Cinema Boldini, Martedì 6 Dicembre ore 21.00
v.o. con sottotitoli in italiano
Nick Cave & The Bad Seeds: One more time with feeling
regia Andrew Dominik
One More Time With Feeling è un film-performance nel quale Nick Cave & The Bad Seeds interpretano per la prima volta le canzoni di Skeleton Tree. Lo stile fotografico del film – girato in bianco e nero, a colori e in 3D- riflette l’intimità e l’austerità dell’album, testimonianza cruda e fragile di un artista che tenta di trovare la sua strada attraverso l’oscurità. Performance live delle nuove canzoni si intrecciano a interviste e riprese di Dominik, accompagnate dalla narrazione intermittente e da improvvisazioni e riflessioni estemporanee di Cave che creano un’esperienza coinvolgente, intensa ed elegante.
Il progetto segna il ritorno di Cave sugli schermi cinematografici dopo il documentario di due anni fa, 20.000 giorni sulla terra di Iain Forsyth e Jane Pollard, che ha incassato oltre 4 milioni di dollari a livello globale. Skeleton Tree ha iniziato invece il suo viaggio nella seconda metà del 2014 ai Retreat Studios di Brighton, sessions aggiuntive sono state realizzate ai La Frette Studios in Francia nell’autunno del 2015. L’album è stato infine mixato agli AIR Studios di Londra a inizio 2016.
Il centro di Comacchio riassapora la magia dei presepi artistici sotto gli storici ponti della città lagunare: l’appuntamento entrerà nel vivo con le prime installazioni già dal giorno 8 dicembre con le Natività che verranno realizzate dall’associazione dei giovani barcaioli di ‘Marasue’, dall’associazione culturale ‘Al Batal’, dall’associazione ‘Volontari Chiesa del Carmine’ e da meritori Privati con il supporto di Ascom Confcommercio e di Cmv Energia & Impianti.
Sei i presepi che verranno allestiti sotto altrettanti ponti di Comacchio: “Un esclusività unica e di rara bellezza, che può vantare con giusto orgoglio la città del Trepponti. Per i turisti è davvero è davvero di qualcosa di bello ed originale – spiega Gianfranco Vitali presidente Ascom Comacchio – e che ha riscosso nel passato grande successo attirando l’attenzione delle telecamere della Rai (in allegato una foto di una Natività dell’edizione 2015 ndr)”,
Le opere realizzate con entusiasmo e passione mantengono viva questa bella tradizione di religiosità popolare e rimarranno visibili almeno fino all’Epifania.
Ed intanto sale l’attesa per il week end (dal 17 al 18 dicembre alla Manifattura dei Marinati) con le iniziative dedicata ai mitici Lego dal titolo ‘Supereroi a mattoncini’, promossa da Ascom Confcommercio con esposizioni di modelli e personaggi per la gioia di grandi e piccini allo scopo di ripetere il successo dell’analoga iniziativa svoltasi a dicembre scorso.
Al Bennet Le Valli di Comacchio la terza edizione dell’iniziativa ‘Natale Solidale’ che coinvolge oltre mille alunni delle scuole del territorio
Le tradizionali palline dell’albero di Natale decorate dai bambini del territorio per sostenere la Croce Rossa Italiana. E’ questo lo spirito che anima la bella iniziativa ‘Natale Solidale’, organizzata dal centro commerciale Le Valli e giunta alla terza edizione. I protagonisti saranno gli oltre mille alunni di tredici scuole del territorio che hanno aderito con entusiasmo al progetto e dovranno decorare con fantasia le palline di polistirolo donate dal Centro per trasformarli in originali addobbi per il grande albero di Natale, alto più di 4,5 metri.
L’obiettivo è decorare il maggior numero di palline da proporre al pubblico che potrà scegliere una o più palline e contribuire con un piccolo gesto solidale. L’intero ricavato del progetto di solidarietà – nel 2015 sono stati raccolti 1.752,00 euro – sarà devoluto alla Croce Rossa di Comacchio. Il Centro commerciale ha già scelto 100 palline già decorate dai bambini raccogliendo i primi 700 euro.
Per riuscire a realizzare molte palline e raccogliere fondi, dal 25 novembre al 24 dicembre, i bambini potranno decorarle anche durante il laboratorio creativo che si terrà nel fine settimana a Le Valli. Il laboratorio rimarrà aperto a tutti i bambini che potranno utilizzare gratuitamente il materiale per decorare messo a disposizione dal Centro nei seguenti giorni: il Venerdì dalle 15 alle 19, Sabato, Domenica e l’8/12 dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 19.
Solidarietà, creatività e le belle tradizioni del Natale, dunque, per un’iniziativa che punta a stimolare la creatività mantenendo la tradizione dell’albero di Natale e di vuole sensibilizzare i bambini al tema della solidarietà e del volontariato. E la buona volontà dei più piccoli sarà premiata: alle tre classi che avranno realizzato il maggior numero di palline il Centro riconoscerà a ciascuna 400 euro in buoni spesa, utilizzabili presso l’Ipermercato Bennet per l’acquisto di materiale scolastico.
A seguito dell’esito del Referendum intendo, come prima cosa, ringraziare tutti coloro che si sono spesi per questa lunghissima ed estenuante campagna elettorale, oltre a tutti quelli che si sono recati a votare.
Di considerazioni ce ne sarebbero da fare tantissime, mi concentro sulle principali.
Innanzitutto i cittadini hanno scelto di dire No a una riforma che perfino qualche esponente di Governo definiva non ideale o pasticciata. Al di là di veri obbrobri presenti nel testo, credo che a non pagare la fiducia dei proponenti sia stata l’arroganza di alcuni membri autorevoli della maggioranza, convinti di attuare una riforma da soli, senza l’ausilio e il coinvolgimento delle altre forze politiche in campo.
Questo, oltre al fatto di legare i destini del Governo stesso all’esito del Referendum che ha comportato la coerente ammissione di sconfitta di Renzi e alle sue conseguenti dimissioni.
“Non pensavo che gli Italiani mi odiassero tanto” ha dichiarato il Premier a caldo. Non credo sia così. L’odio pervade una certa fetta di collettività, non così amplia come qualcuno crede. La maggioranza dei cittadini sono semplicemente delusi. Delusi nel vedere calare sempre più il potere d’acquisto dei salari, nel leggere di poteri extra nazionali che suggeriscono o impongono riforme o leggi a loro uso e consumo, nel constatare l’incapacità del Governo di fronte ad emergenze che si allargano a macchia d’olio come lo sbarco di migranti, la fuga di giovani all’estero, la disoccupazione femminile, la tassazione iniqua.
E poi ritengo quantomeno assurda l’idea di promuovere una nuova filosofia della politica quando si sta in piedi grazie agli inciuci con politicanti che hanno cambiato casacca pur di accodarsi al governo.
Renzi se non odiato, quantomeno non è più amato da chi (non solo elettori del Pd) vedeva in lui un giovane lontano dalle vecchie logiche di partito, che proponeva di rottamare il vecchio sistema, a cominciare dalla riduzione degli stipendi nel settore pubblico perché “non può essere – diceva lui stesso – che un manager pubblico guadagni il doppio di Obama”. E invece tutto è rimasto come prima, malgrado si potesse mettere mano a questi casi che colpiscono l’opinione pubblica composta da tantissime famiglie in difficoltà.
Anche a Ferrara il Sì ha perso: di misura nel comune, in modo più drastico in provincia.
Sbaglia però chi si limita a semplificare l’analisi, stabilendo che ha perso il PD. Tra i voti del Sì c’erano universi variegati: oltre al nocciolo duro di elettori renziani, figurava anche chi riteneva giusta la riforma o buona parte di essa, oltre a tanti imprenditori e artigiani che hanno creduto a ciò che veniva richiesto dai mercati. Così come tra il No si inquadravano ali della sinistra estrema, oltre a qualche lembo del Pd, unitamente a partiti sì di opposizione, ma totalmente incompatibili tra loro.
Ecco allora che sia sul piano locale che su quello nazionale scatta l’ora zero. Mentre Mattarella analizzerà il da farsi, occorre che chi intende davvero assumersi l’onere della guida del Paese sappia avere quella lucidità e quella maturità necessarie a non lanciare semplicemente slogan, ma a imbastire un’unione basata su programmi reali e concreti, capaci di coinvolgere la Maggioranza silenziosa e delusa di questa nazione.
Appuntamento al Teatro Comunale De Micheli martedì 6 dicembre alle ore 21 con ‘La principessa Sissi’, musical liberamente ispirato all’omonimo film di Ernst Marischka, messo in scena nell’adattamento della Compagnia Corrado Abbati, con elaborazione musicale di Alessandro Nidi, in una nuova produzione in esclusiva nazionale.
Per informazioni 0532 864580, www.teatrodemicheli.it
Martedì 6 dicembre presso la sede di via Caldirolo
Incontro Cna sul fisco che cambia
“Qualcosa sta cambiando” in materia di fisco e se ne parlerà martedì 6 dicembre, alle ore 21, presso la sala convegni della direzione provinciale della Cna (via Caldirolo, 84 – Ferrara), con Claudio Carpentieri, responsabile nazionale Politiche fiscali dell’Associazione. Difatti, Cna promuove un incontro con le imprese associate, nel quale si entrerà nel merito delle importanti novità fiscali, che si profilano nel 2017 per le piccole e medie imprese. In particolare, si approfondiranno problematiche, quali il superamento degli studi di settore, la cosiddetta «contabilità per cassa», le nuove opportunità per le imprese che scelgono la contabilità ordinaria e la rottamazione dei ruoli Equitalia.
Martedì 6 dicembre ore 17:30
Presso la storica sala dell’Oratorio San Crispino
Libreria Ibs+Libraccio di Ferrara
Decorazioni e minibox vi aspettano per essere colorate con la sabbia… tutti i piccoli artisti sono invitati
da Ibs+Libraccio per fantastici laboratori creativi!
Partecipazione gratuita con prenotazione obbligatoria. Max 15 bambini
Durata dell’incontro 1 ora circa. Età consigliata: dai 6 anni
Per informazioni e prenotazioni: 0532241604; eventife@libraccio.it
Martedì 6 dicembre alle ore 21, nella Sala delle Stilate dell’Abbazia di Pomposa, si terrà una conferenza sulla figura e gli scritti di Hetty Hillesum. La professoressa Rossella Bellese presenta la straordinaria parabola della vita di questa studentessa universitaria ebrea olandese, morta ad Auschwitz nel 1943 insieme alla sua famiglia. Il tema della conversazione, “Dalla paura di vivere all’eroismo”, descrive le tappe della trasformazione umana e spirituale della giovane donna, nei pochi anni tra l’occupazione dell’esercito tedesco e la deportazione nel campo di sterminio. I diari e le lettere che testimoniano la sua fulminante maturazione interiore sono stati trovati e pubblicati solo trent’anni fa.
Mercoledì 7 dicembre 2016, alle ore 17.30 presso La Feltrinelli.
Sarà presentato il libro di Andrea Cirelli ‘I libri non finiscono mai’ Este Edition editore.
Dialogano con l’autore Sergio Gessi e Riccardo Roversi.
“I libri portano cultura, conoscenza, approfondimento. I libri si leggono per capire, per distrarsi, per migliorarsi, per studio, per diletto, per curiosità. Chi scrive libri lo fa per essere letto, per portare il proprio pensiero, i propri sentimenti, i propri interessi, le proprie conoscenze. I libri non hanno tempo. Si leggono sia quelli di ieri che quelli di oggi. I libri sono per sempre. I diari, le note, gli appunti, invece, si scrivono per se stessi, per ricordarsi di cose vissute, per mantenere nel tempo i propri sentimenti, per fissare le proprie emozioni e le proprie esperienze. I quaderni sono privati. Forse.”
Renzi aveva vinto da Premier futurista, veloce e molto promettente la sua ascesa politica, il famoso Stil Novo 2.0, poi ha governato da perdente neodemocristiano (si salva solo la politica spot mediatica): ha perso finalmente da leader, senza giri di parole. Ha dato le dimissioni e ora è finalmente finita la sinistra. Da un Matteo all’altro, da domani per la rivoluzione italiana di Matteo Salvini, il nemico sarà il Grillo neoluddista dopo la scomparsa di Casaleggio, la fu sinistra appartiene al Museo di Scienze Naturali. Ripetiamo Matteo Renzi ha dato, clamoroso in Italia, le dimissioni immediate, anche umanamente convincente il discorso finale postreferendum disfatta, 20 punti di vantaggio il No e grande rispetto per l’avversario, come Obama con Trump, una volta visti i numeri… persino incommentabili. Ha perso Renzi, è stata resettata la sinistra, su questo punto più generale Renzi non ha colpe: in realtà mai gradito dall’apparato, poi Renzi ha sempre partorito topolini dalle montagne annunciate. Avesse promosso il referendum con modifiche ben più radicali della Costituzione e “patteggiato” con le opposizioni un altro tipo di Si, subito dopo le dimissioni per andare legittimamente a votare e finire l’equivoco istituzionale che dura dal golpe Napolitano Monti… ma appunto sarebbe stato un Premier come aveva promesso e non solo virtuale… Il suo mandato troppe fiction con le forze istituzionali meno credibili … Alfano e cattodemocristiani doc, i resti già morti dell’era Berlusconi, l’improbabile Franceschini -sic.- alla Cultura! Una politica filo migranti buonista suicidale che resta il suo tremendo virus per il futuro dell’Italia e l’incapacità di fare davveroo la voce grossa con l’Unione Europea in coma terminale. Ora avanti il nuovo Matteo della destra 2.0. Matteo Salvini, con Giorgia Meloni in pole position e dama ispiratrice come Marina le Pen…. ( E Berlusconi, onore finale anche a lui ma si tolga dalle palle per limiti di ..storia…superati). Una volta tanto, in Italia, c’est la vie, anche in Politica. E ora, appunto, anche a Ferrara, suona già, tempo reale nella notte, scoccata l’ora della fine del PD: Tagliani che si consola con una sconfitta piu lieve (sic) in città, preoccupato per la legittima vittoria degli avversari evocando chissà quali scenari, Vitiello che come un testamento a 30 anni! svanvera ancora di una politica migliore. La sconfitta di Renzi: non ha caso si è dimesso perchè è un fallimento politico non solo per un riforma debole e poco chiara, ma proprio per tutte le fissazioni che ha anche il PD locale. Buonismo ultra pro migrante, estetismo fino sè stesso, egemonia culturale e mediatica arrogante e antidemocratica, poco ascolto delle opposizioni definite fino a pochi mesi fa e ancora oggi (e metà dei ferraresi) quasi dei folli allucinati razzisti che percepiscono solo il Reale diverso dal radioso avvenire della città multietnica e del Rinascimento astratto neoestense di cui Ferrara, quante volte lo han detto anche Franceschini e (sic!) Maisto. Ora – se captassero le oneste e non prevedibili dimissioni nazionali di Renzi – Tagliani, Modonesi, Maisto, Vitiello, ecc., prefetto Tortora incluso: o dimissioni anticipate per manifesta impotenza politica per il futuro di Ferrara o svolte (Tagliani a volte sembra farlo, ma poi…) ascoltando sul serio le opposizioni e cambiamenti di rotta radicali. Da domani la rivoluzione italiana anche ferrarese è una idea che ha trovato dei droni già in volo.
“Oneri e onori”. Sta probabilmente in questa attribuzione – da parte di Renzi – “a chi ha vinto” la chiave di comprensione dello scenario politico dei prossimi mesi: gli onori per una vittoria virtuale, gli oneri per la gestione di una situazione oggettivamente complessa.
Renzi si è giocato tutto in questa partita, e ha perso: ma ha perso una battaglia, non la guerra… Avesse vinto, avrebbe potuto completare la legislatura agendo sostanzialmente incontrastato per il prossimo anno e mezzo, forte di un’investitura popolare resa tale dal carattere plebiscitario che per primo ha attribuito alla consultazione referendaria. Invece ha perso, incassando però un pesante 40 percento di consensi che, se da un lato costano la bocciatura della riforma, dall’altra lo autorizzano a tentare una nuova ciclopica scommessa, confortato nel suo ego da una potenziale base elettoralmente ampia, quel “popolo del sì” che ha ringraziato “con un ideale abbraccio, uno per uno…”: con il 40 percento si perdono i referendum, ma si stravincerebbero le elezioni.
Ecco perché il premier uscente potrebbe covare l’idea di tentare l’azzardo estremo e domani, alla direzione del partito, presentarsi dimissionario anche dalla carica di segretario del Pd, denunciando le resistenza e i freni al cambiamento opposti da una parte della nomenclatura interna. I partiti come macchine del consenso ormai non funzionano più. Da perderci realmente avrebbe la struttura organizzativa. Ma, nella società liquida, si ragiona di partiti leggeri e ciò che fa presa è la capacità di esercitare una forte leadership. Sarebbe certo un terremoto. Ma in termini strategici gli garantirebbe però una rigenerazione personale e mani totalmente libere per poter tentare l’avventura in solitaria, facendo leva sul suo carisma, con i fedelissimi accanto, al vertice di una nuova formazione politica, lasciando agli altri (Pd incluso) gli oneri della gestione da qui alle elezioni. In fondo con questo approdo darebbe una parvenza di senso alla sua proclamata intenzione di “lasciare la politica” in caso di sconfitta: sarebbe un tirarsi fuori e ricominciare daccapo. Potrebbe anche temporaneamente defilarsi per poi tornare in scena a furor di popolo… Ma quel che farà è per ora solo nella sua testa. Di certo non si lascerà logorare da un ipotetico reincarico per formare un governo elettorale dedito esclusivamente all’approvazione del bilancio e al varo (peraltro non semplice, dati i contrastanti interessi fra le forze parlamentari) di una nuova legge elettorale.
“Oneri e onori a chi ha vinto”, ha proclamato sicuro. Non sarà facile gestire la transizione. Un voto a primavera – come sarebbe logico e auspicabile per non trascinare l’incertezza, aggravare la crisi e affossare ulteriormente il Paese – non consentirebbe alla forze politiche di riorganizzarsi: il Pd già dilaniato e adesso ancor più lacerato, la sinistra radicale non trova un’identità solida e convincente, lo schieramento del centrodestra è diviso e litigioso, l’unico partito saldo sulle sue posizioni è la Lega di Salvini che però da sola conta solo su un ipotetico 12 per cento di consensi e fatica a stringere alleanze solide con gli altri rappresentanti del suo fronte elettorale.
Mentre un Renzi alleggerito dagli apparati ripartirebbe, appunto, da un 40 percento di elettorato in teoria non ostile e soprattutto avrebbe carta bianca. E libero sarebbe soprattutto di poter promettere (la cosa che meglio gli riesce) senza essere messo alla prova dei fatti, perché nei prossimi mesi toccherà agli altri, che già faticheranno a mettere insieme una qualche maggioranza parlamentare in grado di sostenere un governo di transizione. E lui potrà giudicare le incapacità altrui, le incertezze, gli sbandamenti. Ci sarà chi spinge per trascinare la legislatura per riorganizzare le fila o per garantire ai parlamentari la cospicua pensione. D’Alema, per esempio, già gracchia: “irresponsabile votare ora”. E Renzi sarà lì, con l’indice puntato, a segnalare le colpe e le incapacità.
Il nuovo Renzi si è già visto in tv, un’ora dopo una sconfitta che non deve essergli piovuta in capo come una meteora. All’evenienza era preparato. E l’ha affrontata con grande dignità e un discorso di commiato convincente ed efficace al punto da strappare un plauso pure a un nemico giurato come Peter Gomez, che con Marco Travaglio è la storica colonna del Fatto Quotidiano, giornale antirenziano per eccellenza.
E’ stato un Renzi ragionevole, quello della notte scorsa: almeno all’apparenza pacato, appassionato, generoso, responsabile al punto da caricarsi il fardello delle colpe e attribuire merito a chi si è impegnato – “spinto da pura passione” – nella battaglia per il cambiamento. Una battaglia che ora è pronto a ricominciare, forse addirittura senza nemmeno più la necessità di quella base di ancoraggio che è stato il Partito democratico all’inizio della sua avventura ai vertici della politica nazionale e poi nella immediatamente successiva esperienza di governo. Allora era uno sconosciuto, il “rottamatore” che gustava le logiche dei vecchi tromboni del Palazzo. Ora tutto il mondo invece sa bene chi è Matteo Renzi. E lui può pensare di mettersi in proprio. Convinto (con quel ‘pizzico’ di presunzione che non gli manca…) che chi lo ama lo seguirà.
Gholam Najafi è nato in Afghanistan, ha 23 anni e vive a Venezia.
È arrivato in Italia come minore straniero non accompagnato all’età di 16 anni, dopo un lungo viaggio iniziato quando aveva appena 10 anni, in seguito all’uccisione del padre da parte dei talebani.
Gholam è l’esempio di un ragazzo che ce l’ha fatta: lavora, sta per concludere la laurea magistrale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia ed è autore di un libro: “Il mio Afghanistan” (ed. meridiana, 2016), dove ha raccontato la sua storia.
Oggi pomeriggio alle 17.30 Gholam Najafi presenterà “Il mio Afghanistan” alla libreria Feltrinelli di via Garibaldi.
“Prima di scendere a terra mi sono agghindato con cura. Ho indossato i vestiti puliti che avevo preparato in un sacchetto di nailon e portato con me sotto il camion, mi sono rassettato e ho messo piede in Italia”
Dialogheranno con l’autore Elena Buccoliero, Ufficio dei Diritti dei Minori del Comune di Ferrara e Daniele Lugli, Movimento Nonviolento Domanimattina, inoltre, Najafi sarà protagonista alla sala Estense di un incontro rivolto a studenti degli istituti superiori mentre dalle 14.30 alle 17.30, nell’aula magna dell’Istituto Bachelet (via Monsignor Bovelli 7), interverrà al seminario “La paura dell’altro negli adolescenti ferraresi”.
Il lavoro minorile in Turchia è un problema reale e conosciuto: l’utilizzo di fornitori che utilizzano nei propri stabilimenti e laboratori bambini siriani (e non) da parte di grandi marche come H&M e Next è stato già dimostrato da tempo. In periferia ho visto personalmente tutto questo è amplificato con effetto frastornante, rendendo tutto, paradossalmente, assolutamente normale.
La prima volta che cammini per le strade di città come Kilis o Reyhanlii rimani travolto dal numero di bambini di qualsiasi età che lavorano. Con alcune distinzioni. La prima è sicuramente quella “della origine”: i bambini turchi sono evidentemente inseriti in un contesto famigliare che li porta a crescere nella bottega di famiglia, insieme a fratelli e parenti, creando una catena generazionale di responsabilità e di impegno all’interno del proprio gruppo. Li vedi servire ai tavoli, pulire a terra, scaricare cassette di verdura o sacchi di vestiario, a qualunque ora, insieme alla propria famiglia. La stessa cosa accade in quelle strutture che molti siriani hanno potuto realizzare aprendo piccoli negozi di rivendita o ristorazioni più o meno diversificate.
Esiste poi una quantità innumerevole, disarmante, di piccoli abitanti delle strade che dalla mattina presto fino a notte inoltrata sono presenti per cercare di recuperare qualcosa. Soli, lasciati a se stessi, sono organizzati raramente in gruppetti di 3-4, spesso in coppia, il più delle volte da soli; molto dipende dal carattere e dalla loro età. I più piccoli girano timidi, sguardo basso, il loro successo è dato dalla possibilità di vendere delle merendine, dei biscotti, caramelle o fazzolettini di carta alle persone che passano per le strade del centro, che evidentemente faticano ad avvicinare.
Una volta in grado di trascinare un carretto, che aumenterà di volume in base all’aumentare della capacità del bambino, il lavoro si trasforma, spesso, in quello di raccoglitore di rifiuti di plastica o alluminio o qualcosa.
I bambini si trasformano, inesorabilmente, in sporchi piccoli fantasmi, sempre più chiusi e schivi con l’aumentare della propria consapevolezza e distanza dagli “altri” che popolano la strada.
Ogni giorno, tutti i giorni, ogni settimana da mesi, in attesa che qualcosa possa cambiare perdendo l’intera infanzia sulla strada.
La campagna elettorale è stata talmente lunga ed estenuante che verrebbe voglia di chiudere questa pagina e di non parlarne per un po’. Una pagina non gloriosa per i toni divisivi, il linguaggio da tifoserie sportive, la demagogia altisonante di chi (come il Premier) aveva voluto il referendum per segnare un cambiamento di passo radicale della politica italiana. Per il tono rissoso di chi ha usato questo evento come occasione per regolare i conti in un partito in cerca di una strategia. Per il tempo sprecato, mentre tutti i problemi che il nostro Paese vive restano lì e non potranno certo giovarsi di una fase, inevitabilmente lunga, di instabilità. Per le macerie che restano e renderanno più difficile abbassare i toni, come molti auspicano. Le logiche plebiscitarie sono sempre pericolose, in esse vi è un implicito rischio di autoritarismo. Il populismo ha comunque vinto qualche populista più autentico degli altri (Grillo e Salvini) resterà il primo titolare dell’incasso.
Sarà difficile non parlarne soprattutto perché l’alta percentuale di partecipazione al voto ha detto quanta frustrazione e quanta rabbia alberghi negli animi degli italiani. Sarà interessante analizzare la composizione sociale (e non solo regionale) dei due schieramenti, per comprendere meglio la profondità della crisi di rappresentanza a cui i partiti si trovano di fronte. La politica non è solo una questione di regole, anche se le regole hanno la loro importanza, per preservare la democrazia da derive illiberali. La politica è una questione di capacità di proposta, di indirizzo e di visione. La democrazia è anche una questione di risultati e la possibilità di rimettere in moto la crescita è l’imprescindibile condizione per ridare fiducia e consentire al nostro Paese di non essere progressivamente emarginato nel complesso quadro internazionale.
La sinistra ha di fronte un periodo molto difficile, credo che nessuno abbia nulla da festeggiare: le difficoltà persisteranno a lungo e meriteranno molto più che un regolamento di conti interno al PD. La sinistra deve imparare almeno due linguaggi che non le appartengono per storia e cultura e che non è facile praticare nel contesto odierno. Il primo è il linguaggio della crescita e dell’innovazione, che non può essere dichiarato solo ritualmente e considerato, di fatto, un prezzo da pagare al mondo dell’economia. Il linguaggio della crescita deve assumere fino in fondo la realtà della globalizzazione (ormai inconfutabilmente inscritta nella traiettoria del mondo), dimostrando di comprenderne appieno i vantaggi, senza ignorarne gli effetti critici nel breve periodo. Il secondo è il linguaggio della mediazione, che ha caratterizzato importanti leader politici nel primo dopoguerra, ma che non ha mai coinvolto i militanti ed è stato, negli anni senza eccezioni, interpretato come necessità tattica, piuttosto che come valore in sé.
Il linguaggio del conflitto ha sempre prevalso (basta scorrere le pagine di FB di queste settimane per vederne esempi), mentre il linguaggio della mediazione è stato storicamente subito dalla necessità di una legittimazione nell’area di governo, piuttosto che come costitutivo carattere di un partito interno al gioco democratico. Il PD si trova, quindi, di fronte ad un drammatico e impegnativo dilemma: trovare un’identità e una strategia compatibili con la presente fase storica. Gli appelli alla ricomposizione suonano molto retorici di fronte all’evidente dilemma politico che alberga nel PD. Mi auguro che le ragioni del no non occultino una tale enorme sfida.
Ammettiamolo: tutti noi abbiamo almeno un parente che è andato altrove, negli States, a rincorrere l’American dream, “perché -diceva- qui non mi sentivo realizzato”.
E se non sono i cugini, sicuramente conosciamo qualcuno che ha vissuto o vive là, grazie ai quali abbiamo potuto imparare molto sul loro modo di fare politica (che forse non è poi così lontano dal nostro…)
Justin Trudeau, attuale primo ministro canadese, ha vinto le elezioni nel 2015, dopo 13 anni di governo del conservatore Stephen Harper, presentandosi da Sinistra come un ottimista innovatore ma anche rottamatore: aveva fra le sue principali intenzioni quella di dare una svolta alla politica tradizionale in Canada, in modo da dare un’identità più forte al Paese, che fino a quel momento aveva dipeso da qualche altra potenza.
Ma dietro alla faccia di questa nuova Sinistra così politicamente corretta che alla parola “cambiamento” attribuisce anche il significato di “miglioramento”, le posizioni che adotta in merito alla tematica dell’ambiente, dei lavoratori, e della politica estera non sono poi così democratiche e di certo non mirano a tutelare quella base elettorale su cui la sinistra ha sempre contato (lavoratori, piccola- media borghesia, minoranze etniche).
Jordy Cummings, attivista e critico canadese lo definisce una “Ted conference vivente”, e sottolinea come la sua immagine di premier muscoloso e piacente, e primo ministro dei selfie stia ormai spopolando in tutto il mondo. Per ora però non ha ancora fatto irrimediabili torti a nessuno, quindi gode ancora di un buon consenso.
Viste le doti da rottamatori, uomini della nuova Sinistra, bravi oratori e soprattutto assi dell’autoscatto, sembra che Justin Trudeau e Matteo Renzi possano avere qualche gene in comune. E pensare che condividono anche lo steso incarico non può che confermare questa tesi.
Basti spostarsi poco più a sud geograficamente, ed ecco che ci troviamo negli U.S.A., dove l’otto novembre il popolo ha scelto come suo presidente Donald Trump.
The Donald non ha niente in comune con Trudeau, né con Renzi: nonostante sia il leader del partito Repubblicano, non ha niente a che vedere con la politica tradizionale, ma si pone davanti ai suoi elettori prima come cittadino, poi come politico. Nella sua campagna elettorale si è presentato fiero dei suoi successi, un self-made man, la prova in carne ed ossa che chiunque ce la può fare a diventare ricco e possedere ciò che vuole se solo si applica e dedica la sua vita al duro lavoro. Che poi abbia avuto migliaia di flirt con belle donne, forse è una conseguenza dei fattori elencati prima, visto che la bellezza non è la sua dote principale, soprattutto non è il suo ciuffo a colpire…
Dunque come, davanti a tutti questi elementi, non ci si può richiamare a Silvio Berlusconi?
Se non sono parenti, sicuramente sono ottimi amici!
Ma non dimentichiamoci che siamo al di qua dell’oceano: e mentre Renzi vorrebbe essere percepito meglio dall’opinione pubblica e dalla gente, proprio come il suo “cugino” Justin; durante i suoi mandati da primo ministro, Berlusconi avrebbe di certo desiderato avere un Presidente della Repubblica come Donald Trump.
Nel 5 dicembre del 1970, Dario Fo mette in scena per la prima volta morte accidentale di un anarchico. Nel ’97 vinse il Nobel per la letteratura “perché, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi”. Meno di due mesi fa è passato a miglior vita, lasciandoci in eredità un modo del tutto rivoluzionario di fare teatro, satira, politica, e letteratura nello stesso momento.
“In tutta la mia vita non ho mai scritto niente per divertire e basta. Ho sempre cercato di mettere dentro i miei testi quella crepa capace di mandare in crisi le certezze, di mettere in forse le opinioni, di suscitare indignazione, di aprire un po’ le teste. Tutto il resto, la bellezza per la bellezza, non mi interessa”
Dario Fo
Una quotidiana pillola di saggezza o una perla di ironia per iniziare bene la settimana…
Sembra impossibile ma questo 2016 si avvia a terminare in un modo ancora più assurdo di com’era iniziato.
Escono articoli intitolati “andare ai concerti fa schifo”, abbiamo appena votato, c’è freddo e c’è stato persino il revival dei finti sequestri di persona.
A questo punto boh, mi chiedo cos’altro può capitare.
Poi però penso che c’è freddo, ho appena votato, di Lapo Elkann non me ne frega niente di niente e sotto sotto è da un anno buono che evito di andare ai concerti.
Le rare volte in cui quest’anno mi sono ritrovato a qualche concerto sono state frutto di una specie di amichevole deportazione.
Insomma, proprio come quei finti sequestri di persona.
Mi ritrovavo in macchina coi miei amici, bello pimpante a sparare cazzate e a ridere, poi scendevo dalla macchina, mi mettevo più o meno in prossimità del palco e appena attaccavano a suonare: zac!
Ecco che iniziava la rottura di palle, uno sbadiglio tira l’altro e ciao.
Una volta ho persino dormito per davvero.
E allora mi sono chiesto: ma perché mi rompo le palle?
Non lo so.
Sto ancora indagando.
Ho provato a esaminare attentamente la mia vita e il mio modo di vivere la musica e tutto ciò che la circonda.
Ho fatto degli schemini e delle liste che ripropongo qua sotto per cercare di chiarirmi ancora le idee alla luce del sole.
Come direbbe un medico: forse è una questione di dieta.
E allora ecco la mia dispensa di quest’anno:
– Doors
– Hendrix
– Blue Öyster Cult
– Black Sabbath
– Stooges
– Metallica
– Motörhead
– Ac/Dc
– Nirvana
– Alice Cooper
– Beach Boys
– Bathory
– Sex Pistols
– Suzanne Vega
– Flipper
– Beethoven
– Mozart
– Brahms
– Dvořák
– Chopin
– PiL
– Grieg
– Butthole Surfers
– Alfio Finetti
– Velvet Underground
– Paul McCartney a 360°
– Mahler
– Impact
Sono giorni che guardo e riguardo ‘sta lista e mi chiedo dove sbaglio.
Mi sembra una dieta abbastanza bilanciata, buona per tutte le stagioni ed evenienze sociali.
Ho anche messo musica nei locali parecchie volte quest’anno.
E quello è un compito che richiede flessibilità e un gusto piuttosto vario.
Insomma, sono uno che si adatta.
Posso fare colazione con Metal Machine Music e poi preparare la tavola per l’ora del te servendo anche dei cucumber sandwich presentabili fatti proprio da me con le mie mani, il tutto mentre ascoltiamo insieme i Kinks e conversiamo belli misurati confrontandoci sulla Brexit.
Poi magari la sera prima ci siamo bevuti della birra fumando ottocento sigarette con gli Slayer a buco ma non importa perché ogni momento nella vita ha delle proprie richieste, anzi: esigenze.
E la mia esigenza di adesso è capire cos’è successo al mio cervello.
Continuo a guardare quella lista e non riesco a darmi delle risposte.
Poi arrivo all’ultimo punto in elenco e mi si moltiplicano le domande.
Gli Impact, dio santo.
Eccola la chiave di tutto.
Ho conosciuto gli Impact – o almeno, uno di loro – nel 2008.
Ai tempi suonavo in un gruppo che aveva una saldissima botta hardcore.
Quindi piano, prima facciamo due cenni storici sull’hardcore.
Per convenzione, con il termine “hardcore” (spessissimo abbreviato HC) si indica la seconda ondata punk (1980 circa), quella che invece di calare la velocità spingeva ancora di più, via, a tavoletta e risultato: pezzi che da 2 minuti abbondanti/3 diventavano di 1 minuto e mezzo/1 minuto tondo/anche meno di un minuto.
Ma mica perché erano pezzi corti.
I pezzi erano normali ma come disse una volta Johnny Ramone “li suoniamo così veloci che sembrano per forza più corti”.
E se i pezzi dei Ramones sembravano corti i pezzi dei gruppi HC sembravano dei germogli.
E infatti spesso la batteria nei gruppi HC sembrava proprio il suono del germogliatore che cade da sopra il frigo fracassandosi sul pavimento, con lo splash dell’acquetta a far da colpo di piatto, il tutto ripetuto per un minuto e mezzo.
Sempre per convenzione, l’HC nasce in California e fra i gruppi HC di solito si citano Germs, Black Flag, Circle Jerks, Bad Brains, Minor Threat ma anche gente come i Flipper, i Fear e i primi Redd Kross all’epoca ancora “Red Cross” e all’epoca ancora minorenni anzi, forse nemmeno freschi di pubertà.
Insomma, mentre i primi punk crescevano – o invecchiavano, a seconda dei punti di vista – tanti ragazzini crescevano come tanti bei funghetti non solo in California ma in tutti gli stati di tutti gli Stati Uniti e poi, in breve tempo, dappertutto.
Questa cosa avrebbe generato una rete di conoscenze fra più o meno tutti i gruppi di tutti gli Stati Uniti.
I ragazzi si scambiavano i contatti, si organizzavano i concerti, si davano delle dritte su come/dove registrare i propri dischi, come/dove venderli, si ospitavano a vicenda in caso di bisogno durante i tour e insomma, finirono per dar vita a quella che Steven Blush, autore del fondamentale American Hardcore, ha definito “una storia tribale”.
Tutto questo è successo anche in altre parti del mondo e pamparampampan: in Italia abbiamo avuto quella che a detta di tutti è stata una fra le più belle e peculiari versioni dell’hardcore.
Io all’epoca non ne sapevo niente ma poi ho conosciuto gli Impact e ho iniziato a colmare la mia lacuna veneta di ex veneto e ferrarese acquisito.
Perché gli Impact erano e sono di Ferrara e sono tuttora una delle migliori esportazioni di Ferrara nel mondo.
Tutte le volte che ascolto il loro “Solo Odio” da YouTube mentre sono in treno mi perdo a leggere i commenti degli altri utenti e – se posso dire maial – leggo commenti provenienti da ogni parte del mondo, maial.
Qualche tempo fa era addirittura emersa ‘sta storia di ‘sti giapponesi (non mi ricordo più quante band) talmente in fissa con l’hardcore italiano da arrivare a copiarlo pari pari con tanto di nomi e cantato in italiano che dire maccheronico è poco.
Cercateveli pure su Google e vi cadrà la faccia proprio com’è successo a me.
Ovviamente fra ‘sti fissati c’è pure il gruppo che ha una particolare fissa per gli Impact ma non mi ricordo come si chiama.
Questa cosa farà anche ridere ma la cosa che a detta di tutti rendeva così bello e universalmente apprezzato l’HC made in Italy era proprio la sua originalità.
E per spiegare questo punto lascio la parola direttamente a Gigo degli Impact direttamente dal loro libro Realtà Mutabili (Linea BN Edizioni, 2011).
Tutti i gruppi italiani cercavano di rifarsi a qualche gruppo straniero ma non erano tecnicamente in grado e ne usciva fuori qualcos’altro.
A volte geniale, perché il tentativo di far proprio il suono altrui veniva filtrato da una creatività tutta particolare e molto forte e, di conseguenza, non c’era un gruppo punk italiano che fosse uguale all’altro.
Ogni gruppo aveva una caratteristica tutta sua, con l’eccezione forse dei gruppi milanesi, escludendo i Wretched, che sembravano tutti fatti con lo stampino perché seguivano le mode (che a Milano arrivavano).
Questi attributi hanno fatto la peculiarità del punk-hc italiano all’estero e hanno permesso che venisse apprezzato e continui a esserlo tuttora.
Anche noi Impact ci sforzavamo al massimo, cercando di di suonare i brani dei gruppi che all’epoca ci piacevano di più, ma proprio non ce la facevamo e il risultato è stato una miscela di sonorità nuove.
Tutti i gruppi che ancora oggi vengono ricordati hanno avuto questa caratteristica.
Io e gli altri ragazzi del mio gruppo pseudo-HC invece le mode, anche se le odiavamo, ce le eravamo cuccate eccome.
Noi sapevamo tutto dei Black Flag e compagnia bella, avevamo praticamente tutto il catalogo SST scaricato da internet e quando ho conosciuto Janz – il chitarrista degli Impact – non solo ho imparato un sacco di cose ma ne ho capite ancora di più.
Perché cuccarsi il punk e l’hardcore dopo gli anni 2000 non è come cuccarselo nel ’78.
Quindi lascio la parola a Janz, sempre dal Grande Libro degli Impact:
I primi tempi il punk te lo potevi quasi solo immaginare, perché non esisteva internet, MTV ecc…
A volte era un miracolo persino riuscire a procurarsi un disco o una semplice rivista per avere qualche notizia sul punk, ma forse proprio per questo si era ancora in grado di creare qualcosa di nuovo e di apprezzare al massimo quel poco che passava il convento.
Sapevi che il punk esisteva ma il punk che allora vedevi in TV erano solo dei cazzoni tipo Plastic Bertrand o la Oxa.
Capivi che c’era qualcosa che non quadrava e allora provavi a fare punk come te lo immaginavi tu.
Te lo inventavi.
Gli Impact si formano più o meno nel 1980 dalle ceneri dei Clapham, gruppo “fantasma” in cui militava il celebre Aiace, l’uomo che trovò il nome “Impact” nel 1981, poco prima del loro primo concerto all’ippodromo.
Nel 1981 gli Impact sono Aiace alla voce, Janz alla chitarra, suo fratello Bistek al basso e Gigo alla batteria e sempre con questa formazione, nel 1982, registrano il loro primo demo.
Nel frattempo hanno già iniziato a girare fuori da Ferrara e, soprattutto, a suonare fuori da Ferrara.
Dal 1981 al 1986 circa, gli Impact suonano in giro per l’Italia ma anche in giro per l’Europa.
Nel mentre, fra le pause forzate dovute al servizio di leva e fra vari cambi nella formazione, nel 1983 gli Eu’s Arse di Udine propongono agli Impact uno split Impact/Eu’s Arse ed ecco quindi la prima uscita ufficiale.
Costo totale: 100.000 £ + il prezzo delle fotocopie per le copertine.
Nel 1984 si stabilizzano con la formazione che diventerà quella “classica” con Bistek alla voce, Janz alla chitarra, Diego al basso e Gigo alla batteria.
La formazione “classica” è quella che nel 1984 scenderà a Bari per registrare il loro primo album vero e proprio, un album che rimane uno dei grandi capolavori dell’HC italiano e non solo: “Solo Odio”.
“Solo Odio” è un disco perfetto, uno dei dischi più incazzosi di tutti i tempi, uno dei dischi strumentalmente più interessanti di quell’onda e di quel periodo e ok, lo dico: forse il mio disco italiano preferito.
Dura circa un quarto d’ora e alcuni potrebbero dire “ok-come-“Group Sex”-dei-Circle-Jerks” ma è proprio un altro quarto d’ora.
E’ un disco molto più scuro rispetto a un Group Sex, è un disco hardcore ma è già anche qualcos’altro, qualcosa che sembra una strana macchia densa e appiccicosa fra vari rami della musica “estrema” non solo di quell’epoca.
Sarà la mia percezione ma è un disco che alle mie orecchie suona piuttosto indatabile.
Ha una sua strana e contorta aureola di classicità, cosa piuttosto strana per un album che rispetta anche rigorosamente il canone hardcore.
Forse è per quello che in quest’ultimo anno mi ha fatto compagnia così spesso insieme a tanto rock classico e tanta musica classica.
E adesso mettetevi pure tutti in fila belli pronti per le pernacchie perché la sto per sparare grossa: per come la vedo io forse per “Solo Odio” vale quella stessa cosa che si dice spesso su Mahler.
Perché se è vero che “Mahler non rompe il linguaggio tonale, ma lo spinge fino ai limiti delle possibilità” allora è vero anche che un disco come “Solo Odio” non rompe il linguaggio dell’HC ma lo spinge ai limiti di possibilità, suoni, tematiche dei testi.
Sembra un grande blocco nero, un monolite di carbonio leggero da spostare ma pesante se ti cade addosso, perché ti cade addosso veloce, così veloce che non te ne accorgi e zac! che in quel quarto d’ora ci sei sotto e ci rimani sotto anche per un bel po’.
“Solo Odio” è uno dei pochi dischi che posso mettere su anche per cinque volte di fila perché oltre a non rompere tutte quelle belle cose come il linguaggio tonale, il canone HC e blah blah blah non rompe una cosa a mio avviso molto importante: le palle.
Magari i ragazzi degli Impact stessi e i numerosi fan degli Impact della prima ora mi potranno spernacchiare pure loro.
Ma dalla mia posizione di ragazzo che ha cercato di isolarsi per cercare un’altra verità, ecco, forse a questo punto ho capito perché quest’anno ho ascoltato solo quelle cose di quella lista di prima e ho capito anche perché ultimamente mi rompo le palle ai concerti.
Mi rompo le palle ai concerti perché noto che in questo periodo iperconnesso le mode arrivano anche troppo e per i gruppi – dal più piccolo e provinciale al più lanciato e metropolitano – è praticamente impossibile restarne fuori e cercare di coltivare quell’immaginazione di cui parlava Janz qualche riga fa.
E’ tutto misurato e cotto a puntino e di conseguenza molto poco viscerale.
Ma forse va bene così, i tempi cambiano e cambiano anche i modi di fruire le cose in ogni situazione.
Qualcuno ha parlato di post-verità e io francamente non so se sia il caso di infilarsi in un vespaio del genere.
In questo mondo ognuno paga per qualcosa e ogni situazione ha la propria moneta, dalle cose che compriamo al supermercato alle cagate per la casa nei negozi di cagate per la casa, dai dischi da mercatino ai dischi in edizione limitata serigrafati col sangue e numerati uno per uno con una caccola di diverse fogge e dimensioni applicate a mano negli inserti da ogni membro della band.
Paghiamo ogni volta con una moneta e una faccia diversa e forse chi è sempre stato abituato a pagare con le varie monete ma una sola stessa faccia per ogni occasione non ha più molto spazio o semplicemente se la vive male e si defila perché in quest’epoca di comunicazione sotto steroidi, magari steroidi bio ma pur sempre steroidi, dopo un po’ quel qualcuno che se la vive male si stanca e dopo aver scancherato per un anno intero decide di dirlo chiaro e tondo, con parole semplici: questa cosa mi fa più male che bene quindi ciao.
E decide di prendersi un po’ di tempo per coltivarsi in un modo che ritiene più proficuo e amorevole per la propria indole togliendo così il disturbo.
La buona notizia è che in questo 2017 prossimissimo qualcuno ha deciso che non è il caso di togliere il disturbo e quel qualcuno sono proprio gli Impact.
La notizia è uscita proprio in questi giorni, gli Impact si riuniscono, intanto per almeno due date in Grecia.
Non so chi ci sarà ma so che almeno una volta davanti al loro palco ci sarò io, carico come quando pulisco il fornello con “Solo Odio” a palla.
Salgo sul taxi accolto da un elegantissimo autista che mi preleva al Liceo Ariosto dove si festeggia il compleanno della scuola con una serie d’iniziative straordinarie. Dopo un po’ mi chiede “Allora, cosa votiamo?”; rispondo che non lo so e che comunque non lo direi nemmeno a mia moglie (un evidente falso), ma che comunque la posta in gioco non vale questi sommovimenti di pancia e di testa. Eh si sa! Il solito radical–chic.
Scrive oggi Michele Serra nella sua ‘Amaca’ che se si facesse un gioco per indovinare con chi non vorreste andare a cena dell’eventuale schieramento condiviso, probabilmente ci andreste da soli. E’ vero, quasi sicuramente è vero. Allora che si fa? Si rinuncia al voto? Pessima idea per chi è stato abituato a considerare il voto non solo un diritto, ma un dovere nel sistema democratico. E questo valga anche per il voto referendario che non sposta per nulla il risultato sia che tu vada o non vada a votare. Restano dunque due soluzioni. O voti e nello stesso tempo annulli il voto oppure te ne stai a letto con la consapevolezza di non partecipare alla vita democratica. Ai posteri l’ardua sentenza. Ma non desidero, né voglio, né m’interessa che qualcuno ponga (pre)-giudizi sulla mia scelta.
Chiaramente è un’ipotesi di condotta e mai vi svelerò – beninteso a chi interessa – se è stata applicata o meno ieri.
Sono stufo di sentir parlare di scrofe grilline, di bambinetti petulanti a cui Salvini stringe la mano perché recitano la parte di ‘fuori lo straniero’ a otto anni, di rubizzi Renzi che con la gorgia ci vorrebbero insegnare quale paradiso potrà essere una futura Italia dopo la riforma, di pensose schiere di colleghi accademici che, con voce impostata e grave, vorrebbero convincermi della necessità (?) della loro scelta.
E nell’Italia scomposta, nella ‘Ferara’ in preda ai centenari dove i celebranti s’azzuffano a danno dei celebrati, di minacce di spostamenti d’intere pinacoteche da un luogo all’altro per rendere più appetibile l’offerta turistica (quella scientifica, si sa, conta poco) un momento di commozione prevale nell’ascoltare alcuni momenti della maratona arrostisca, che ininterrottamente si svolge nel salone grande della Pinacoteca nazionale dei Diamanti (forse?) a breve smantellata.
A chi nella sua vita ha svolto nove corsi accademici su Ariosto e il Furioso sarebbe potuto apparire superfluo, se non imbarazzante, secondo le regole universitarie, aderire a questa manifestazione.
No. E’ stato un modo straordinario di riascoltare la parola della realtà ovvero della poesia nella sua nuda verità. Ho sentito leggere il canto XI e il XII, tra i più amati e riconoscibili: Olimpia, Bireno, la condanna delle armi da fuoco, il gioco sensuale di chi vuol raggiungere lo scopo e giacere con la donna amata, le parole che, come carezze descrivono la nudità della donna come un paesaggio di colline e di fiori. Ed ecco schierarsi una intera classe, una quarta del liceo scientifico Roiti. Un’alternanza di voci e di fraseggio tra scambi di acuti e di gravi. Rotolano le parole. Mature nelle voci delle ragazze, adolescenti invece in quelle dei ragazzi invano adorni, come va ora di moda, da mustacchi e barbette. Gli occhi dei ragazzi tradiscono apprensione, quelle delle ragazze fierezza. Scuotono lunghe ‘capellature’ direbbe il poeta, sibilano le ‘essce’ ferraresi in improbabili ‘tzete’. E non importa se, nonostante ragioni di rima evidenti pronunciano ‘Circàssia’ e non ‘Circassìa’. La più bella (la mi’ nonna toscana avrebbe detto ‘la sembra una madonnina’) guarda protettiva i visi un po’ brufolosi dei compagni e uno in camicia bianca sgrana occhi pieni di stupore e di meraviglia. Accolti da convinti e meritati applausi sfilano fieri e lasciano il posto a un gruppo di ragazze straniere. Una di queste recita in lingua slava ( mi sembra…) alcuni versi e poi prosegue in un italiano perfetto. S’alternano dotte signore e convinti signori e il gruppo entusiasta delle bibliotecarie ‘ariostee’. Se di festa si deve e si può parlare, lo scopo è raggiunto.
Le celebrazioni per il compleanno del Liceo Ariosto sono altrettanto commoventi. Visi attenti, consapevoli che la festa è qui, avrebbero detto un tempo i miei compagni di liceo. E si parla non del ciuffo di Trump, ma di Ariosto. Di un grande non di un piccolo (…issimo).
Si stanno concludendo le celebrazioni. La febbre provocata dalla bassanite e dall’orlandite scema. Si pensa già ad altri traguardi.
Oggi ci svegliamo con altri pensieri provocati da scelte democraticamente prodotte.
Ma nessuno saprà dirci la verità più della poesia e, per citare rovesciando l’affermazione dell’amatissimo Eusebio-Montale, l’invocazione sarà: “Chiedici la parola che mondi possa aprirti”. E questa parola è e deve essere quella della cultura, della poesia, dell’arte.
Forse Renzi farà finalmente ciò che aveva promesso e per questo gli va dato atto.
Lascia con un discorso inutilmente tronfio: io vi ho dato tanto, ho fatto leggi e Pil dal nulla, ma voi non avete capito. E allora me ne vado, perché non rimango con chi non sa apprezzare. Io lavoro per me e per i miei e poiché non sono riuscito ad accontentare Napolitano, la JP Morgan, i mercati finanziari, me ne vado. Questo è quello che sentiamo, o almeno che intuiamo.
Ma dove sono gli interessi del popolo in questo discorso?
Non credo dovrebbe funzionare così, un politico dovrebbe avere ben chiaro per chi sta lavorando, per gli interessi dei cittadini. Ed è tempo che chi ci governa lo comprenda. La chiarezza di questo voto non sembra abbia scosso le mura dei palazzi governativi, di sicuro non ha scosso l’animo dell’attuale Presidente del Consiglio, chissà del partito di governo, poco votato e molto nominato.
Ma poiché fino ad adesso non avevamo visto grande coerenza nell’ascesa dell’uomo di Firenze, poca corrispondenza tra le promesse e i fatti, tra gli annunci e le conseguenze, allora forse dovremmo sentirci soddisfatti. Ma non mi sento così.
Renzi ha perso il confronto con la realtà, come la Clinton negli Usa e come i “remain” in Gran Bretagna, ha perso nel confronto con il popolo. Prende atto e se ne va.
Ma è questo che un premier dovrebbe fare? Abbiamo emergenze di tutti i tipi, terremoto, migranti, sicurezza, rinnovo contratti, Europa contro. E lui se ne va! Lascia ad altri, al “fronte del no”, la responsabilità di andare avanti. Ma il fronte del No non è un partito, è uno schieramento nato perché bisognava votare per la riforma costituzionale e si poteva votare solo con un Sì oppure con un No. Non c’era un forse, un perché, un come mai, o altro intorno a cui aggregarsi. Non si erano coalizzati Casa Pound con il Movimento 5 Stelle, anche questa è stata una delle mistificazioni di questa campagna elettorale, stupida e senza senso.
Le responsabilità non si cedono, una volta assunte si portano a compimento, si rispettano e in questo modo si rispetta la gente.
Un premier senza visione dall’inizio, e che lascia seguendo la politica del momento, il rancore o le prese d’atto senza senso. Dietro, un Paese che si vuole svegliare che vuole partecipare e che sicuramente merita di meglio, anche rispetto a quelli che dicevano che questa riforma non era fatta bene, ma votavano per il Si.
Un lasciare che è mancanza di rispetto verso il popolo, i cittadini che hanno votato e hanno saputo dire No a una riforma pasticciata, che hanno saputo difendere la loro storia e che hanno saputo dire: vogliamo di più di questo! Una Costituzione che possa essere capita. Una campagna elettorale più onesta e rispettosa della loro intelligenza. Che hanno saputo dire: “vogliamo più democrazia, non siamo pecore da governare”.
Siamo popolo e come popolo meritiamo di meglio, siamo alla ricerca di uno statista che sappia andare al di là del problema del momento, che vada a controllare le fondamenta del palazzo che crolla e lasci stare le finestre. Che sappia capire davvero cosa significhi la lotta per il deficit, il lavoro che manca e la smetta con la continuità di quanto fatto in passato. La colpevolizzazione del cittadino e del lavoratore, la cancellazione della scala mobile, la legge Treu del 1997, la Maroni-Sacconi del 2003, la legge Fornero e il Job Acts dei giorni nostri. Tutto sulla scia della precarizzazione del lavoro.
Uno spaccato della realtà e di quello che erano le ragioni del Si, ce lo dà il voto controtendenza degli italiani all’estero, cioè il voto di quelle persone che non vivono la realtà quotidiana delle ultime riforme, che sono lontani dai problemi reali del Paese e che fortunatamente ci stanno dando la sveglia, dimostra ampiamente che il vero cambiamento era il No e non altro.
Vogliamo di più di queste semplificazioni, stiamo dicendo che siamo in grado di pensare e giudicare, vogliamo il rispetto e un Premier che sappia impegnarsi davvero per il futuro dei nostri figli. E allora sicuramente è giusto che Renzi se ne vada e ci dia una possibilità, ma non così, non semplicemente perché ha legato le sue sorti a questo referendum. In questo modo non avrà l’onore delle armi.
Rispetti davvero la volontà popolare e ci accompagni alle prossime elezioni senza consegnare il Paese all’ennesimo governo tecnico. A quelli che senza legittimazione alcuna fanno le riforme strutturali molto più in fretta e in nome delle crisi e dello spread. In nome delle necessità che non coincidono mai con gli interessi dei cittadini.
Faccia una volta le cose giuste, si bagni di umiltà finalmente in nome degli interessi e della volontà del Paese e serenamente e finalmente ci porti a delle elezioni democratiche, con il rispetto dovuto, e con una legge elettorale che doveva essere la priorità per questo Parlamento.