveva costretto a due settimane di riposo, ormai era solo un ricordo ed ero tornato al mio standard di allenamento di sempre: i miei soliti, benedetti quattro minuti al chilometro erano fissati nel display del cronometro, da lì non ero mai riuscito a scendere, non nelle maratone almeno.
Alla fine potevo ritenermi soddisfatto, a quarantacinque anni avevo ancora il cuore di un ragazzino. E se fossi riuscito ad arrivare a casa prima che iniziasse a piovere sarebbe stato tutto perfetto.
Ancora un paio di chilometri.
Mantenendo il ritmo costante, in non più di dieci minuti sarei stato sotto la doccia a far pace col mio acido lattico. Percorrevo l’ultimo rettilineo del viale d’accesso al parco, con la mente che era già arrivata a casa, e quasi non mi accorsi di una sagoma scura che mi tagliò la strada facendomi inciampare e andandosi a riparare dietro una siepe. Evitai d’istinto di cadere e mi fermai. Ormai, per inerzia, le gambe mi avrebbero portato fino a casa anche da sole, ma la curiosità prevalse e volli vedere la creatura che era sbucata dal nulla e che avevo rischiato di travolgere.
Era sicuramente un cane, era evidente, ma fu così fulmineo che non ebbi il tempo di capire come fosse fatto. Sapevo soltanto che si era nascosto dietro quella siepe e che lì era rimasto.
Mi avvicinai con cautela, non avevo nessuna voglia di farmi mordere ad un polpaccio. La bestiola si era infilata sotto il groviglio di rami del filare di bosso che fiancheggiava il vialetto, la vedevo che restava immobile a guardarmi. Sembrava impaurita e disorientata, io mi guardai attorno per cercare il padrone ma non vidi nessuno.
Ormai erano le quattro e mezzo del pomeriggio e il cielo, già plumbeo e carico di pioggia, si stava oscurando per la sera in arrivo. Mi tolsi le cuffie dell’ipod e presi il cellulare dalla tasca della tuta, chiamai il primo numero in rubrica, era quello di mia moglie: «Ciao Mel, sei a casa?»
«Sono appena arrivata… tu dove sei?» rispose lei.
«Sono al parco a correre… Ascolta, ho bisogno che tu venga a prendermi con la macchina…»
«Cos’è successo? Ti sei fatto male?»
«No no… Dovresti prendere il guinzaglio di Kid e venire all’ingresso del parco sulla Milton Road. Ho trovato un cagnolino, credo sia scappato dai suoi padroni e si sia perso…»
«No Daniel, non adesso… Non me la sento, è troppo presto…»
«Senti Mel, è sabato pomeriggio! Cosa dovrei fare secondo te? Tornare a casa e far finta di niente? Se esce dal parco finisce di sicuro sotto una macchina… Lo portiamo a casa e cerchiamo di rintracciare i padroni.»
La sentii sbuffare, «Va bene arrivo… tra cinque minuti sono lì!», poi riattaccò.
Kid era stato il nostro cane per sedici anni, ed erano passati appena tre mesi dal giorno in cui ci aveva lasciato. Vivemmo la sua perdita con un dolore che non avremmo mai immaginato; lo avevamo amato come un figlio, e so che qualcuno direbbe “come il figlio che non è mai arrivato”.
Non credo sia così semplice, solo chi ha vissuto con un cane può capirne a fondo il significato e accettare il fatto che il sentimento che ci lega ai nostri animali è altrettanto nobile e profondo, anche se difficilmente si può spiegare a chi non ha mai avuto la fortuna di viverlo. Tuttavia avevo compreso il disagio di Mel, e in un certo senso lo condividevo: pensavo anch’io che fosse troppo presto!
Ma in quel momento l’unica cosa che m’interessava era salvare quel cane.
Mi chinai per osservarlo meglio, lo feci lentamente, temendo che potesse scappare o, al contrario, attaccare e mordere. Era acquattato tra il terreno e un grosso ramo attorcigliato su sé stesso, provai ad allungare un braccio ma era impossibile raggiungerlo, l’animale non si mosse, non sembrava ostile, non ringhiava affatto, si limitava a fissarmi. Ben presto mi resi conto che avrei dovuto convincerlo ad uscire, il problema era come.
«Su bello, non aver paura! Voglio solo aiutarti!» sussurrai.
Poi mi ricordai di avere una mezza barretta ai cereali in tasca, la presi, la scartai e la posai a terra, appena fuori dalla siepe.
«Dai su, vieni a prenderla! È buona sai… Kid me le rubava sempre…»
Inaspettatamente si mosse, come se niente fosse sbucò fuori dal cespuglio e si avventò sul cibo, ingoiandolo in un solo boccone.
«Cavolo! Devi essere proprio affamato!»
Finalmente potei vederlo: era un meticcio di media taglia, era a pelo corto e di colore bruno con qualche macchia bianca sparsa qua e là; aveva un bel muso con due occhi neri dall’espressione intelligente. Ma non furono queste le prime cose che notai.
Ciò che mi colpì fin da subito fu la sua magrezza: riuscivo a distinguerne tutte le costole. Era sporco di terra e nel complesso pareva assai malconcio, pensai che potesse avere qualche malattia e che fosse sicuramente infestato di pulci e zecche. Vidi che aveva un collarino di gomma che gli ballonzolava attorno al collo magro, appesa al collare c’era una piccola medaglietta metallica a forma di cuore.
Osservando meglio mi accorsi che si trattava di una femmina.
«Perfetto! Quando Mel ti vede, non sarà contentissima di portarti a casa conciata come sei!» dissi.
Provai ad accarezzarle il muso e con sorpresa constatai che le piaceva, poi diedi un’occhiata alla medaglietta e notai delle incisioni che non riuscii a decifrare perché erano in parte cancellate dalla ruggine ed in parte coperte dal sudiciume.
In realtà la cagnolina si rivelò subito affettuosa e abituata alla compagnia umana, s’accucciò ai miei piedi dichiarandomi ufficialmente la sua amicizia e dicendomi a modo suo che si fidava di me. La sua dolcezza m’ispirò subito una grande tenerezza e un’inevitabile compassione, decisi che avrei fatto del mio meglio per aiutarla.
In quel momento arrivò Mel col guinzaglio in mano.
Le feci un cenno e la chiamai: «Eccoti! Siamo qui Mel… guardala! È una femmina e, come vedi, è ridotta maluccio. Non so se sia malata, sicuramente non è ferita… poi è molto affettuosa… è proprio una cagnetta dolce…»
Mel si chinò sulla cagnolina che cominciò a scodinzolare, «Ciao bella! Cosa ti è successo? Povera cucciola, sei pelle e ossa…» le disse mentre l’accarezzava.
La cagnolina ci annusava con interesse e ci leccava le mani, io e Mel ci guardammo negli occhi e senza dire una parola annuimmo: ormai eravamo fregati!
«Ora che facciamo?» chiese Mel.
«Beh, la portiamo a casa, le diamo una bella ripulita e, soprattutto, le diamo da mangiare… al resto ci penseremo!» risposi.
Le infilammo il guinzaglio che era stato di Kid, la caricammo in macchina e la portammo a casa.
Alla fine, quel giorno non piovve affatto!

Secondo giorno
La domenica mattina fu proprio lei a svegliarci!
Avevamo trascorso tutta quanta la sera precedente ad occuparci di lei: arrivati a casa la mettemmo subito nella vasca da bagno, la lavammo e l’asciugammo per bene, poi le demmo da mangiare. In casa avevamo ancora un bel po’ di roba appartenuta a Kid che, per l’occasione, si rivelò provvidenziale: croccantini, shampoo, spazzole, ciotole, una cesta piena di giochi e la sua cuccia.
Passammo quel sabato sera come se gli ultimi tre mesi non ci fossero mai stati, come se Kid non ci avesse mai lasciato. E fu la prima volta.
Aprii gli occhi e vidi la cagnolina in fondo al letto che ci guardava, Mel farfugliò qualcosa e controllò la sveglia.
«Sono appena le sette passate… che c’è Cloe? Perché hai abbaiato?» disse Mel ancora mezza addormentata.
«Probabilmente avrà fame!» borbottai mentre mi alzavo dal letto.
La cagnolina si chiamava Cloe, almeno questo era il nome che la sera prima avevo letto nella targhetta, dopo averla ripulita per bene dalla crosta di ruggine e sporco. Dietro c’era anche un numero di telefono e un indirizzo. A malincuore avevo deciso che, dopo la colazione, avrei chiamato quel numero.
In fondo mi sentivo un po’ in colpa. Per qualche ora mi ero dimenticato di Kid, avevo dato le sue cose a un altro cane che, dopotutto, non era nemmeno nostro. In qualche modo pensavo di averlo tradito, di aver tradito il suo ricordo e l’affetto che provavo per lui. Ma una voce mi diceva anche che era giusto abbandonare il dolore e ritrovare nuovo entusiasmo, che cercare di voltare pagina non significava tradire ciò che di bello c’era stato nel nostro passato. Ebbi inoltre la sensazione che Mel condividesse lo stesso pensiero.
Quella domenica mattina non ne parlammo, ma era chiaro che nel nostro animo la piacevole novità di Cloe fosse in parte attenuata dal riaffiorare della malinconia per Kid.
Tuttavia cercai di accantonare ogni pensiero che non fosse quello di trovare una soluzione per Cloe. Le diedi una doppia razione di cibo che mangiò con rapidità impressionante, appena si fu saziata se ne andò nella vecchia cuccia di Kid come se fosse sempre stata sua e si appisolò. Io e Mel la guardammo divertiti e perplessi, poi facemmo colazione anche noi.
Alle nove del mattino decisi di chiamare i proprietari di Cloe.
Presi in mano il foglietto in cui mi ero segnato il numero e l’indirizzo e telefonai, attesi qualche secondo poi una voce registrata disse che il numero era inesistente. Rifeci quel numero un’altra volta e sentii la voce ripetere la stessa frase, quindi riattaccai.
«Dice che il numero è inesistente!» informai Mel.
«Forse l’hai copiato male.» suggerì lei.
Raccolsi la targhetta di Cloe e la controllai per l’ennesima volta, «No Mel, il numero è giusto… solo che non esiste!»
Rigirai quella targhetta tra le dita parecchie volte mentre cercavo di riflettere sul da farsi, poi decisi di fare un salto al luogo dell’indirizzo. «È soltanto a quattro isolati da qui, oltre Portobello Park… Stanley Street dovrebbe essere la strada che affianca la ferrovia… Ci vado a piedi e mi porto Cloe! Vieni con me?»
«Meglio di no! Se poi trovi i suoi padroni… Preferisco salutarla qui!», andò da Cloe e le baciò la testa, «Addio dolcezza, spero che ritrovi la tua famiglia. Vedrai che finalmente starai di nuovo bene!»
Ovviamente si era emozionata! Mi guardò con gli occhi lucidi e disse: «Vado a ripulire il bagno, ieri sera abbiamo combinato un bel casino!», si girò e si allontanò.
«Cercherò di tornare presto, così magari ti do una mano a sistemare…» le dissi mentre era già nell’altra stanza.
Infilai il giaccone, sistemai il guinzaglio a Cloe e uscii.
Cloe mi seguiva stando al passo come se fosse mia da sempre, era tranquilla, non tirava e ogni tanto mi dava un’occhiata come fa ogni cane attaccato al padrone.
Durante il tragitto, la mia intenzione di riportarla ai suoi legittimi proprietari divenne sempre più incerta al punto da fermarmi varie volte con l’idea di tornare indietro.
“E se l’hanno abbandonata apposta? E se la maltrattano?” Erano questi i pensieri che mi bloccavano, intanto Cloe mi puntava di nuovo col suo sguardo disarmante e tutto quanto si complicava ancor di più.
Poi, nonostante i dubbi che si sommavano, capii che non avevo alcun diritto di sottrarre Cloe all’amore dei suoi padroni. Conclusi che tutti questi dubbi erano generati dalla speranza egoista che i soli meritevoli di potersi occupare di Cloe fossimo proprio io e Mel, ben sapendo che i suoi veri padroni avevano su di lei più diritti di noi. Dopotutto il mondo era pieno di cuccioli pronti a prendere il posto che era stato di Kid nel nostro cuore, perché rivalersi su qualcuno che probabilmente stava soffrendo la perdita di Cloe come era successo a noi con Kid?
Ero certo che alla fine la mia coscienza non me l’avrebbe perdonato.
Percorremmo i quattro isolati della Durham, fatti di villette e giardini tutti uguali, attraversammo Duddingston Road e finalmente fummo davanti al Golf Club di Portobello. Da lì in poi il tragitto divenne più piacevole poiché si trattava di percorrere viali alberati lontano dal traffico e fiancheggiare il parco fino all’incrocio con Stanley Street nei pressi della ferrovia.
Quella zona di Edimburgo, pur non distante da dove abitavo, la conoscevo poco. Era una zona di periferia adiacente alla linea ferroviaria che collega i centri di Wallyford, Haddington, eccetera, a est della città. Tutta l’area attorno alla ferrovia era un luogo notoriamente malfamato e poco frequentato, con capannoni industriali dismessi dove spesso si rifugiavano vagabondi oppure puttane coi loro clienti. Quella volta sperai proprio di non doverla attraversare e fortunatamente, quando mi trovai all’inizio di Stanley Street, capii che l’avrei evitata, poiché la vecchia area industriale si trovava dall’altra parte della ferrovia, e ci si poteva andare solo percorrendo il ponte sulla Hope che mi ero lasciato alle spalle.
La strada era lunga e dritta, e nei paraggi non vidi nessuna abitazione. Da una parte c’era il muro che delimitava l’area privata di Portobello Park, mentre dall’altra una distesa di alberi e fitti cespugli separava la strada dalla recinzione della ferrovia. Decisi di fermarmi e di tirar fuori dalla tasca il foglietto con l’indirizzo, lo controllai di nuovo: c’era scritto 66 Stanley Street.
Cloe, col suo muso da pitbull (ma non lo era) e la lingua a penzoloni, si guardava attorno disinteressata. «Come lo trovo il 66 se in questa strada non si vede nemmeno una casa?» mi domandai ad alta voce, Cloe drizzò le orecchie, forse pensava che ce l’avessi con lei, poi si voltò e iniziò a tirare come se avesse visto o fiutato qualcosa.
Tirava con forza mentre c’incamminavamo sul margine della strada vicino agli alberi, io mi facevo guidare da lei perché immaginavo che avesse riconosciuto il posto in cui abitava coi suoi padroni. Per terra c’era di tutto: siringhe, bottiglie rotte, preservativi e altri rifiuti di ogni genere; evidentemente di notte anche Stanley Street era frequentata da balordi. Alla fine del rettilineo la strada proseguiva curvando verso destra e, con mia grande soddisfazione, potei finalmente vedere le prime case che facevano capolino tra gli alberi ed i prati incolti. Cloe non smetteva di tirare e puntava decisa verso la casa più isolata, distante da noi ormai non più di un centinaio di metri circa.
Quando arrivai di fronte al cancello della casa ebbi la netta sensazione che quel posto fosse disabitato. Sul muretto a lato del cancello era ben visibile il numero 66, per il resto tutto quanto appariva fatiscente, sporco e abbandonato a se stesso. Nonostante ciò, Cloe mi diede la conferma che il posto era quello giusto: iniziò ad agitarsi e ad abbaiare verso la casa, come se volesse richiamare l’attenzione dei suoi padroni. La casa al di là del cancello era un edificio a due piani letteralmente avvolto da una fitta vegetazione di rampicanti e siepi cresciute a dismisura; il giardino somigliava più ad una boscaglia ed era dominato da un paio di vecchie querce enormi le cui fronde sovrastavano il tetto.
Cercai un campanello e trovai un pulsante nel muro con sopra una sigla: P.J.
Lo premetti e restai in attesa, Cloe intanto continuava ad essere agitata e grattava con le zampe le inferriate del cancello, oppure v’infilava in mezzo la sua testona continuando ad abbaiare.
«Calma Cloe, che ti prende? Stai buona… Ti ho portata qui dai tuoi padroni, vedrai che ora arrivano!» dissi mentre cercavo di tenerla ferma.
Suonai di nuovo ma non successe niente, era chiaro che in quella casa non c’era nessuno, almeno così sembrava. Poi accadde un imprevisto: Cloe non riusciva più a estrarre la testa dalle inferriate e cominciò a guaire spaventata, il guinzaglio le si era attorcigliato al collo e rischiava di strozzarla. Io cercai di mantenere la calma, mi chinai su di lei e le sganciai il guinzaglio dal collare per liberarla. Fu allora che, con mio grande stupore, Cloe guizzò in avanti infilando il resto del corpo attraverso le sbarre e trovandosi in un secondo libera all’interno del giardino. Per un attimo si arrestò e mi fissò, poi corse via scomparendo dietro la casa. La chiamai ripetutamente ma non servì a nulla, restai ad aspettare per parecchio tempo sperando che prima o poi saltasse fuori. Sentivo un vuoto, un senso d’impotenza e timore per la sua sorte, ma non sapevo cosa fare, e intanto Cloe era sparita!
Pensai di scavalcare quel cancello, ma una vaga inquietudine m’impedì di farlo e mi spinse ad aspettare passivamente l’evolversi della situazione.
Poi, quando ormai avevo esaurito ogni speranza, Cloe ricomparve sbucando dal punto esatto in cui l’avevo persa di vista. Sembrava più tranquilla e mi venne incontro trotterellando, aveva qualcosa in bocca, arrivò al cancello e ci passò attraverso come aveva fatto in precedenza, si sedette davanti a me e lasciò cadere l’oggetto che teneva tra le fauci: era un topo morto!
«Santo cielo! Cloe, sei sparita per portarmi un topo?!» esclamai sollevato.
L’espressione di Cloe era inequivocabile: gli occhi e tutto il muso parevano sorridere di gioia, mi guardava soddisfatta per avermi portato un dono tanto prezioso come quello, sicuramente il suo nuovo capobranco (io) sarebbe stato fiero di lei!
Conclusi che ormai non c’era più motivo di restare lì, in quel posto non ci abitava anima viva e mi sarei riportato Cloe a casa con me, stavolta per sempre.
«Su Cloe, andiamocene! Il topo lasciamolo ai gatti… A casa c’è il pollo arrosto di Mel che ci aspetta!» dissi.
Tornammo verso mezzogiorno, a casa ci accolse Mel con addosso il profumo d’arrosto e un’espressione felicemente stupita.
Da quel giorno Cloe si convinse che, tutto sommato, la carne di pollo era decisamente meglio della carne di topo.

Terzo giorno
Le cose a Stanley Street non erano andate come avevo immaginato, e in fondo ne fui più che contento: se Cloe non aveva più un padrone voleva dire che sarebbe potuta diventare nostra a tutti gli effetti.
Tuttavia le circostanze che la riguardavano non erano affatto chiare: era apparsa dal nulla e pareva provenire da un posto dove non viveva nessuno, un bel mistero direi!
Lunedì mattina mi alzai mezz’ora prima di Mel. Dopo la doccia, preparai la colazione per tutti quanti, Cloe compresa. Mel sarebbe dovuta essere in ufficio alle nove in punto, alle otto e un quarto entrò in cucina già pronta per uscire.
«Non sei in ritardo, puoi sederti e fare colazione con calma se vuoi.» le dissi mentre le versavo il caffè.
«Posso restare giusto il tempo per il caffè… Tu invece hai intenzione di chiamare Samuel?» chiese lei.
«Lo chiamo e l’avviso che stamattina dovrò restare a casa…»
«E vuoi anche spiegargli il motivo?»
«Glielo dirò un’altra volta, a quattrocchi… Allo studio se la può cavare anche da solo, oggi dovrebbe essere una giornata tranquilla.»
Sam era il mio migliore amico e anche il mio socio, lo conoscevo dai tempi del College e, dieci anni dopo la laurea, decidemmo di metterci in affari e fondare un nostro studio di design e progettazione d’interni: la Brewer&McCleary Project. Nonostante la crisi le cose non andavano male e riuscimmo perfino a riscattare un locale di cento metri quadri nella Old Town, a due passi dall’Università, per farci i nostri uffici.
Quando Mel fu uscita, telefonai a Samuel avvisandolo che quel giorno non sarei andato al lavoro: «… Comunque il progetto di Copeland è pronto da una settimana, troverai tutto il materiale sulla mia scrivania Sam! Ho degli affari personali da sbrigare con una certa urgenza, quando ci vediamo ti spiegherò… Se serve chiamami, ciao!»
Il vantaggio di lavorare in proprio è esattamente questo: non doversi inventare malattie o altre scuse fantasiose per decidere di starsene a casa. E quel lunedì avevo stabilito che mi sarei occupato di Cloe.
Alle dieci la portai dal veterinario perché la visitasse. Il dottor Collins si era preso cura di Kid per sedici anni: l’aveva fatto nascere, l’aveva vaccinato ogni anno e l’aveva salvato quella volta che si era avvelenato bevendo un intruglio di erbe cosmetiche che Mel aveva dimenticato sul tavolino del soggiorno. E fu sempre lui che, appena tre mesi prima, lo addormentò per l’ultima volta, mentre io gli tenevo una zampa e l’accarezzavo piangendo come un bambino.
Ero seduto nella saletta d’attesa quando Robert Collins uscì dall’ambulatorio e mi riconobbe. «Salve Daniel, come stai?» disse stringendomi la mano.
«Bene direi! Appena sono entrato qua dentro, per un attimo, ho rivissuto quel maledetto giorno… ma adesso è passato. Sia io che Melice ne stiamo uscendo!»
«Capisco! Il tempo è la miglior medicina… Ma chi è la signorina che mi hai portato?» chiese mentre si chinava ad accarezzare Cloe.
La cagnolina era rannicchiata ai miei piedi e aveva un’aria preoccupata, probabilmente era già stata da un veterinario e l’ambiente non le piaceva affatto. «Lei è Cloe… l’ho trovata sabato pomeriggio a Duddingston Park, ho cercato di rintracciare i padroni ma credo sia stata abbandonata… Io e Mel vorremmo adottarla così te l’ho portata…»
«Hai fatto bene! Su, entra che le diamo una controllata!»
All’interno dell’ambulatorio l’odore di disinfettante era fortissimo, io presi in braccio Cloe e la posai sul lettino. La cagnolina tremava come una foglia e cercai di tranquillizzarla grattandole il mento e la testa, «Su Cloe, stai tranquilla che nessuno ti farà del male!» dissi mentre il dottor Collins le si avvicinò con uno strano oggetto in mano.
«Dottore, che cos’è quell’affare?» domandai incuriosito.
Collins glielo passò tra le scapole un paio di volte, «È un rilevatore, mi sto solo accertando che non abbia il microchip… No non c’è niente… Questo cane è denutrito, ma immagino te ne sarai già accorto.»
«Certo cavolo! È la prima cosa che ho notato… Robert, quanti anni potrà avere?»
Collins le aprì la bocca e diede un’occhiata ai denti, poi guardò le unghie delle zampe e, per ultimo, esaminò occhi e orecchie aiutandosi con una piccola torcia, «A occhio e croce, penso non più di due o tre anni! È una ragazza! Ma dovrà irrobustirsi un po’…», la prese in braccio e salì sulla bilancia a ridosso della parete, «Per la sua taglia dovrebbe pesare una ventina di chili… Ora ne pesa appena tredici!»
Ripensai a quando s’infilò tra le sbarre del cancello, se non fosse stata così magra non avrebbe mai potuto riuscirci. La cosa più larga che aveva era la testa!
Poi Collins alzò lo sguardo su di me e mi fece cenno di avvicinarmi, Cloe era in piedi sul lettino e lui m’indicò un punto preciso sulla coscia destra dell’animale, «La vedi questa piccola rientranza in parte nascosta dal pelo? È perfettamente circolare e si ripete nella parte interna della coscia… Questa è una cicatrice: le hanno sparato Daniel!»
«Le hanno sparato?… Che bastardi!»
«Comunque è stata fortunata: il proiettile ha passato la coscia da parte a parte forando soltanto il muscolo… in questi casi una ferita, se nel frattempo non s’infetta, guarisce in pochi giorni!» sentenziò.
«Ma chi può averlo fatto… Razza di bastardi!» ripetevo mentre m’immaginavo la scena.
«Daniel, ti posso soltanto dire che questa ferita è roba abbastanza vecchia, il pelo è ricresciuto perfettamente e il muscolo è intatto e funzionale… Chissà, magari il suo padrone era un cacciatore e l’ha ferita accidentalmente con la carabina…»
«Se è così, spero che dopo si sia sparato accidentalmente nel culo!»
Collins rise, poi riprese la sua solita espressione distaccata e disse: «Dato che non sappiamo da dove viene, la prassi sarebbe informare la polizia municipale e il canile del tuo distretto…», fece una breve pausa e mi guardò dritto negli occhi, «Ma siccome siamo amici e so che non la lasceresti mai in un canile, della parte burocratica lascia che me ne occupi io! Per il resto dovrò sottoporla ad un paio di esami per accertare che non abbia malattie e per procedere all’eventuale vaccinazione, sei d’accordo?»
«Ok, quanto tempo ti ci vorrà?»
«Potrai venire a riprenderla stasera, intorno alle diciotto!»
Guidando verso casa non riuscii a non pensare all’indirizzo: 66 Stanley Street!
Che luogo era mai quello? Cosa rappresentava quel posto nella vita di Cloe?
Avevo avuto l’impressione che per Cloe fosse stato del tutto normale intrufolarsi attraverso il cancello per scomparire dietro quella casa. Come se quel gesto l’avesse già fatto molte altre volte in passato… e poi quel topo. Dove l’aveva preso? possibile che l’avesse catturato in quella manciata di minuti in cui era scomparsa? Probabilmente l’aveva trovato per caso, raccogliendolo già morto.
C’era qualcosa che mi sfuggiva, che non riuscivo a capire. E più pensavo a quella casa più i conti non mi tornavano.
Dovevo chiarirmi le idee e strada facendo decisi di fare un salto in ufficio, lì trovai Samuel e Hattie che parlottavano sull’opportunità o meno di apportare alcune modifiche ad un progetto che dovevamo consegnare la settimana seguente.
«Ma oggi non dovevi sbrigare delle faccende?!» esordì Samuel quando mi vide.
«Vero Sam… È proprio per questo che sono qui! Mi serve la tua opinione!»
«Vuoi anche la mia o vi lascio parlare da soli?» s’intromise Hattie.
Hattie Hamilton era la nostra socia, nonché ex fidanzata di Samuel, era con noi ormai da tre anni e ancora non avevo capito se quei due s’erano innamorati di nuovo oppure no. «Certamente Hattie! Non è niente di che…» le dissi invitandola a restare.
Raccontai a Samuel e Hattie del ritrovamento di Cloe, della visita a Stanley Street e dei miei dubbi riguardo a quel posto. Nonché della mia ferma intenzione di tenermi la cagnolina, anche se cresceva in me la voglia di saperne di più sul suo conto.
«Hai chiesto a qualcuno della zona? Magari i vicini ti possono dire a chi appartiene quella casa…» suggerì Samuel.
«Ieri non ho visto nessuno in giro, e francamente non ci ho nemmeno pensato…» risposi, «Il fatto è che non ho molta voglia di trovare i suoi vecchi padroni!»
«È bastato poco per affezionarti…» commentò.
«Lo so, ormai penso a Cloe come se fosse mia, punto e basta! Anche se, dopotutto, non so niente di lei… Stamattina il veterinario s’è accorto che in passato le hanno pure sparato… Ha visto una vecchia cicatrice su una zampa!»
«Io dico che faresti bene a informare la polizia municipale!» intervenne Hattie.
«Col risultato di obbligarmi a metterla in un canile… No grazie!»
«Beh no… Veramente io dicevo che dovresti informarli riguardo quella casa!» insistette lei.
«E poi cosa dico alla polizia? Scusate ma quel posto non mi convince, andate a controllare… Magari potrebbe esserci un covo di terroristi, della droga o dei cadaveri sepolti… Poi invece di Cloe rinchiudono il sottoscritto!», feci una smorfia.
«Perché non torni a dare un’occhiata? Magari ti accompagno…» propose Samuel.
«Intendi dire di scavalcare il cancello ed entrare?», a dire la verità il pensiero mi era balenato in testa più di una volta.
«Ecco ragazzi miei, questo vuol dire andarsi a cercare dei guai!» obiettò Hattie.
Samuel non ascoltava più nessuno, ormai aveva deciso che io e lui saremmo andati a Stanley Street in missione esplorativa. «Dunque… domani sono a Glasgow, mercoledì abbiamo il sopralluogo dai McCullough ricordi? E giovedì devi presentare il lavoro di Copeland… Rimarrebbe venerdì, che ne dici?»
«Dico che ne riparliamo venerdì!» conclusi. Liquidai la faccenda senza nascondere un certo scetticismo verso i facili quanto brevi entusiasmi di Samuel, capace d’infiammarsi per ogni cosa in un attimo, per poi spegnersi con la stessa facilità e dimenticarsi tutto nel giro di qualche ora.
Rimasi in ufficio per tutto il pomeriggio, alle cinque e mezza salutai e andai dal dottor Collins a riprendermi Cloe. Quando la vidi constatai che si era ambientata a sufficienza: nel vedermi entrare nell’ambulatorio iniziò a scodinzolare e sculettare felice, raccolse un osso di gomma da un cesto e me lo portò come aveva fatto col topo. Il dottor Collins mi rassicurò dicendomi che, magrezza a parte, la cagnetta era perfettamente sana. M’informò che, dopo averla vaccinata, l’aveva registrata all’anagrafe a mio nome e che nessuno aveva denunciato la sua scomparsa. In pratica, disse che da quel momento Cloe era legalmente mia!
Tornato a casa, raccontai tutto a Mel. Cloe ci guardava col suo osso di gomma ancora in bocca, osso gentilmente offerto da Robert Collins.
Per cena ordinammo pizza farcita con cipolla, formaggio e bacon, e festeggiammo con due pinte di Caledonian il nuovo membro della famiglia Brewer!

Quarto giorno
L’indomani avvisai Hattie che sarei rimasto a casa anche quel giorno, dicendole che avrei fatto un salto a Stanley Street per sperare di avere finalmente qualche chiarimento riguardo al passato di Cloe.
Samuel era partito per Glasgow e Hattie mi esortò a stare attento, ripetendomi di non dar retta a Sam: «Mi raccomando Danny, evita di entrare in quel posto! Sam è un pazzoide, e io lo so meglio di te… Ogni tanto ha delle idee veramente stronze! Però so che tu sei più ragionevole…» disse, «E poi che importanza ha adesso? Cloe ormai è tua, non sei contento?»
«Non preoccuparti Hattie, vado soltanto a dare un’occhiata in zona, e magari a fare qualche domanda a chi ci abita… Non ho intenzione di intrufolarmi in nessuna proprietà privata, te l’assicuro!» promisi pur senza molta convinzione.
Erano due giorni che non mi allenavo. La faccenda di Cloe mi aveva distolto dalle mie abitudini, e anche il lavoro era finito in secondo piano.
Ma la cena micidiale della sera prima imponeva un rimedio immediato, perciò rieccomi di nuovo a Duddingston Park con tuta e scarpe da jogging a correre i vialetti a margine dei campi da golf. Stavolta il percorso sarebbe stato più breve e avevo con me il mio nuovo personal trainer a quattro zampe: Cloe appunto!
Mi limitai a oltrepassare il lago fino alla fine del sentiero che portava sulla Duddingston Low, sotto Arthur’s Seat, poi feci ritorno. Era uno dei miei percorsi preferiti, e constatai che anche Cloe gradiva sgambettare nell’erba, tra le ginestre e i querceti del parco; teneva il passo senza il minimo sforzo e ogni tanto dava un’occhiata in giro.
Arrivammo a casa in tarda mattinata, Mel era al lavoro e sarebbe tornata per cena. Avevo tutto il giorno libero e decisi che sarei andato a Stanley Street nel primo pomeriggio, lasciando Cloe tranquilla ad aspettarmi a casa.
Parcheggiai proprio davanti al 66, la casa era certamente disabitata e, per quanto potevo vedere, lo era da un bel po’ di tempo.
Appena scesi dalla macchina vidi il topo morto di Cloe sempre lì, in mezzo al marciapiede, evidentemente nessun gatto l’aveva gradito. Poi alzai lo sguardo e notai un omone con una tuta da meccanico che camminava all’altro lato della strada. Gli andai incontro e lui si fermò, s’infilò le mani in tasca e si girò verso di me.
Quando gli fui davanti mi resi conto che era un vero gigante, aveva pure un’aria poco raccomandabile, con una cicatrice che gli attraversava una guancia dal mento alla tempia. Diedi una rapida occhiata in giro e constatai con rammarico che, a parte noi, non c’era anima viva.
«Salve! Mi scusi, per caso sa se qui abitava qualcuno fino a poco tempo fa?» gli chiesi indicando la casa.
«Perché lo vuole sapere?» chiese a sua volta, aveva un vocione rauco e un’aria vagamente sospettosa.
«Beh… Ho sentito dire che in zona vendono dei terreni… Passando di qua ho notato questa villa disabitata, ma non ho visto alcun cartello che indicasse un proprietario a cui chiedere, ecco…» mentii spudoratamente.
L’omone mi scrutò a fondo, «Strano, io vivo da queste parti ma non so nulla di terreni in vendita… La casa appartiene ai Jordan!»
«Appartiene? Quindi sa chi è il proprietario?»
Il gigante con la tuta non rispose, si limitava a fissarmi con fare pensieroso. Iniziai ad avvertire un certo disagio, in quella strada non si vedeva passare proprio nessuno. Decisi di correggere il tiro mostrandomi oltremodo amichevole, «Non mi sono presentato, mi chiamo Daniel Brewer!», gli sorrisi porgendogli la mano.
L’omone mi strinse la mano, stritolandola letteralmente, e mi sorrise a sua volta mostrando una bocca priva di tutti gli incisivi, «Io mi chiamo Barton… Barton Grimm!», poi aggiunse: «I Jordan… certo che li conosco! Sono partiti!»
«Partiti? Quando?… E dove sono andati?» chiesi di nuovo mentre mi massaggiavo la mano dolorante.
«Ormai saranno due anni… più o meno. Ricordo l’ultima volta che ho visto Paul Jordan… È stato al pub di Cluster, qui vicino, sulla Hamilton… Disse che si sarebbe trasferito in America e che avrebbe portato con sé tutta la famiglia, cane compreso!»
Cane compreso, quelle ultime due parole attrassero la mia attenzione più di quanto avrei voluto mostrare. «Quindi… avevano pure un cane?», cercai di porre la domanda nel modo più indifferente che potei.
Barton Grimm tirò fuori da una tasca un pacchetto di sigarette e un accendino, me ne offrì una che cortesemente rifiutai, quindi l’accese ispirandone un’ampia boccata. «Certo! Mi pare avessero una cagnetta… Io però non l’ho mai vista!» disse dietro una nuvola di fumo.
Non riuscii ad evitare di tossire, «Dicevo solo perché anch’io ho un cane… Signor Grimm, quindi non saprebbe dirmi dove potrei rintracciare la famiglia Jordan?»
«Mi dispiace, dopo quella volta non l’ho più rivisto… Lavoro ai magazzini della ferrovia, sono il custode e passo tutti i giorni di qua. Ma, come vede, oltre alla casa dei Jordan non c’è niente. Conoscevo Paul Jordan perché frequentavamo lo stesso pub, l’ho sempre visto solo lì.»
«Ok, allora grazie lo stesso!», lo salutai e tornai alla macchina.
Barton Grimm rimase a darmi un’ultima occhiata, poi riprese a camminare con la sua sigaretta in bocca.
Partii, ma non tornai a casa. Alla fine di Stanley Street girai per Hamilton Road, fatti duecento metri entrai in un piazzale e sulla sinistra vidi un vecchio edificio con un’insegna: The Cluster’s Tavern.
Entrai nel pub e vidi che era vuoto, probabilmente avevano appena aperto e la gente dei paraggi doveva ancora tornare dal lavoro. All’interno l’arredo era di legno scuro, le poche lampade accese alle pareti creavano zone d’ombra che lo rendevano un po’ tetro ma, tutto sommato, caldo e accogliente.
Mi diressi al bancone e dall’altra parte un uomo robusto con la barba mi venne incontro, «Cosa le do?» mi chiese, mentre posava un cestino di stuzzichini sul ripiano del banco.
«Una nera, grazie!» risposi.
Mi diede una pinta di stout che pagai subito, era buona e profumava di un misto di prugne e mandorle, «Ottima!» dissi, affondando le dita tra le noccioline salate che riempivano il cestino.
L’uomo dietro il bancone annuì e continuò a sistemare bicchieri, boccali e tutto il resto, in attesa della gente che più tardi avrebbe sicuramente affollato il locale.
Dopo un po’ mi decisi: «Mi scusi, sto cercando una persona che abita qui vicino… Conosce un certo Paul Jordan? So che frequenta questo pub…»
L’uomo si fermò e mi squadrò grattandosi la folta barba, «Paul Jordan… Se è chi penso io, non lo vedo da un bel pezzo! Saranno anni… Comunque sì, veniva qui praticamente tutte le sere!»
«E non sa dirmi che fine ha fatto?» lo incalzai.
L’uomo scosse la testa e riprese le sue occupazioni, poi m’indicò un punto poco illuminato del locale, «Forse Martin la può aiutare… Ormai qui dentro è diventato un pezzo dell’arredamento, e credo che lo conoscesse!»
Mi girai in quella direzione e vidi un uomo anziano seduto dietro un tavolino, era praticamente nell’angolo più buio della taverna e prima non lo avevo proprio notato.
Mi avvicinai, «Salve, posso chiederle…»
Il vecchio m’interruppe: «Ho sentito, non sono mica sordo sai! Certo che conosco Paul… mi offriva sempre da bere quel bravo ragazzo… Anche tu sei uno bravo?»
«Ha sete?», la domanda era mal posta, dato che davanti al vecchio c’era un boccale vuoto e uno rimasto pieno per metà. «Cosa le posso offrire?», ecco, ora la domanda era quella giusta.
«Un whisky amico! Ma mi raccomando, digli che è per te… perché Ben mi ha detto che oggi non posso bere più niente! Non è cattivo, ma si preoccupa troppo per la mia salute… Ben è come un figlio per me!» disse sottovoce il vecchio.
Gli portai il whisky e mi sedetti al suo tavolo, il vecchio era magrissimo e puzzava di alcool e fumo di sigaretta. «Allora, che mi sa dire di Paul Jordan?» gli chiesi.
«Cosa vuoi sapere?»
«Che fine ha fatto, per esempio!»
«Se n’è andato tanto tempo fa! Non vive più da queste parti!»
«Questo lo so! Non sa dirmi nient’altro?»
«Paul era preoccupato! L’ultima volta che lo vidi mi confidò una cosa…», si avvicinò piegandosi verso di me, si guardò attorno e continuò bisbigliando: «Aveva paura!»
«Paura?»
«Sì, era terrorizzato!» sussurrò spalancando gli occhi.
«E da cosa?» domandai, mentre ero sempre più convinto di trovarmi di fronte ad un vecchio squinternato in preda ai fumi dell’alcool.
«Vedi, sua moglie non stava bene: entrava e usciva dal manicomio in continuazione! Una volta Paul mi raccontò che, rientrando dal lavoro, aveva trovato sua moglie Emma coi polsi tagliati che stava per accoltellare il suo bambino! Ci pensi? Se quel giorno avesse tardato di cinque minuti avrebbe perso moglie e figlio… e poi in quel modo… Ma Paul era innamorato di Emma e non la fece rinchiudere. L’aiutò sempre, ma lei peggiorava sempre di più… Rimase a casa dal lavoro per occuparsi di lei… Io ho il sospetto che non la volesse lasciare troppo da sola col bambino… Le comprò pure un cane perché gli avevano detto che la presenza di un animale poteva aiutarla.»
Dovetti ricredermi sul vecchio. Il suo racconto sembrava lucido e, nonostante le apparenze, non era affatto l’ubriacone che avevo immaginato all’inizio.
«Quindi aveva un problema con la moglie!» commentai.
«Un bel problema direi! Aveva il terrore che la moglie potesse avere una ricaduta! Sospettava che Emma, di nascosto, avesse smesso di prendere i farmaci che le impedivano i suoi attacchi d’ira… Ma la sera prima della sua partenza, m’informò che aveva deciso di portarla a Toronto da un suo cugino. Finalmente avrebbero vissuto in un posto dove Emma sarebbe stata seguita e curata come meritava. Dopo quella volta non lo vidi più, perciò credo che ora stiano in Canada… Di più non so!»
«La ringrazio!» gli dissi alzandomi.
«Grazie a te per il whisky!» rispose lui.
Salutai i due uomini e me ne andai. Mi sentivo soddisfatto, ormai ero sicuro che i vecchi padroni di Cloe fossero partiti per il Canada due anni prima, e che l’avessero abbandonata non potendola portare con loro.
Conclusi che in qualche modo Cloe fosse riuscita a cavarsela, magari mangiando tra i rifiuti e raccattando gli avanzi lasciati da qualcuno, oppure imparando a cacciare topi e altri animaletti nei numerosi parchi della zona.
Il fatto che fosse sopravvissuta da sola e per tutto questo tempo in un’area urbana, senza che nessun altro prima del sottoscritto si fosse mai accorto di lei, aveva dell’incredibile. Alla fine accettai la cosa con filosofia, limitandomi a ringraziare il destino che, per una volta, mi era venuto benevolmente incontro.

Quinto giorno
Mercoledì mattina mi alzai insieme a Mel, facemmo colazione e poi, mentre Mel s’avviava per andare in ufficio, io portai Cloe a fare una breve passeggiata attorno all’isolato. Rientrammo dopo venti minuti, le diedi la solita doppia razione di croccantini e la lasciai a casa per andare a lavorare.
Alle dieci, io e il mio socio Sam, avevamo appuntamento nel cottage dei signori McCullough, nei pressi di Livingston, per una ristrutturazione.
Le cose andarono per le lunghe e riuscimmo a tornare a Edimburgo soltanto a pomeriggio inoltrato; dopodiché rimasi in ufficio a discutere del progetto con Samuel e Hattie fino a tardi. Arrivai a casa per le sette e trovai Mel già ai fornelli.
«Bentornati! Dove hai portato Cloe stavolta?» mi disse appena mi vide.
Io non capii, «Beh, lo sai… l’ho portata fuori stamattina quando sei uscita…»
Melice smise di mescolare la zuppa di verdure e mi guardò in modo strano, «Vuoi dire che non è con te?»
«No Mel, torno adesso dall’ufficio!»
In un attimo realizzammo entrambi che Cloe non c’era, cercammo in ogni angolo della casa chiamandola e sperando che si fosse nascosta pur non capendone il motivo.
Guardammo ovunque ma fu inutile: Cloe era sparita!
D’un tratto mi ricordai che non avevo controllato una cosa. Tornai nel garage dove ero appena stato; anche se il garage era collegato al resto della casa da una porta sempre aperta, il portone del garage era blindato ed aveva la chiusura automatica per cui tutto l’ambiente era al sicuro da eventuali intrusioni di ladri.
La cosa che inizialmente mi era sfuggita fu che in un angolino del portone era installata una porticina scorrevole fatta apposta per Kid. Dopo la sua morte non pensai più a quella porticina, tantomeno che potesse essere ancora sbloccata per consentire ad un cane di uscire in cortile.
Ma la porticina era sbloccata e questo significava che Cloe era passata proprio da lì!
Uscimmo in giardino e ricominciammo a chiamarla, fuori era buio e dovetti prendere una torcia. Feci il giro tutt’attorno, il giardino era circondato da un muro in mattoni alto un paio di metri ed era impossibile che potesse averlo saltato.
Poi passai davanti al cancello in ferro battuto e capii: Cloe era uscita penetrando attraverso le inferriate come aveva fatto a Stanley Street!
Ora era chissà dove, ed io e Mel non sapevamo più che fare!
… O forse sì…
Fissai le inferriate del mio cancello e alla fine mi convinsi che Cloe poteva essere andata solo in un posto: la sua vecchia casa al 66 di Stanley Street!
Corsi alla macchina ancora parcheggiata nel vialetto. Mel mi bloccò afferrandomi per un braccio, «Dove vai?» domandò.
«Sono sicuro che è andata alla casa dei suoi vecchi padroni! Vado a cercarla là!»
«Vengo con te!»
«No Mel, resta qui! Casomai mi sbagliassi, rimani a cercarla qui attorno… Se la trovi chiamami al cellulare! Io farò altrettanto!»
Mel annuì incerta. Mentre entravo in macchina la vidi correre in casa a mettersi qualcosa addosso per perlustrare la zona. Eravamo entrambi agitati, ma anche decisi a ritrovare Cloe ad ogni costo. Girai la chiave e partii.
Attraversai la Duddingston Road senza incontrare traffico, a quell’ora la gente era in gran parte già rientrata a casa propria e le strade erano tutte abbastanza libere e scorrevoli. Esattamente il contrario di ciò che stava avvenendo nella mia testa: mentre guidavo mille pensieri si accavallavano mandandomi in confusione; domande, timori, dubbi, visioni di ogni tipo. Tutte accomunate da una paura profonda per la sorte di Cloe.
Impiegai non più di dieci minuti per arrivare a Stanley Street, fermai la macchina davanti la casa e scesi, il topo era sempre lì. La via era deserta come sempre, solo che il buio della sera le conferiva un alone più sinistro del solito.
Mi guardai attorno e chiamai il suo nome varie volte, la strada era illuminata dai lampioni ma tutto ciò che stava al di là dei suoi margini era completamente avvolto dalle tenebre. Il cielo era nero come l’inchiostro: la luna e le stelle non si vedevano affatto. Su Edimburgo persisteva ormai da giorni una spessa cappa di nuvole, e quella notte non fece eccezione.
Ero solo davanti ad un cancello chiuso, in una strada buia e deserta, e chiamavo il nome del mio cane senza avere nessuna certezza che fosse realmente lì.
Cos’altro potevo fare se non scavalcare quel cancello?
Le inferriate erano arrugginite e dovetti stare attento a non ferirmi poiché alla sommità erano appuntite come lance. Mentre mi trovavo impacciato più che mai a cavalcioni in cima al cancello, pensai di non avere più l’età per certe cose; ma in fondo ero da solo e la cosa sarebbe rimasta un fatto privato tra me e il mio orgoglio.
Rischiai seriamente d’infilzarmi la punta di una lancia nella coscia o, peggio, nell’inguine. Poi, con un ultimo sforzo dettato dalla disperazione, puntellai le braccia sulla barra superiore del cancello sbilanciando il peso del corpo dall’altra parte e lasciandomi cadere all’interno del giardino. Atterrai ruzzolando su un tappeto di ciottoli ed erbacce, quando mi raddrizzai in piedi avevo male dappertutto, ma per fortuna non mi ero rotto nulla.
Chiamai di nuovo Cloe ma non ebbi alcuna risposta. Il giardino era un muro di ombre appena distinguibili, la sagoma della casa si confondeva con quelle della fitta vegetazione che la cingeva su ogni lato. Il problema era che non riuscivo a vedere nemmeno i miei passi, e fu a quel punto che mi ricordai di avere con me la torcia. Infilai la mano in tasca e la tirai fuori, temevo si fosse rotta con la caduta ma l’accesi e funzionava perfettamente.
Il cono di luce sembrava uno spazio cavo che oscillava all’interno di una materia nera e solida, ed io che stavo dietro la luce ero avviluppato da quella materia. Avanzavo in quella materia cercando di ignorarla, concentravo lo sguardo ed i pensieri dentro la luce che stava di fronte; vedevo oggetti, un secchio per terra, le foglie dei cespugli che tagliavano la luce, poi l’angolo della casa con l’intonaco bianco e sbrecciato, e dietro l’angolo di nuovo il buio.
Poi udii un rumore, come uno stropiccìo di foglie secche sul terreno, proveniente da quell’angolo esterno della casa, nel punto in cui ricordavo di aver visto riapparire Cloe tre giorni prima. Scattai in quella direzione, puntai la torcia e la vidi!
Era lei, era Cloe!
Stava lì, a dieci metri da me, era immobile e mi fissava con gli occhi che la luce della torcia aveva trasformato in due lampadine accese.
«Cloe! Eccoti finalmente! Lo sapevo…» esclamai sollevato.
In quell’istante suonò il cellulare!
Sobbalzai, frugai nella tasca e l’afferrai, ma l’agitazione mi giocò un brutto scherzo e il telefono mi scivolò dalle dita cadendo per terra. Mi chinai per raccoglierlo e dovetti aiutarmi con la luce della torcia per trovarlo, intanto quello continuava a suonare.
«L’ho trovata Mel!» risposi convinto fosse mia moglie.
«Danny sono Sam!»
«Sam?»
«Sì, ti ho chiamato per parlarti di domani… A proposito di Copeland…»
«Senti Sam, adesso è un brutto momento… poi ti spiegherò! Ne riparliamo domattina in ufficio, d’accordo?» tagliai corto.
«Ma… Ok, ma dobbiamo parlare prima che arrivino quelli della commissione! Danny… va tutto bene?»
«Sì sì Sam, va tutto bene! A domani, ciao.», rimisi il cellulare in tasca e andai incontro a Cloe, ma Cloe era di nuovo sparita!
«No cazzo! Dove ti sei cacciata adesso… Cloe vieni da me!» gridai.
La chiamai di nuovo e continuai a chiamarla, ma intorno a me c’era solo silenzio, buio e silenzio!
E intanto una crescente inquietudine iniziò a farsi largo dentro la mia testa. La stessa inquietudine che provai la prima volta che mi ero trovato in quel posto, solo che quella domenica era stato di giorno mentre adesso era buio e tutto era più incerto, più preoccupante.
Era un malessere sempre più intenso, addirittura fisico, quasi che la mente avesse reso ogni mio timore un qualcosa di materiale, di solido. Solido e ostile come il buio che mi circondava.
E questo timore mi soffiava gelido lungo la schiena, mi sfiorava le spalle inducendomi a girare su me stesso in continuazione, allungava le ombre deformandole e muovendole, come se qualcosa di nascosto dietro o davanti a me fosse pronto a sorprendermi e a darmi il colpo di grazia.
Un altro rumore!
Stavolta ero certo provenisse dall’interno della casa. Puntai la torcia contro la finestra più vicina, ma la tenda abbassata impediva di poter vedere oltre. Eppure il rumore veniva proprio da dentro, pensai non potesse essere che Cloe.
«Cloe sei lì dentro? Come diavolo sei entrata?» ripresi a chiamarla.
Nel frattempo proseguii il mio giro intorno alla casa, puntando la luce contro le pareti. Mi fermai solo quando trovai una porta, sul retro della casa. Era chiusa ma mi accorsi subito che in basso aveva una porticina basculante, lo stesso tipo di passaggio che avevo disposto nel portone del mio garage.
Ormai era ovvio: Cloe era passata da lì!
Mi inginocchiai e sollevai la porticina, infilai la torcia e la puntai all’interno illuminando la porzione di un corridoio. «Cloe vieni fuori, dai!» chiamai di nuovo.
Restai in silenzio, in attesa. Poi da qualche parte all’interno della casa, sentii un mugolio seguito da un timido abbaio. Cloe mi aveva risposto, mi stava dicendo qualcosa e capii, non so come, che mi stava invitando ad andare da lei.
Dovevo entrare quindi, ma come?
Osservai la porta e constatai che la maniglia in ottone era di una marca che, grazie al mio mestiere, conoscevo bene. La parte situata all’esterno era di forma circolare e si poteva aprire solo inserendovi la chiave, ma sapevo che quella all’interno aveva la classica forma ad astina arcuata. Se la porta non fosse stata chiusa a chiave c’era la possibilità, agendo sulla maniglia interna, di poterla aprire.
L’ipotesi era debole poiché ritenevo fosse assai difficile che i Jordan, partendo per il Canada, non avessero pensato di chiudere a chiave ogni porta della loro casa. Ma dato che ero lì, in una situazione che mi dava poche alternative, pensai che almeno un tentativo andasse fatto.
Mi serviva un oggetto lungo con un’estremità ricurva in modo da agganciare la maniglia e provare ad abbassarla, per arrivarci sarebbe bastato aprire la porticina basculante e infilarci dentro il braccio armato di quella prolunga.
Pensai che il manico di un ombrello sarebbe stato l’ideale, cercai tutt’intorno puntando la luce in ogni angolo del giardino. C’erano cianfrusaglie un po’ dappertutto ma niente ombrelli. Alla fine trovai qualcosa che poteva fare al caso mio: da un mucchio di rottami e sterpaglie raccolsi un fascio di fil di ferro, lo spezzai e lo modellai intrecciandolo e piegandolo fino ad ottenere l’appendice che volevo.
Mi sdraiai facendo passare il braccio attraverso la porticina, quindi provai ad agganciare la maniglia. Ero scomodissimo e non vedevo niente ma improvvisamente percepii di aver passato il gancio attorno alla leva della maniglia, lentamente tirai verso il basso facendo attenzione che non si sfilasse. Riuscii ad abbassarla tutta e con uno scatto la porta si aprì.
Malgrado la situazione balorda e precaria in cui mi trovavo, inaspettatamente ebbi una sensazione piacevole: ora non restava che entrare e raggiungere finalmente Cloe!
Entrai e, aiutato dalla luce della torcia, cominciai ad aggirarmi in quel corridoio. Era la prima volta che mi intrufolavo in una casa come un ladro e non mi sentii per niente a mio agio.
Dentro, ogni cosa era ricoperta di polvere; sul pavimento riuscii a riconoscere i resti di animaletti morti assieme a giornali e cocci di vasi e soprammobili rotti sparsi un po’ ovunque. Man mano che mi addentravo l’aria era sempre più pesante e opprimente; avvertii un forte odore di muffa e di marcio provenire dal passaggio che collegava il corridoio a quella che sembrava essere un’ampia sala, probabilmente il soggiorno.
Entrai nella stanza e la vidi: davanti a me c’era Cloe che mi aspettava, e dietro di lei la sua vecchia famiglia!
I Jordan erano tutti riuniti intorno al tavolo al centro della sala, ognuno seduto al suo posto. Erano due anni che aspettavano la visita di qualcuno, e probabilmente Cloe volle che quel qualcuno fossi proprio io.
Paul Jordan non portò mai la sua famiglia in Canada, la lasciò marcire dentro quelle mura, trasformando la sua casa in una tomba. Ora erano lì seduti, immobili, tre manichini scheletriti e mummificati.
Il terrore fu immediato e d’istinto ebbi l’impulso di fuggire a gambe levate. Ma poi sentii Cloe abbaiare sommessamente, mi aveva portato dai suoi vecchi padroni e non voleva essere abbandonata di nuovo, mi diceva di restare perché sapessi finalmente la verità. Così il terrore cedette il posto alla pietà.
Mi chinai su di lei e la strinsi forte, «Adesso ho capito Cloe! I tuoi vecchi padroni avranno finalmente la pace che volevi per loro!» le sussurrai.
Lei mi leccò la faccia, era il suo modo di ringraziarmi.

Epilogo
In base al rapporto della polizia i fatti accertati furono che Paul Jordan scoprì i cadaveri di moglie e figlio riversi in un lago di sangue, dopodiché, preso dall’orrore e dalla disperazione, si suicidò.
Le tracce stabilirono che Emma Jordan sgozzò il figlio Tommy di tre anni con un coltello da cucina, tagliandosi poi le vene dei polsi, gesto già tentato in passato. Paul, oppresso dal senso di colpa per aver permesso che tutto ciò si fosse ripetuto sfociando in tragedia, decise di piantarsi lo stesso coltello nel cuore.
Prima di uccidersi, Paul sistemò i cadaveri di Emma e Tommy, disponendoli seduti attorno la tavola, come per riunirsi a loro in una sorta di ultima cena.
Sono sicuro che tutto ciò avvenne sotto gli occhi di Cloe!
Non so cosa possa capire un cane della follia umana. Quello che so è che Cloe ne è stata testimone, così come è stata testimone e vittima dell’indifferenza degli uomini.
Gli anni che Cloe ha trascorso da sola, sopravvivendo alla fame ed ai tanti pericoli di una città popolata da umani indifferenti e ostili, rifugiandosi in quella che era diventata una tomba e una tana, la sua tana, io e Mel non potremo mai più restituirglieli.
Ma ciò che adesso mi conforta è sapere che d’ora in poi la nuova tana di Cloe è casa nostra.
E lo sarà per sempre!

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