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Giorno: 8 Dicembre 2016

Un primo assaggio dei presepi artistici sull’acqua a Comacchio

Da: Ascom Ferrara

Sono già allestiti i primi due presepi artistici nella magia della città del Trepponti: quello relativo alla Chiesta del Carmine (a cura dei volontari che fanno riferimento alla omonima Chiesa) e l’altro sotto lo storico Trepponti dove oggi (Immacolata Concezione) erano febbrili gli ultimi ritocchi (a cura dell’associazione Al Batal). Verrà realizzata un’inaugurazione ufficiale di tali Natività – già prevista – per sabato prossimo (il 17 dicembre) in occasione della contemporanea apertura della mostra dei Lego (dal 17 al 18 dicembre alla Manifattura dei Marinati dalle ore ore 10 alle 18,30), con l’iniziativa intitolata ‘Supereroi a mattoncini’ (e non solo) promossa da Ascom Confcommercio con esposizioni di modelli e personaggi per la gioia di grandi e piccini allo scopo di ripetere il successo dell’analoga iniziativa svoltasi a dicembre 2015.
Intanto come dicevamo possono essere ammirate le prime due Natività: si tratta di un primo assaggio della magia delle creazioni artistiche che poi daranno luce e calore al centro storico di Comacchio. Le altre realizzazioni sull’acqua (a cura di Marasue) potranno essere ammirate già dalla prossima settimana.

Autorizzato l’uso del termine generico Pampepato/Pampapato

Da: Ascom Ferrara

La possibilità di usare, finalmente, i termini generici Pampepato/Pampapato rappresenta una marcia in più per quanti producono il famoso dolce tipico di Ferrara anche se non rientrano nei rigidi vincoli dei protocolli Igp
“E’ una vittoria del buon senso”, commentano così da Ascom Confcommercio Ferrara l’autorizzazione ministeriale intervenuta nei giorni scorsi con un importante (quanto attesa) precisazione in merito.
Dunque tali termini in senso generico (appunto Pampepato/Pampapato) potranno essere utilizzati per la commercializzazione a vasto raggio anche da quei produttori (e sono tantissimi), che pur non osservando il rigido disciplinare Igp, realizzano un prodotto di altissima qualità.
Ovviamente permane una precisa condizione: le dizioni protocollari ‘Pampapato di Ferrara – Pampepato di Ferrara’ o legate all’aggettivo ferrarese rimangono invece riservate ed esclusive di quanti seguano ed osservino le procedure legate al marchio Igp. Analogo pronunciamento è arrivato contestualmente sull’uso (consentito) del termine generico cappellaccio o cappellaccio di zucca:
“Con il parere del Ministero competente, che abbiamo sollecitato come Ascom Confcommercio Ferrara a più riprese e collaborando con l’Ente Camerale, abbiamo salvaguardato la creatività e le capacità professionali di tante nostre attività della ristorazione che realizzano un ottimo prodotto artigianale legato alla nostra secolare tradizione anche se non rientrano nei protocolli. E’ un modo per rinsaldare la nostra forza ed eccellenza enogastronomica ed incentivare la proposta massiccia di un dolce tipico del nostro territorio facendone un ottimo biglietto da visita per i turisti” concludono da Ascom Confcommercio Ferrara.

Gli eventi speciali della settimana all’Apollo

Da: Apollo Cinepark

Tanti gli appuntamenti in programmazione all’Apollo Cinepark nei prossimi giorni.

Domenica 11 alle 15.30 per la rassegna ‘Il Cinema Ritrovato’ l’edizione restaurata de IL MAGO DI OZ in collaborazione con la cineteca di Bologna, che verrà riproposto in versione originale con sottotitoli lunedì 12 alle ore 21.00.
Il film di Victor Fleming del 1939, tratto dal romanzo The Wonderful Wizard of Oz di L. Frank Baum è una favola musical considerata come uno dei ‘film di fondazione dell’immaginario americano’. Peter von Bagh, regista, storico e direttore del festival Il Cinema Ritrovato della Cineteca per diversi anni, spiegò che “Non ebbe gran successo all’uscita. Ci vollero vent’anni per recuperare i costi. Ma poi finì per essere trasmesso così spesso in televisione che l’America si ritrovò ipnotizzata a fissare uno strano riflesso di sé”.
Martedì 13, per la serie ‘La Grande Arte al Cinema’ alle ore 21.00 in sala ‘Il Curioso Mondo di Hieronimusch Bosch’, distribuito da Nexo Digital. La più grande retrospettiva mai vista dedicata a Hieronymus Bosch (1453-1516), con l’esposizione di 36 delle 44 opere superstiti della sua produzione. ‘Hieronymus Bosch – Visions of Genius’ del Het Noordbrabants Museum, arriva sul grande schermo, per chi se la fosse persa. La mostra, che si è svolta a ‘s-Hertogenbosch, città natale dell’artista, ha raccolto oltre 420.000 visitatori, accorsi da tutto il mondo per ammirare le bizzarre creazioni di Bosch, con orari di apertura del museo protratti fino all’una di notte per accogliere la fenomenale e inattesa domanda di pubblico a 500 anni dalla morte del pittore olandese.

Ultimi giorni iscrizione scuole infanzia

Da: Comune di Copparo

Scadenza bando: 12 dicembre 2016

Ultimi giorni per le iscrizioni alle scuole dell’infanzia comunali Cadore e Gulinelli di Copparo per l’anno scolastico 2016/2017 per i bambini e le bambine nati negli anni 2011-2012-2013. Le domande di iscrizione possono essere presentate dal 17 novembre 2016 al 12 dicembre 2016.

Simona Severini, giovane e poliedrica cantautrice milanese

Da: Jazz Club Ferrara

Venerdì 09 dicembre, per il penultimo appuntamento 2016 firmato ‘Somethin’Else’, è di scena l’originale crossover – dal folk al jazz, alla musica rinascimentale – della giovane e talentuosa cantautrice Simona Severini. Anticipa il concerto la cena degustazione di vini del territorio prodotti dall’Azienda Agricola Corte Madonnina di Pomposa (FE).

Venerdì 09 dicembre (ore 21.30), per il penultimo appuntamento 2016 firmato ‘Somethin’Else’, è di scena l’originale crossover della giovane e poliedrica cantautrice Simona Severini. Anticipa il concerto la cena degustazione di vini del territorio prodotti dall’Azienda Agricola Corte Madonnina di Pomposa (FE).
Simona Severini si avvale di diversi generi musicali – folk, jazz, musica rinascimentale, ecc. – per elaborare un repertorio che alterna composizioni originali a intriganti rivisitazioni di brani che spaziano da Monteverdi a Brian Eno e Lucio Dalla, pur mantenendo un approccio spiccatamente personale nell’elaborazione musicale.
Dopo una variegata formazione, la carriera di Simona ha spiccato il volo in ambito jazz grazie a importanti collaborazioni con musicisti del calibro di Giorgio Gaslini, Enrico Pieranunzi, Gabriele Mirabassi, Enrico Intra, Tiziana Ghiglioni e Antonio Zambrini. Ha altresì lavorato a fianco di cantautori come Pacifico e Ron.
A dispetto della giovane età, si è così esibita in prestigiosi festival e sale da concerto in Italia e all’estero (Umbria Jazz, Jazz Expo, Auditorium Parco della Musica, Casa del Jazz, Blue Note, Auditorium Di Milano, Paris Jazz Vocal, Festival di Spoleto, Sunset di Parigi). ‘La belle vie’, suo disco d’esordio, risale al 2011 e presenta una serie di brani dedicati e ispirati alla musica di Gabriel Fauré. Lo scorso gennaio è uscito invece ‘My songbook’ (Jando Music – Via Veneto Jazz), progetto in cui la Severini si cimenta su brani composti ed eseguiti da Enrico Pieranunzi. Il 2017 vedrà poi l’uscita di un nuovo album interamente costituito da composizioni originali di cui Simona ci darà qualche assaggio, al Torrione.
Ingresso a offerta libera riservato ai soci Endas. Per informazioni 339 7886261 (dopo le 15.30). È consigliata la prenotazione della cena al 333 5077059 (dalle 15.30).

INFORMAZIONI
www.jazzclubferrara.com
jazzclub@jazzclubferrara.com
Infoline 339 7886261 (dalle 15:30)
Prenotazione cena 333 5077059 (dalle 15:30)
Il Jazz Club Ferrara è affiliato Endas, l’ingresso è riservato ai soci.

DOVE
Torrione San Giovanni via Rampari di Belfiore, 167 – 44121 Ferrara. Con dispositivi GPS è preferibile impostare l’indirizzo Corso Porta Mare, 112 Ferrara.

COSTI E ORARI

Ingresso a offerta libera riservato ai soci Endas
Tessera € 15
NB Non si accettano pagamenti POS
Apertura biglietteria: 19.30
Cena a partire dalle ore 20.00
Concerto ore 21.30

DIREZIONE ARTISTICA
Francesco Bettini

Riabilitazione fisioterapica, rinnovata la convenzione con Idrokinetik

Da: Comune di Copparo

Rinnovata la convenzione tra Comune di Copparo, assessorato alla Sanità e la società Idrokinetik, per i servizi di riabilitazione fisioterapica e di recupero funzionale. L’iniziativa offre la possibilità ai cittadini di Copparo, di usufruire di prestazioni fisioterapiche, considerate risorse preziose per il miglioramento della qualità della vita, a costi ridotti, con una scontistica fino al 40% sui prezzi di listino.
Tutti i cittadini residenti a Copparo avranno uno sconto del 5%, che diventa del 10% se di età superiore ai 65 anni. Lo stesso sconto 10% viene riconosciuto agli iscritti ad associazioni di malattie rare; 15% a disabili con invalidità oltre il 75%; infine il 40% a persone indigenti a carico dei servizi sociali.
Mattia Guerzoni amministratore di Idrokinetik ha ricordato che nel biennio 2014-2016 sono state 650 le persone che hanno usufruito dei servizi, specialmente di fisioterapia, di riabilitazione in acqua e di densitometria ossea.
La nuova convenzione, ha affermato l’assessore alla Sanità Franco Miola avrà validità fino al 30 giugno 2019.
Le modalità per accedere al servizio sono: direttamente, in questo caso ci sarà una prima valutazione fisioterapica gratuita offerta da Idrokinetik; accedere con impegnativa del medico di famiglia; accedere con una valutazione di uno specialista privato.
L’assessore Miola ha infine ricordato che l’amministrazione comunale garantirà, attraverso il volontariato in convenzione, il trasporto ai cittadini non autosufficienti.
Idrokinetik è in via dello Sport, 45 presso gli impianti sportivi comunali.

Natale per il Centro Italia con Ascom

Da: Ascom Ferrara

Natale per il Centro Italia con Ascom. Le prelibatezze gastronomiche di Accumoli, Amatrice e Camerino acquistabili a Ferrara

Come supportare l’economia del Centro Italia colpita dai gravi sismi si sono succeduti nei mesi scorsi? E’ la domanda alla quale Ascom Confcommercio Ferrara, Federcarni e Fida (Dettaglianti alimentari) hanno dato una risposta promuovendo l’iniziativa ‘Natale per il Centro Italia’ che è stata presentata ieri (7 dicembre) in sede Ascom Ferrara.
In una decina di selezionati negozi (macellerie, salumerie di Ferrara e dintorni) aderenti all’iniziativa si troverà una selezione di prodotti alimentari scelti e garantiti – dai promotori – ed acquistati al caseificio fratelli Petrucci (Amatrice), dal salumificio Sano (Accumoli) e dalla Pasta di Camerino (Camerino).
Con questo meccanismo i ferraresi (e non solo) potranno acquistare queste autentiche prelibatezze gastronomiche sostenendo così la ripresa economica di quelle aziende.
“Si tratta – spiega Davide Urban direttore generale di Ascom Confcommercio Ferrara – della fase di presentazione di un percorso che realtà si era attivato il 27 agosto a poche ore dal primo sisma con un nostro primo intervento di solidarietà (5% sugli incassi), proseguito con il triangolare benefico il 10 ottobre fino ad arrivare allo scorso 14 novembre con una nostra delegazione in visita nelle zone colpite presso le aziende del Centro Italia: tali prodotti sono stati poi valutati dai nostri commercianti e sono immediatamente acquistabili presso i negozi aderenti. Chi acquista contribuisce alla ripresa. Un piccolo gesto ma significativo”
Prosciutto Igp, Guanciale Amatriciano, Pecorino di Amatrice oppure la Pasta di Camerino…ed ancora salami, pancetta – Le loro caratteristiche saranno visibili su un sito dedicato (realizzato gratuitamente dalla start up web agency Cosmonawa) e raggiungibile su www.ascomfe.it – e saranno in vendita per soddisfare i gourmet ferraresi.
Alberto Succi (Federcarni) motore del progetto dichiara convinto: “In questo modo le macellerie daranno un loro contributo fattivo e operativo alle aziende terremotate. Nel contempo in questo momento dedicato allo shopping ed alle ceste natalizie questa è un’iniziativa destinato a fare successo”, un entusiasmo che coinvolge Mauro Campi (Fida) che conclude: “Si tratta di una bella iniziativa che invitiamo a sostenere, è davvero un progetto semplice ed efficace. Abbiamo il dovere di essere accanto ai nostri colleghi delle imprese del Centro Italia”. Ecco la lista dei negozi aderenti:
Baguetteria, come vuoi…pane e condimenti (Ferrara); Ferrara Store (Ferrara); La Bottega di Saccenti (Ferrara); La Butega (Ferrara); Macelleria Paltrinieri (Ferrara); Macelleria Succi Alberto (Ferrara); Salumeria Sambri Danilo (Ferrara); Supermercato Campi Mauro (Maiero); Supermercato CRAI La Torre (Trecenta, nel rodigino).

Presentato il programma eventi ‘Natale al mare’ di Porto Garibaldi

Da: Comune di Comacchio

C’è attesa per l’arrivo del ‘Natale al mare’, il ricco calendario di eventi natalizi, presentato questa mattina al ‘Green Bar’ di Porto Garibaldi. La Presidente dell’associazione dei commercianti ‘L’Alba’, Lorena Carli, dopo aver ringraziato tutti i commercianti, le scuole, la parrocchia e le associazioni ed il Comune di Comacchio per aver condiviso la programmazione natalizia, al via ufficialmente da sabato 10 dicembre prossimo, ha ricordato che le letterine con i ‘desiderata’ dei bimbi potranno essere consegnate a Babbo Natale proprio durante il fine settimana. Infatti in viale Bonnet saranno accesi i riflettori sul ‘Paese di Babbo Natale’, abitato da renne, elfi, personaggi magici, tutti ospiti del bosco incantato, abbracciato da una suggestiva cornice balneare. L’iniziativa, decollata lo scorso anno grazie all’idea di due commercianti, Ileana Cantatore (negozio ‘La fata e l’elfo’) e Salvatore Parisi (pasticceria ‘Dei golosi’), “quest’anno conta già su una larga, anche se inaspettata partecipazione di attività commerciali – ha sottolineato Parisi -; speriamo di coinvolgere sempre più esercenti e persone attraverso il nostro progetto, per far vivere il nostro paese, a vocazione turistica, anche in questo periodo dell’anno.” L’Assessore al turismo Sergio Provasi, sottolineando “l’impegno meritorio dei commercianti di Porto Garibaldi”, ha rilevato che “c’è un grande interesse a fare attività in un momento di incertezza. C’è la consapevolezza che il territorio deve vivere tutto l’anno. E’ palpabile la coesione tra gli operatori – ha aggiunto l’Assessore Provasi-, che sono il vero motore del territorio.” Si parte dunque sabato pomeriggio alle ore 15, con replica domenica dalle ore 10, per una full immersion nel “Paese di Babbo Natale”, impreziosito dal bosco, dalle renne, dagli alberelli magici, ma anche dal mercatino e dall’animazione. La lunga traversata nel bosco in viale Bonnet, a due passi dal mare, sarà arricchita dal laboratorio di Babbo Natale, dall’albero della solidarietà, con una raccolta fondi a favore della parrocchia, mentre domenica Babbo Natale ritirerà le letterine scritte dai bambini, con estrazione di tre di esse alle ore 19. ‘Nadàl sota l’arbul’ è invece la manifestazione promossa dalla ‘Famìa ad Magnavaca’, in collaborazione con la parrocchia. “Abbiamo voluto riproporre – ha detto la presidente della Famìa ad Magnavaca Ornella Senni -, una iniziativa che già lo scorso anno aveva richiamato tanta gente, sotto l’albero di natale, al termine della messa di mezzanotte. Si potranno portare da casa bevande calde, dolciumi e spumante, da condividere insieme la sera di Natale.” La Famìa ad Magnavaca collabora inoltre con l’Associazione L’Alba ed il gruppo Ippocampo Sub alla realizzazione della tradizionale manifestazione ‘Natale con i tuoi e… Santo Stefano con noi’, che animerà il portocanale lunedì 26 dicembre prossimo. Marcello Marcialis, fondatore del gruppo Ippocampo Sub, durante la conferenza stampa, ha spiegato che “riprendiamo la fiaccolata nel portocanale, iniziativa nata negli anni ’80, ormai consolidata. Cerchiamo di rinnovarla, puntando al salto di qualità.” Sin dalla tarda mattinata del giorno di Santo Stefano la via Giacomo Matteotti a Porto Garibaldi sarà attraversata dal mercatino natalizio. Alle ore 15.30 la distribuzione di bevande e dolci tipici precederà il concerto della Filarmonica di Tresigallo, che anche quest’anno infonderà una speciale atmosfera di festa all’interno del Mercato Ittico Comunale. Alle 18 i sub cominceranno a prepararsi e a prendere posto sul traghetto, per poi dare vita (intorno alle ore 18.30) alla magica, suggestiva fiaccolata nel portocanale. Il Sindaco Marco Fabbri, parlando di “spirito giusto”, unendosi ai ringraziamenti dell’Assessore Provasi e degli altri relatori, ha elogiato l’operato “di queste associazioni, che hanno collaborato per far crescere il paese e continuano a mettersi in gioco. E’ un momento particolarmente felice – ha aggiunto il Sindaco -, per costruire progetti importanti, tutti insieme, con i commercianti, con le scuole, con le parrocchie. Forza e coraggio aiutano ad essere sempre più propositivi.” Don Andrè Nayeton, ha ricordato che tutti gli aggiornamenti saranno consultabili sulla pagina Facebook dedicata alla parrocchia di Porto Garibaldi. A chiusura della presentazione, il Sindaco ha antiipato la prossima importante tappa culturale, che il 17 dicembre consentirà di ammirare in una mostra unica, senza precedenti, i tesori nascosti di Pompei. Sarà inaugurata infatti, a palazzo Bellini, ad ingresso gratuito, la mostra “Lettere da Pompei” con una serie di preziosissimi reperti, mai esposti in pubblico, provenienti dagli scavi di Pompei, grazie all’accordo siglato con il Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Insomma il territorio comunale si appresta a vivere un Natale ricco di occasioni di intrattenimento e di svago. Il programma completo degli eventi natalizi è consultabile sul sito www.ferraraterraeacqua.it, mentre ogni singola iniziativa è illustrata anche sui social network comunali.

Quando il tempo diventa merce rara, la natura e l’uomo si annullano…
E il lavoro diventa un dio

Sarebbe ora di chiedersi di cosa veramente abbiamo bisogno. Cosa manca a questa società che piange spazi umani, inconsciamente privata di famiglia, ideali e futuro. Alla ricerca di lavoro, casa, vestiti alla moda, cibi esotici, sballi notturni e partite di Champions League. Ragazzini/e di 13-14 anni da lasciare alle 22:00 in discoteca e da andare a riprendere all’1:30 del mattino dopo, una serata con un buco in mezzo.
Cosa manca sul serio alla nostra giornata? Difficili soluzioni quando si insinua il bisogno della velocità di decisione, quando il tempo è tiranno. Il tempo che manca anche per fare la spesa, eppure i negozi non chiudono mai, i supermercati sono sempre lì con le loro commesse tristemente sorridenti di domenica come a Natale, di sabato come a Pasqua. Giornate senza pausa, senza tempo.

I romani avevano costruito un impero enorme tenuto insieme dalle loro strade al fine di favorire i loro commerci e di spostare le legioni dove erano necessarie nel minor tempo possibile. Riuscivano a percorrere anche 30 km al giorno e in un mese potevano coprire una distanza di un migliaio di chilometri. Noi possiamo fare lo stesso in qualche ora, un successo enorme. Ma dov’è finito il tempo risparmiato? A volte lo rivediamo nella scelta di un prodotto su uno scaffale perfettamente uguale a un altro posizionato in un supermercato a migliaia di chilometri di distanza, quando ci sembra di avere grandi capacità di scelta, di avere il mondo a portata di mano.

Lo spazio umano manca in questa nuova società che oramai è già vecchia e come noi vecchi si imbruttisce sempre di più, diventa inguardabile, a volte tristemente inutile al nuovo che fatica ad arrivare perché non trova spazi di espressione.
Le città non parlano più a loro stesse e oramai nemmeno più i quartieri e domani nemmeno i condomini che già non riescono ad andare oltre il buongiorno di cortesia. Lo spazio vitale si restringe a se stessi perché il tempo è poco ed è tiranno ed anche per i figli non ce n’è mai abbastanza. Certo si trova il tempo per accompagnarli in palestra, alla festa di compleanno, in discoteca ma è difficile fermarsi a chiacchierare delle passioni, delle avventure della giornata, delle aspirazioni, dell’aria pulita, del mare.

Tempo per confondere gli spazi umani, mescolarli, riempirli di contenuti che non trovi sugli scaffali del supermercato la domenica, quando una commessa non resterà a casa sua.
Il nostro essere consumatori, oramai a tempo pieno. Forse qui è andato a finire il tempo risparmiato, forse il risparmio è stato massimizzato, economicizzato, reso merce anch’esso. Tutto ciò che si vuole rendere merce viene prima reso raro, difficile da trovare esattamente come il denaro, come il lavoro e qualsiasi altra cosa abbondante in natura, ma resa falsamente scarsa per poter essere venduta al prezzo della libertà dei più.

Tempo e libertà camminano di pari passo e li stiamo perdendo entrambi. Forse non sappiamo nemmeno più piangerli perché non li riconosciamo più. È un processo lungo di spersonalizzazione e di creazione della massa iniziata più o meno un secolo fa oramai. Edward Bernays uno dei precursori del controllo delle masse attraverso i concetti di mente collettiva o fabbrica del consenso capace di far apparire il fumo delle sigarette come una conquista delle donne, un po’ come quando le stesse hanno conquistato nei tempi più recenti il diritto di combattere in prima linea guerre lontane da casa.
Hitler o Stalin e il controllo dell’opinione pubblica, Wilson (ieri come oggi) che entrava in guerra per portare o mantenere la democrazia in Europa e non per combattere i regimi nemici. E i banchieri della Lehman Brothers: “dobbiamo cambiare l’America: da una cultura dei bisogni, a una cultura dei desideri” scriveva Paul Mazur da Wall Street.
E i desideri si sa, vanno oltre quello di cui si ha bisogno o di quello che serve o di quello che è disponibile. Il desiderio va oltre e difficilmente si realizza, e allora si è sempre alla ricerca, in una continua lotta contro il tempo.

È importante il controllo anche del linguaggio nella società moderna, spersonalizzata e senza tempo a disposizione. In questa società “non ci sono risorse per tutti”, per cui diventa normale ed accettabile che ci siano i poveri e i ricchi. “Ad uno Stato è richiesto l’equilibrio di bilancio”, per cui diventano accettabili le tasse oppure la diminuzione della qualità nei servizi o il loro razionamento.
Potenza delle parole che giustificano l’esistenza di re e principi che non combattono più guerre, ma fanno stragi peggiori, che non si vedono, ma distruggono Stati e popoli con la cultura della scarsità e la manipolazione delle parole.

Girando per i quartieri si vedono ancora gli alberi e i fiori. E l’aria è ancora lì, da respirare. I romani arrivavano dappertutto con le loro legioni, soffrivano, ma avevano la natura intorno e potevano guardarla mentre sudavano. Adesso potrebbe essere meglio, potremmo guardare senza sudare e faticare, ma dobbiamo vincere l’ultima battaglia, quella del tempo-merce.

Criticità e bisogni delle nuove famiglie

di Cecilia Sorpilli

“L’immagine che emerge è dunque quella di una famiglia sempre più gruppo e sempre meno istituzione, frutto di scelte sempre meno vincolanti e sempre più frequentemente rinegoziabili, un’esperienza di vita che accompagna l’attore sociale nel corso della sua biografia, cambiando forme e modi a seconda delle fasi e degli avvenimenti che ne sono il contrappunto, piuttosto che passaggio obbligato per entrare nella piena maturità”. Così Paola De Nicola, professoressa di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università degli Studi di Verona, descrive l’attuale universo familiare. La famiglia non più come formazione sociale stabile e immutabile, ma come organizzazione che può evolvere e assumere molteplici e diverse forme sperimentabili da un individuo nel corso della propria vita.

Ogni tipologia familiare ha proprie peculiarità, punti di forza e criticità, ma tutte devono affrontare alcune sfide tipiche del ciclo vitale familiare e della società a cui appartengono.
Con l’avvento della società postmoderna la famiglia si è allontanata sempre più dalla società in cui è inserita, generando così il fenomeno della privatizzazione familiare. Tale fenomeno ha portato a un progressivo isolamento della famiglia che dispone sempre meno di possibilità di incontro, dialogo, confronto con altre famiglie. Tale isolamento e impoverimento di relazioni è un elemento che rende ancora più fragile la coppia, che si trova a dover affrontare in solitudine problematiche educative senza poter avere come sostegno e riferimento una rete informale per dissipare dubbi e paure nel prendere determinate scelte.

I nuovi genitori non ritengono più valido ed efficace il modello educativo utilizzato dai loro genitori, ma allo stesso tempo non hanno un nuovo modello a cui riferirsi e quindi cercano rassicurazioni e conferme riguardo le loro modalità educative divenendo sempre più insicuri riguardo le proprie competenze genitoriali. Al contempo si assiste a un’assenza di una tematizzazione socio-culturale riguardo i ruoli genitoriali che sostenga i genitori nell’acquisizione della consapevolezza di aver in sé risorse, competenze e capacità educative sufficienti e adeguate per crescere i propri figli. A ciò si aggiunge che per i genitori diventa sempre più difficile conciliare i tempi di lavoro con quelli dedicati alla cura dei figli, avvertendo così sempre più la mancanza di tempo necessaria a costruire una salda e adeguata relazione con i propri figli.

Anche il momento iniziale in cui avviene la formazione della coppia non è esente da crisi. La criticità di questo passaggio per la nuova coppia riguarda diversi fattori come la difficoltà di acquistare o affittare una casa, riuscire a divenire autonomi rispetto alle famiglie di origine ridefinendo i confini tra la nuova famiglia e quelle di provenienza, elaborare un codice simbolico proprio della coppia, ecc. L’ingresso sempre più posticipato nella vita adulta con la conseguente dilatazione della permanenza nel nucleo di origine porta i membri delle giovani coppie ad essere impreparati nell’assumersi l’impegno di cura nei confronti di un altro. Quindi sempre più spesso accade che la crisi generata dalla nascita di un figlio non faccia maturare e consolidare la coppia, ma venga vissuto invece come fattore disgregante e conflittuale che può portare alla separazione.

Risulta evidente quindi che un compito fondamentale per la famiglia, come affermano Scabini e Cigoli, rispettivamente residente del Comitato Scientifico del Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia e professore emerito di Psicologia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, è saper superare i momenti di transizione, che essendo momenti di passaggio tra diverse fasi, provocano crisi. “La transizione […] riguarda qualcosa che va lasciato e implica il raggiungimento di un obiettivo/scopo, che si declina in precisi compiti di sviluppo che vanno intesi come sfide e prove da superare con i relativi processi di coping”. Allo stesso tempo però Scabini e G. Rossi, quest’ultimo professore ordinario di Sociologia della famiglia presso l’Università Cattolica di Milano, riconoscono quanto sia difficile per la famiglia contemporanea riuscire a compiere una transizione nel contesto sociale odierno, “a differenza della società premoderna nella quale i passaggi erano momenti comunitari e altamente ritualizzati, nelle società contemporanee le transizioni vengono rappresentate e vissute soprattutto in termini individuali e la dimensione della ritualità sociale è decisamente lasciata sullo sfondo”. Donati, professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna, aggiunge che “la famiglia post-nucleare deve mediare molte più relazioni di un tempo e in reti più mobili e variegate di quanto avveniva in passato. Le mediazioni, poi, è più o meno estesa anche in rapporto alle risorse della famiglia, al suo sistema di valori e al contesto in cui è inserita”; quindi anche Donati, come molti altri autori, riconosce la complessità e le possibili criticità dei nuovi contesti familiari.

Secondo Bartolini, ricercatrice in Pedagogia sociale, familiare e interculturale presso l’Università degli Studi di Perugia, il compito dell’educazione è di aiutare la famiglia ad acquisire strumenti adeguati per superare le crisi che le diverse fasi evolutive familiari producono. Sostiene inoltre che sia dovere delle politiche sociali tutelare le relazioni familiari, ma soprattutto garantire al nucleo familiare la possibilità di accostarsi ai Servizi che sostengono la genitorialità. Bartolini sostiene anche che ogni pensiero e intervento di pedagogia familiare debba rispettare e valorizzare ogni tipologia familiare potenziando le risorse presenti in ogni ambiente familiare perché “tutte le tipologie familiari hanno lo stesso bisogno educativo, seppure con modalità diverse, e tutte debbono poter essere destinatarie di percorsi di preparazione alla vita familiare e di sostegno alla genitorialità”.

Il mestiere di scrivere.
Gli ‘spettri ad altezza di naso’ di Carla Sautto Malfatto

Intervista a Carla Sautto Malfatto: scrittrice, poetessa, pittrice. Ha collezionato più di 120 premi, l’ultimo dei quali le è stato assegnato da una Giuria presieduta da Alessandro Quasimodo

di Eleonora Rossi

“L’arte di scrivere – annotava Henri Bergson – consiste nel far dimenticare al lettore che ci stiamo servendo di parole”. Perché scrivere è raggiungere il cuore di chi legge, saper emozionare. Con questa profonda convinzione Carla Sautto Malfatto si dedica appassionatamente alla scrittura. La parola non è soltanto il suo spazio vitale, di realizzazione e libertà, ma un talento che le è riconosciuto dai prestigiosi premi nazionali ed internazionali collezionati in questi anni: una scia luminosa di traguardi che si possono ammirare, accanto alle opere letterarie e pittoriche, sulla sua pagina www.carlasautto.it.

Sei riconoscimenti letterari le sono stati conferiti soltanto nel mese di ottobre 2016. L’ultimo di questi, al Premio letterario internazionale “Energia per la Vita” promosso dal Lions Club Rho, le è stato assegnato il 15 ottobre da una giuria presieduta da Alessandro Quasimodo, attore e regista, testimonial nel mondo della poesia del padre, il Premio Nobel Salvatore Quasimodo. A Rho, Carla Sautto è stata proclamata vincitrice assoluta della sezione narrativa con il suo racconto inedito “Blues”, mentre pochi giorni prima era stata premiata al teatro Comunale di Canaro per la poesia “Accelerazione”, aggiudicandosi il XXXII Premio nazionale di poesia “Cosmo d’oro”. Primo posto anche per un’altra poesia, “Per dirci”, al XXVII Premio “Valle Senio” di Riolo Terme, unita ad una menzione speciale per la narrativa. Al XII Premio letterario nazionale “Il Trebbo” di Riolunato, la scrittrice ha ricevuto il secondo premio per la lirica “Senza nemmeno un paio d’ali”. Infine al V Concorso internazionale “Locanda del Doge” – con 400 volumi concorrenti – Sautto ha conseguito un premio speciale per il libro di racconti “Farfalle e Scorpioni”, già pluripremiato.

Che cosa rappresentano per te questi riconoscimenti?
Un riconoscimento è una valutazione operata da esperti. Partecipare a concorsi seri, vuol dire avere l’umiltà di mettersi in gioco e di accettare il verdetto della Giuria. Nel tempo, ho conseguito più di centoventi importanti premi per la poesia, la narrativa, la pittura in concorsi nazionali ed internazionali, che rappresentano il mio onesto, indiscutibile biglietto da visita. Tra questi, vi sono cinquantotto premi di podio, la Targa d’Argento della Presidenza della Camera dei Deputati, la Medaglia del Senato, il Premio Consiglio dei Ministri, il Premio Ministero per i Beni e le Attività Culturali, il Premio alla Cultura e, per la pittura, il Premio Terme di Salsomaggiore 2002. Ogni premio, inoltre, infonde un rinnovato entusiasmo a continuare nella propria attività, mentre ogni cerimonia di premiazione offre l’opportunità di incontrare vecchi e nuovi amici e colleghi, di aprirsi a nuove esperienze.

Mi piacerebbe molto leggere il tuo racconto “Blues”: verrà pubblicato? Probabilmente in un futuro non prossimo, in una silloge di racconti. Mi sto dedicando al mio primo romanzo, un altro è nel cassetto e c’è sempre una raccolta di poesie cui dare vita stampata. Quindi ora stai scrivendo un romanzo.

Puoi anticiparci qualcosa?
Come in tutti i miei racconti, il finale andrà a sovvertire le iniziali previsioni, costringendo il lettore a riconsiderare il tutto sotto un altro profilo. Si presenta come un diario, poi…

Quali sono i tuoi autori preferiti? C’è qualcuno a cui ti ispiri?
Non mi ispiro ad alcuno. Ho uno stile mio proprio, che costituisce la mia “originalità”, che si tratti di scrittura o di pittura. Amo l’approfondimento psicologico, sondare le ragioni di un comportamento, ovvero descrivere le pulsioni interiori dei protagonisti. Inoltre, non mi interessano le azioni eclatanti, gli atteggiamenti estremi, ma i fatti e i misfatti di tutti i giorni, le semplicità e gli eroismi “quotidiani”, che per me hanno sempre un carattere di straordinarietà, rappresentando la ricchezza e la complessità del vivere, l’unicità di ogni individuo. Per questo, molti si ritrovano nelle mie parole o vi ritrovano la persona “della porta accanto” e si lasciano trascinare da questa “sensazionale-normalità”, perché viva, palpabile, reale. Il tutto svolto con la leggerezza di una narrazione (ma pur sempre una scrittura incisiva, corposa, potente) permeata di una buona manciata di ironia. Per le letture quindi prediligo quelle autrici e di quegli autori che soddisfano questa mia esigenza di introspezione.

Un indice per individuare un buon autore?
Oltre ad una trama che rispetti i tempi giusti di tensione, se “vedo” e “sento” ciò che mi descrive, se rende vivi i personaggi e gli spazi intorno a lui, se riesce a calarmi in quelle situazioni.

Un esempio per tutti?
Marguerite Yourcenar nel suo “Memorie di Adriano”, non scrive come se fosse un imperatore: “è” l’imperatore Adriano.

Che cosa significa per te scrivere?
Scrivere è l’esigenza di tradurre e trasmettere visivamente quello che provo, sento. Quando nasce l’ispirazione per un racconto o un romanzo, conosco da subito l’incipit e la frase conclusiva; il corpo del testo si snoda man mano che mi accingo a scrivere. La poesia invece si rivela per improvvise intuizioni. Scrivere rappresenta la mia libertà, la mia creazione, il mio modo di esprimermi; rappresenta le mie emozioni, rese fruibili per gli altri. Comunque, sia lo scrivere che il dipingere, non sono, per me, “operazioni” né semplici, né indolori: oltre alla necessità di isolarsi, infatti, richiedono massima concentrazione, impegno creativo e una successiva, lunga correzione. Per lo sforzo profuso, sono un lavoro: il mio lavoro. Inoltre, narrativa, poesia e pittura mi sono sempre state d’aiuto per superare momenti difficili: un po’ come benefico sfogo, un po’ come rivincita su un destino avverso, un po’ come ostinazione per non lasciarsi sconfiggere, un po’ come speranza per un futuro migliore.

Quando scrivi, generalmente, e per quante ore al giorno?
Solitamente, per quanto riguarda la prosa, scrivo nel pomeriggio, sino a sera. Per la poesia, invece, non ci sono vincoli. L’ispirazione può presentarsi in qualsiasi momento, anche per strada, o in auto. Allora mi fermo, estraggo il block notes e scrivo. Oppure, si presenta di notte: in questo caso, ho un block notes rigido, dotato di cursore con un’asticella orizzontale, che mi permette di scrivere, a matita e al buio, senza accavallare le righe. Nei giorni dopo, intervengo per limare. Definisco la mia poesia, “poesia di terra”, non perché, nella sua simbologia, usi costruzioni o termini “poveri” o abbia una tematica agreste, ma per il brivido provocato da intenzionali granelli di sabbia che scricchiolano tra i denti. Avendo comunque fatto la scelta di dedicarmi alla famiglia, agli altri, non solo a me stessa e alle mie passioni, sono sottoposta ad uno sforzo doppio per attendere a tutte le mansioni, e il tempo limitato incide sulla “quantità” delle opere prodotte. Opto quindi per la “qualità”.

E i numerosi e prestigiosi premi conseguiti onestamente per la narrativa, la poesia e la pittura, lo certificano inequivocabilmente. Quando ti dedichi alla scrittura hai in mente un destinatario?
No. Se non devo soddisfare impegni, scrivo per un’esigenza personale, per concretizzare un pensiero o uno stato d’animo, che risente di un particolare momento e dei tempi che vivo, e che faccia riflettere. Se ritengo che l’opera sia valida, la sottopongo ad un’accuratissima limatura. In un secondo tempo, chiedo il parere di mio marito, e, per opere più corpose, anche di familiari e amici, specie valenti colleghi: tutte persone scelte per la loro “brutale” onestà di giudizio e mancanza di invidia. In ultima analisi, però, decido io, prendendomi tutta la responsabilità.

Alla fine di un racconto o di una poesia, quando rileggi ti capita di rimanere tu stessa sorpresa da quello che hai scritto?
Sicuramente. Quando mi concentro, entro in una dimensione parallela al reale. Lì, propongo e dispongo, con meccanismi e linguaggio che non sono quelli usuali. È come sdoppiarsi: lo faccio da sempre, sono “strutturata” così. E in quel “mio mondo”, raggiungo livelli tali di concentrazione da non accorgermi di chi mi sta intorno, da non avvertire il trascorrere del tempo, né fame, né sete. Mio marito, che mi conosce perfettamente e mi ama così come sono, quando mi vede calata in quella dimensione, predispone perché nulla mi disturbi e, se è necessario “riportarmi alla realtà”, lo fa con grande cautela, altrimenti rischierebbe di spaventarmi. Una volta, per esempio, mi scorse dipingere in una stanza semibuia: eppure io vedevo perfettamente e dipingevo con dovizia di particolari. Anche per questa ragione, per questa capacità di totale concentrazione, non ho esercitato pienamente la mia arte sino a quando i miei figli non hanno raggiunto una certa età e mi sono occupata “solo” della mia famiglia e del mio lavoro, ripresentandomi nel 2001. È da quella data che conto tutti i miei riconoscimenti. Comunque, per una migliore gestione del tempo, ora mi circondo di… sveglie. La mia grande soddisfazione è che i miei figli hanno accettato questa mamma un po’ particolare e, anzi, ne sono orgogliosi.

Ci racconteresti qualcosa della tua infanzia? Quando hai iniziato a scrivere? Come hai scoperto invece il tuo talento di pittrice?
Questi due talenti a volte s’incontrano… Da piccina, rivelai subito potenzialità notevoli riguardo il disegno. Poi, quando imparai la scrittura e la possibilità di fissare il pensiero sul foglio, le attitudini progredirono di pari passo. Avrei voluto frequentare un istituto d’arte o un liceo. Mi iscrissero invece ad un istituto tecnico, dove conseguii un non ambìto diploma di ragioniera. Quindi la vita, con le sue esigenze… Studiai sempre moltissimo e coltivai caparbiamente i miei talenti, doni con cui si nasce. Quando mi propongo in prosa, poesia o pittura, mostro il livello di competenza cui sono giunta dopo un intensissimo lavoro, che è sempre “in progress”.

Qualcuno ti ha incoraggiato?
Mio marito e i miei figli mi hanno sempre appoggiata e hanno sempre creduto nelle mie capacità. Scrittura e colore sono parte di me, quindi indissolubilmente fusi: il pubblico e la critica affermano che, quando scrivo, dalle mie parole scaturiscano immagini, e, quando dipingo, sulla tela si dipanino discorsi. Antonio Caggiano, il critico che si occupò sovente della mia produzione letteraria e artistica, la definì una “scrittura disegnata” e una “scrittura-pittura portante”. Indicativo è il logo che mi rappresenta. È un mio quadro surrealista: su sfondo azzurro si staglia un profilo blu dalla cui bocca esce una mano dove, il dito indice, ha l’ultima falange trasformata in pennello, mentre il medio ha l’ultima parte trasformata in penna. Dalla punta del pennello e della penna prendono vita due arcobaleni. Il significato? “Mi esprimo” (titolo del quadro) con la scrittura e la pittura, non a parole parlate. Ultimamente, ho messo un po’ da parte la pittura, per dedicarmi maggiormente alla prosa e alla poesia.

Dopo tante soddisfazioni, hai ancora un sogno nel cassetto?
Potrà sembrare banale, ma desidero vivere in serenità e in salute, ed è quello che desidero con tutto il cuore per i miei e per tutti. Conosco la sofferenza e la malattia che, se da una parte limitano o impediscono una vita sociale (spesso senza la comprensione degli altri) e una produzione artistica, e impongono uno sforzo sovrumano per compiere quello che le persone considerano “normale”, dall’altra “insegnano” molto, anche se non tutti ne comprendono il messaggio e lo portano in arricchimento della propria vita e nell’arte. Un messaggio di sensibilità ed empatia, di umanità, che credo di trasmettere nelle mie opere, anche se non tratto certo di malattia. In campo artistico-letterario, spero quindi di continuare a lavorare per giungere a saggiare i miei limiti.

GENTE DI NEBBIA
di Carla Sautto Malfatto

Dimmi cosa vedi
quando penetri le nostre nebbie
che si affollano
corvi al pasto
di luci, strade e umori
e a banchi si affastellano
in densi muri
d’angoscia e d’abbandono
o ad improvvisi veli
spettri ad altezza di naso.
Noi siamo lì
insondabili
gente di nebbia
dalle bocche a taglio
ermetici ricci indaffarati
sornioni e maledetti
come i gatti neri.

Il quadro politico, ideologico ed etico del dopo referendum:
Quando non conosci la meta, non esistono direzioni giuste

Con la percentuale di un secco 60 a 40 e un’affluenza quasi del 70 per cento l’elettorato ha dunque bocciato la riforma costituzionale a firma del governo, sottoposta a referendum domenica 4 dicembre.
La scelta di Matteo Renzi di concentrare su di sé il senso del sì e del no si è rivelata un errore fatale. La conseguenza è stata la metamorfosi di un disegno riformatore, per quanto imperfetto, in una “finzione suprema”, come scrive Massimo Cacciari (L’Espresso 4 dicembre), un “involucro formale del tutto superfluo” rispetto ai veri contenuti della contesa, ossia i destini del governo (e del partito) di Renzi.
Un’ennesima occasione persa. Non tanto per un testo di per sé controverso, quanto per l’opportunità di resistere alle trombe di un decisionismo strapaesano e alla tentazione di inseguire gli umori dei costi della politica, errore commesso dallo stesso centrosinistra nel 2001 nella riforma del Titolo V per scavalcare la Lega su analoghi umori federalisti.
L’occasione era di restituire la Costituzione al posto che le spetta, cioè su un’idea di popolo e di democrazia.
Ben oltre il contingente risultato delle urne, sulle cui conseguenze ora si arrovella un quadro politico che rispetto all’incertezza delle scelte politiche del premier ha visto premiata la certezza di una crisi profonda del sistema (ciclo economico, crisi di governo, nuova legge elettorale, elezioni e gli esiti tutti da vedere), le proporzioni del fallimento emergono da un dibattito che Michele Salvati innesca su Il Mulino, di cui è direttore (6/2016).

Il tema è quello, attualissimo, della crisi della democrazia e cioè, nell’era di un’inarrestabile globalizzazione di impronta neoliberale, la quadratura del cerchio di far convivere uno sviluppo più inclusivo (riducendo i micidiali effetti collaterali di diseguaglianze crescenti) con la democrazia politica.
L’angolo di visuale adottato dagli studiosi che scrivono sulla rivista bolognese è quello della sinistra, cioè la stessa parte politica che ha scritto riforma costituzionale bocciata dai cittadini.
Se per sinistra s’intende, come direbbe Norberto Bobbio, la parte più sensibile alla riduzione delle disuguaglianze in un’economia di mercato, i maggiori attacchi a questa cultura politica oggi provengono propriamente dagli effetti, esterni agli Stati nazionali, della globalizzazione economica, in termini di contrazione dei sistemi di welfare e di relazioni industriali in senso regressivo.
Globalizzazione che a differenza dei “Trenta gloriosi”, come sono chiamati in letteratura i decenni a forte espansione dopo la Seconda guerra mondiale, ora è alle prese con un perdurante ciclo economico negativo, con crescente concentrazione della ricchezza in poche mani.
Sul piano sociale e politico, fa presente il sociologo Carlo Triglia, si assiste parallelamente a processi di individualizzazione crescente, crisi della partecipazione tradizionale e dei partiti organizzati, personalizzazione delle leadership e avanzata dei populismi che cavalcano senza giri di parole paure e insicurezze.
Secondo Salvati, ecco il problema, stando così le cose non è più possibile parlare di socialdemocrazia, perché l’attuale fase economica globale a forte impronta neoliberale condiziona pesantemente gli stati ostacolandone le politiche redistributive e, nello stesso tempo, influisce sui cambiamenti delle società in senso disgregativo, minando le stesse basi sociali della sinistra (la solidarietà).
Il difficile banco di prova dei governi è come promuovere una ripresa economica solida (a costo di manovre lacrime e sangue) con un consenso ampio e stabile. Ma come costruirlo? E qui il tema degli interventi in campo economico e sociale si lega a filo doppio con la strategia delle riforme istituzionali.
Proprio all’indomani del referendum costituzionale, Sabino Cassese (Corsera 6 dicembre) scrive dell’eterno problema italico della legge elettorale. Bicameralismo e formula elettorale proporzionale sono in sintesi l’eredità (compromesso) dei padri costituenti, che rispecchia l’orientamento del decidere insieme piuttosto che contrapporsi, indebolire il governo piuttosto che contare sull’alternanza, rendere in sostanza mite il potere a costo dell’inefficacia, secondo il punto di vista della democrazia di Hans Kelsen. Tutto il contrario di quanto sostiene Joseph Schumpeter, per il quale democrazia vuol dire competizione e liberarsi dal complesso del tiranno. Fumo negli occhi per un paese, l’Italia, la cui storia politica è un susseguirsi di compromessi, rinvii e aggiustamenti, che sono anche all’origine di un debito pubblico che tuttora è un enorme macigno in mezzo alla strada dello sviluppo.
Se questo ragionamento porta dritto a un modello di democrazia maggioritaria, secondo la necessità di leader basati su un consenso solido e stabile, al riparo da vincoli di coalizione, con un ruolo rafforzato rispetto a parlamenti e ministri e così in condizione di prendere decisioni rapide in omaggio alla velocità dei tempi che corrono (sic!), con occhi da sociologo Triglia osserva che laddove avviene questo (Usa e Gran Bretagna) si assiste al binomio crescita economica – elevate disuguaglianze, cioè un esempio di capitalismo con intervento regolativo dello Stato fortemente ridotto.
“Vincere con la maggioranza – questa l’analisi – spinge le forze politiche in competizione (in un quadro tendenzialmente bipartitico) a cercare di conquistare il voto cruciale dell’elettorato centrale”. Così i più deboli incontrano più difficoltà a trovare ascolto e le possibilità redistributive si affievoliscono, osteggiate dall’elettorato, decisivo, di ceto medio. Le conseguenze sono un’astensione progressiva o, più recentemente, la predisposizione ai richiami del populismo proprio degli strati sociali tradizionalmente bacino elettorale delle sinistre.
La conclusione del docente di sociologia economica all’università di Firenze è che sistemi elettorali di orientamento proporzionale, sia pure con correttivi, sarebbero condizione più favorevole per la sinistra, in quanto strumenti istituzionali per costruire un consenso più inclusivo, il quale è condizione per sorreggere democraticamente politiche economiche maggiormente redistributive e a crescita a sua volta inclusiva (di stampo socialdemocratico).

E’ un tema lanciato nel dibattito sempre in bilico tra democrazia e capitalismo, in un tempo in cui il programma del secondo termine appare oggi irresistibile nel dotare i singoli di strumenti economici di partecipazione al mercato, più che di strumenti politici sul piano della partecipazione e della cittadinanza. Fermo più sull’aspetto del contratto economico, che sul contratto sociale come alta sintesi storica del pensiero politico europeo.
Non è detto che sia la strada giusta. In ogni caso se da una sinistra fosse uscita una riflessione e un disegno ispirati a un’idea più chiara di popolo e di democrazia secondo uno straccio di cultura riformista, nonostante tutte le difficoltà (compreso l’ostacolo oggettivo di una politica in preda a un incontenibile istinto di reciproca delegittimazione), c’è caso che qualcuno in più avrebbe capito il senso di una direzione di marcia e, magari, si sarebbe messo in cammino disposto a farne parte. Forse.

Le paure dei giovani ferraresi? Al primo posto, il diverso

Nel 1999 il sociologo Zygmunt Bauman pubblicava il proprio saggio sull’età dell’incertezza e tutti coloro che hanno dai 25-30 anni in su probabilmente hanno sentito parlare almeno una volta delle sue analisi sulla modernità liquida o sulle conseguenze della globalizzazione sulle persone. Ultimamente si sente spesso parlare anche dei Millennials, i nati tra il 1980 e il 2000. È di pochi giorni fa – 2 dicembre – il cinquantesimo rapporto annuale del Censis sulla situazione sociale del Paese, che disegna per loro un quadro a dir poco desolante: per la prima volta nella storia i giovani sotto i 35 anni saranno più poveri dei loro padri, dei loro nonni, ma anche dei coetanei di 25 anni fa e già oggi, rispetto alla media della popolazione, le famiglie dei giovani con meno di 35 anni hanno un reddito più basso del 15,1% e una ricchezza inferiore del 41,1%.
Se già per i Millennials la situazione è tutt’altro che confortante, ci siamo mai chiesti cosa significhi essere un adolescente nel 2016? Essere nati in piena postmodernità, non aver vissuto altro che quella che è stata chiamata anche ‘società del rischio’? Dover crescere e formare la propria identità in una società sempre più connessa e multiculturale, ma che lascia sempre più sole le persone a interpretare tutte queste informazioni e tutti questi cambiamenti, senza che ci sia una rete comunitaria di salvataggio?

Da queste e altre domande è partito l’Osservatorio Adolescenti del Comune di Ferrara per le sue indagini annuali sui giovani della provincia. Quest’anno il tema è stato “Gli adolescenti e la paura dell’altro. Gli adolescenti ferraresi e il loro rapporto con l’alterità” e i risultati sono stati presentati all’Istituto Bachelet nel pomeriggio di martedì 6 dicembre da Sabina Tassinari.
Secondo Tassinari il binomio che definisce i ragazzi di oggi è “aperti e indifesi”: “aperti, perché sono nati nel mondo globalizzato e da subito hanno sentito parlare di Europa” come orizzonte della propria cittadinanza, “indifesi” perché questa apertura di confini ha significato anche un riposizionamento dei punti di riferimento e li ha posti “al crocevia di messaggi contraddittori”, facendone dei “presentificatori”, come li ha definiti per esempio il Censis, che vivono il presente più che pensare al futuro. L’altro punto di partenza, come si legge nel rapporto, è stato che la diversità in età adolescenziale, in piena fase di costruzione della propria identità e di senso di appartenenza a un gruppo di pari, diventa un elemento destabilizzante, spesso un motivo di sofferenza – se ci si ritiene o si viene additati come diversi – o fattore scatenante di atteggiamenti di intolleranza, quando si individua la diversità in altre persone.
Il campione di riferimento si è composto complessivamente di 1.193 ragazzi fra i 13 e i 16 anni residenti nei distretti socio-sanitari Centro nord, Sud est e Ovest della provincia di Ferrara, suddivisi in: 615 maschi (51,6%) e 578 femmine (48,4%). L’alterità indagata ha ricompreso tutta la macro area dell’altro da sé, dagli immigrati agli omosessuali e, più in generale, quei gruppi considerati vulnerabili e quindi più soggetti a discriminazioni: per esempio donne, disabili, anziani.
Analizzando le risposte degli adolescenti riguardo la loro percezione dei pregiudizi e delle discriminazioni vissuti da questi gruppi di persone, ne emerge che “l’89% dei ragazzi pensa che la società abbia pregiudizi sugli stranieri, il 91,5% sui musulmani, il 73,4% sugli omosessuali”(era prevista una risposta per ciascuno dei gruppi indicati). Il dato preoccupante, secondo Tassinari, è che “solo il 41,9% degli intervistati pensa che ci siano pregiudizi sulle donne”: sembrerebbe dunque che la violenza nei confronti delle donne non venga purtroppo ancora considerata come un fenomeno culturale, derivato di una società ancora fortemente patriarcale, ma “un fatto casuale e legato a una patologia nei rapporti di coppia”, si legge nel rapporto.
In generale le ragazze e gli adolescenti stranieri – maschi o femmine – dimostrano una maggiore sensibilità nei confronti degli atti discriminatori. Da evidenziare poi che la scuola è il primo luogo dove si assiste a comportamenti discriminatori: dal rapporto emerge che “circa 1 ragazzo su 4 in tutte le scuole, anche quelle secondarie di I grado, è spettatore di atti discriminatori”.
Per quanto riguarda invece il proprio rapporto con i gruppi indicati come più vulnerabili: l’88,7% degli adolescenti intervistati dichiara di avere buoni o ottimi rapporti con persone di altra cittadinanza, l’80,7% con persone di altra cultura, mentre solo il 56,2% risponde di avere buoni rapporti con persone di diverso orientamento sessuale. Un dato questo che spinge a una seria riflessione sul rapporto fra omofobia e bullismo.
Purtroppo solo una piccola percentuale degli adolescenti ferraresi (14,4%) ritiene che l’immigrazione sia una risorsa, mentre la maggioranza (62,2%) ritiene che vada controllata e ridotta. Disaggregando queste cifre per territorio si nota che “i ragazzi del distretto Sud est, che ha la quota minoritaria, rispetto alla provincia, di persone straniere, abbiano un’opinione negativa più marcata dei coetanei degli altri distretti”: una dimostrazione della “forbice fra situazione reale e situazione percepita”, ha affermato Tassinari. Analizzando poi la suddivisione per istituto di provenienza (liceo, istituto tecnico, istituto professionale, scuola secondaria di I grado) emerge che “il 23,9% degli studenti delle scuole professionali, con un notevole distacco rispetto ai liceali e ai ragazzi dei tecnici, ritiene che l’immigrazione sia un fenomeno svantaggioso per la società nella quale vivono”.

In conclusione, il messaggio che esce dalla ricerca è che “l’alterità fa veramente paura agli adolescenti, inoltre se e quando non fa paura di sicuro disorienta i ragazzi”. I fattori che scatenano questa paura, secondo gli estensori del rapporto, sono “la perdita dei legami di comunità” e “una cultura che ci condanna alla felicità come costrizione”, rifiutando il dolore proprio e degli altri, come l’ha definita la dottoressa Garofani dell’Ausl di Ferrara.
Una cultura e una (non)comunità ben esemplificate dal video “Are you lost in the world like me”, con il quale Tassinari ha aperto la propria presentazione.

Are you lost in the world like me?

Un Natale senza Giulio Regeni, ma di “corsa” per chiedere giustizia

di Diego Remaggi

Tra i casi di cronaca (direi internazionale) che mi hanno colpito di più in questo 2016 ormai agli sgoccioli, non posso non citare la brutta storia di Giulio Regeni. Per chi ancora non la conoscesse, è utile fare qualche passo indietro, tornando proprio agli inizi di gennaio di quest’anno. Giulio era un cittadino italiano e uno studente di dottorato presso l’Università di Cambridge nel Regno Unito. Stava conducendo una ricerca sui sindacati indipendenti in Egitto nel periodo successivo al 2011, quando finì il governo di Hosni Mubarak. Il 25 gennaio, quinto anniversario della Rivoluzione, Giulio scomparve. Il suo corpo fu ritrovato casualmente, con evidenti segni di tortura, il 3 febbraio in un fosso ai bordi dell’autostrada che collega Il Cairo ad Alessandria. Il giovane universitario era uscito per raggiungere i suoi amici e festeggiare il compleanno di uno di loro, ma non è mai arrivato a destinazione. Quando sua madre vide il corpo orrendamente torturato e il volto irriconoscibile, se non dalla punta del naso, disse che su di lui si era “abbattuto tutto il male del mondo”.

Per diversi giorni, dopo il ritrovamento del cadavere, la brutale uccisione di Giulio Regeni ha scioccato il mondo, ma ha anche acceso i riflettori sul metodo delle sparizioni forzate praticato in maniera sistematica in Egitto e che i ricercatori di Amnesty International hanno documentato attraverso i fatti e le testimonianze. Il quadro che ne esce fuori è disarmante: ogni giorno tre o quattro persone sono vittime di sparizioni forzate nel paese. Si tratta di una strategia assolutamente non casuale ma fortemente voluta dall’Agenzia per la Sicurezza Nazionale che è guidata dal Ministro degli Interni egiziano Magdy Abd el-Ghaffar.

Qui è possibile leggere il rapporto di Amnesty sulle persone scomparse in Egitto in nome della lotta al terrorismo:“https://d21zrvtkxtd6ae.cloudfront.net/public/uploads/2016/11/23112703/Egitto_ufficialmente_non_esisti.pdf”

Poche settimane dopo la morte di Giulio, uno striscione ha iniziato a fare il giro del mondo, un semplice drappo giallo con scritto “Verità per Giulio Regeni”. Lo scopo è stato, ed è ancora, quello di non permettere che l’omicidio del giovane ricercatore italiano vada dimenticato o, ancora peggio, sistematicamente ridotto ad un caso risolto con una “versione ufficiale” da parte del Governo egiziano. “Qualsiasi esito distante da una verità accertata e riconosciuta in modo indipendente, da raggiungere anche col prezioso contributo delle donne e degli uomini che in Egitto provano ancora a occuparsi di diritti umani, nonostante la forte repressione cui sono sottoposti, dev’essere respinto”, si legge sulle motivazioni della campagna di Amnesty International.

“Verità per Giulio Regeni” è diventata la richiesta di tanti Enti locali, dei principali Comuni italiani, delle Università e di altri luoghi di cultura del nostro Paese che hanno esposto questo striscione, o comunque un simbolo che chieda a tutti l’impegno per avere la verità sulla morte di Giulio. Migliaia di cittadini e cittadine, italiani e non, hanno continuato e continuano incessantemente a chiedere la verità. Nel testo della petizione internazionale per chiedere verità sull’omicidio di Regeni (che ha alcuni importanti sostenitori come Valerio Mastandrea e lo chef Rubio), si chiede chiaramente al Governo egiziano “di avviare un’indagine approfondita e indipendente sull’omicidio del cittadino italiano e studente dell’università di Cambridge Giulio Regeni, a seguito del suo rapimento e delle torture subite, e di assicurare i responsabili alla giustizia.”

Per sostenere Amnesty nella richiesta al Governo del Cairo è possibile firmare, “correndo” per Giulio e per altri quattro “eroi” dei nostri giorni: Edward Snowden, che ha condiviso con la stampa documenti dei servizi segreti degli Stati Uniti, rivelando come i nostri governi monitorassero i nostri dati personali, tra cui le nostre telefonate, la nostra posta elettronica e molto altro ancora; Maxima Acuna che ha subito violente persecuzioni e minacce della polizia locale per essersi rifiutata di abbandonare la terra dove vive con la sua famiglia; Bayram Mammadov e Giyas Ibrahimov che hanno osato criticare pubblicamente lo Stato scrivendo un messaggio di sfida sulla statua dell’ex presidente dell’Azerbaigian, il giorno prima delle celebrazioni per l’anniversario della sua nascita, e sono stati arrestati il giorno seguente, il 10 maggio 2016, con false accuse legate alla droga; Ilham Tohti, stimato professore universitario, che ha lavorato instancabilmente per costruire ponti tra le varie comunità etniche della Cina, si è sempre opposto alla violenza, cercando di incoraggiare la cooperazione e la comprensione, ma ora è imprigionato a vita, con l’accusa assurda di aver fomentato l’odio etnico.

Se anche voi volete giustizia, lasciate la vostra firma qui, ci vuole veramente un attimo: https://www.amnesty.it/maratone/5-appelli-per-chiedere-giustizia/

GIALLOARTE
Palladio, uomo senza volto? Una mostra per risolvere il mistero

di Maria Paola Forlani

Il maggiore architetto veneto del Cinquecento è Andrea di Pietro o Della Gondola, universalmente noto con il nome di Palladio (Padova, 1508 – Vicenza, 1580), che gli venne attribuito, con tutta probabilità, dal suo primo protettore, il letterato vicentino Gian Giorgio Trissino, con chiaro riferimento umanistico a Pallade Atena e alla statua di lei, detta appunto ‘il Palladio’, e quindi all’antichità classica.

La storia e la cultura dell’artista, di origini modeste e inizialmente umile “lapicida” (spaccapietre o scalpellino), hanno inizio per noi solo dal momento in cui incontra Trissino, il quale non soltanto lo introduce nell’ambiente aristocratico di Vicenza, che d’ora in poi sarà la sua città, ma lo educa classicamente, sia dal punto di vista letterario sia da quello artistico, scopre la sua vocazione architettonica e lo conduce a Roma.
Nel corso di questi viaggi il Palladio ha modo di conoscere anche le numerose città poste lungo il cammino: disegna, rileva, misura monumenti antichi in gran numero, medita su di essi e prepara il materiale che gli servirà per la stesura dei suoi “Quattro libri dell’Architettura”, che vedrà la luce a Venezia nel 1570, per noi molto utile perché ci rivela le idee dell’autore e perché ne illustra le opere.
Uno degli elementi fondamentali che il Palladio trae dall’antichità, e soprattutto dalla lettura di Vitruvio, è la scelta tipologica, caratteristica di altri trattatisti rinascimentali a partire dall’Alberti: ogni edificio ha una forma che deriva dalla sua funzione e dalla sua collocazione in un determinato luogo. L’altro elemento classico è la misura, ossia il rapporto proporzionale fra le varie parti.
Andrea è stato un “archistar” ante litteram; per qualcuno “il più importante costruttore mai prodotto dal mondo occidentale”; per altri “il più imitato nella storia”, perché il suo stile impronta molta parte dell’architettura vittoriana inglese, o degli Stati Uniti, e un’eco giunge perfino in Russia.
Eppure, al contrario per esempio di Giuliano da Sangallo effigiato da Pietro da Cosimo, di Jacopo Sansovino eternato da Tintoretto con il suo compasso in mano, di Vincenzo Scamozzi immortalato da Veronese, o di Giulio Romano tramandato da Tiziano mentre ostenta la pianta di un suo edificio, di lui non abbiamo alcun ritratto certo.

Il volto di Palladio non è più un ‘cold case’. L’indagine è stata riaperta e gli indizi accumulati sono impressionanti: da Mosca al New Jersey negli Usa sono stati individuati ben undici ritratti provenienti due da Londra (RIBA Collection e Royal Collection al Kensington Palace), uno da Copenaghen (Staten Museum), quattro da Vicenza (villa Rotonda, villa Valmarana, teatro Olimpico, villa Caldogno), uno da Notre Dame, Indiana (Snite Musum of Art), uno da una collezione privata a Mosca, uno da Praga (Národni Museum), uno da un’asta di Christie’s a New York e un ultimo da un antique shop nel New Jersey. Sono tutti autentici? L’uomo ritratto è effettivamente Palladio?
Questo è il tema della mostra “Andrea Palladio. Il mistero del volto” aperta, fino al 4 giugno, a Vicenza al Palladio Museum, a cura di Guido Beltramini (catalogo Officina Libraria). Una vera e propria indagine, svolta con la preziosa collaborazione dei laboratori di analisi della Soprintendenza di Verona, guidata da Fabrizio Magani, che si è impegnato anche in prima persona nello studio dell’immagine di Palladio nell’Ottocento. Frutto di anni di lavoro e di ricerche, ha portato a convocare a Vicenza i più credibili fra i ritratti presunti di Palladio. Ma anche i meno credibili, come un dipinto di Bernardino Licino del 1541, oggi conservato nella Royal Collection a Kensington Palace, taroccato con una scritta “Andreas Paladio” (sì, con una sola “l”, alla veneta!) per venderlo alla famiglia reale inglese nel 1762.
In realtà dagli archivi e biblioteche erano emerse notizie sull’esistenza di solamente due ritratti di Palladio: il primo di mano del veneziano Jacopo Tintoretto (elencato nella collezione di un gioielliere tedesco nel 1603), il secondo del pittore veronese Orlando Flacco, di cui dava conto nientemeno che Giorgio Vasari nelle sue celebri “Vite”. Grazie alle ricerche promosse in occasione della mostra è stato possibile ritrovare il ritratto di Flacco, che era arrivato sino a Mosca, nella collezione di un eccentrico architetto russo, Ivan Zoltovski, l’uomo capace di convincere personalmente Lenin, Stalin e infine Chruscev, che Palladio doveva essere un modello obbligato per la nuova architettura sovietica.
Al ritratto cinquecentesco opera di Orlando Flacco la mostra affianca un secondo ritratto, opera di un altro veronese Bernardino India, scovato da uno storico dell’arte americano in un antique shop nel New Jersey. Si tratta di dipinto a olio su una tavoletta di noce delle dimensioni di 22,8 x 16,8 centimetri: faceva parte di una serie di ritratti di uomini famosi, in piccolo formato per essere collezionati nel proprio studiolo (antenati delle figurine Panini, a uso degli intellettuali). Il Palladio appare simile al ritratto di Flacco, con l’inedita particolarità di celare la calvizie con un cappello.
E tutti gli altri ritratti supposti di Palladio? Il Palladio Museum ha chiesto aiuto al Servizio di Polizia Scientifica della Polizia di Stato, che – in un intrigante incontro fra scienze forensi e arte – sta effettuando analisi di comparazione fisiognomica fra i dodici dipinti per identificare tratti comuni e differenze. L’indagine è ormai prossima alle conclusioni, che saranno rese note a breve.
Lo stesso allestimento di mostra, progettato da Alessandro Scandurra, restituisce l’atmosfera delle detective-story. Accanto a ogni dipinto il visitatore trova dei tavoli luminosi in cui sono presentati i ‘reperti’ ritrovati nell’indagine: radiografie dei quadri, sezioni stratigrafiche che evidenziano la successione delle pellicole pittoriche, antiche fotografie, documenti. Ѐ così possibile verificare le ipotesi proposte in mostra e ritrovare il ‘proprio’ Palladio.

Sebastiano Ricci Ritratto di Andrea Palladio
Jacopo Bassano Ritratto di Andrea Palladio
John Chere Ritratto di Andrea Palladio

Ma resta una domanda: perché mai Palladio, rompendo le consuetudini editoriali del suo tempo, non inserisce il proprio ritratto sui i Quattro Libri dell’Architettura?
Palladio nei “Quattro libri” è reticente sul proprio vissuto: “da naturale inclinazione guidato mi diedi nei miei primi anni allo studio dell’architettura”, sono le parole con cui si aprono. Ѐ tutto ciò che ci consente di conoscere della sua formazione che sappiamo invece dura e faticosa. Come non possono essere legati a un tempo, a un’occasione, così i “Quattro Libri” non possono essere identificati da un volto. Il sistema architettonico palladiano, trasmesso attraverso il suo trattato, è concepito per vincere il tempo. Vive nel futuro, attraverso chi vorrà usarlo: con i “Quattro libri” in mano, noi siamo Palladio.

Non ce la possiamo fare.
Storia di italiani alle prese con l’efficienza teutonica

Di Franco DiGianGirolamo

Anche se avessimo il talento e la modestia di chi sa copiare, non ce la faremmo. Ci sono dei “fondamentali”, che regolano il nostro pensiero e la nostra vita che ce lo impedirebbero e lo schizzo di vita che tratteggio è solo un modesto, seppure importante, argomento che mi convince ad essere d’accordo con coloro che pensano che le normative europee debbono essere pensate per una applicazione a “geometria variabile” o, se volete “appropriata” e non “sul modello nordeuropeo” altrimenti perdono di efficacia quando non sono controproducenti.

Mia moglie si trasferisce per motivi di lavoro a Berlino e io la seguo. Essendo stati per oltre sei anni tra gli animatori di una esperienza di volontariato finalizzato all’insegnamento della lingua italiana agli immigrati, la nostra partenza implica la fine di quella esperienza che aveva coinvolto moltissimi insegnanti volontarie/i e centinaia di immigrati, senza alcun contributo pubblico e con il solo e decisivo sostegno della Cgil e dell’Auser di Ferrara, della Coop Adriatica e di qualche istituzione scolastica. Migliaia di ore di lavoro gratuito, tanta passione, qualche innovazione, molte belle relazioni umane per affermare il diritto alla integrazione che la UE riconosce con tante di quelle norme e chiacchiere, che ci vuole una vita a leggerle, che finanzia con tanti quattrini e con discutibili controlli e che lo Stato italiano e le sue articolazioni traducono in corsi di 50 ore, del tutto insufficienti a rispondere alla domanda degli immigrati, organizzati con logiche burocratiche spaventose (la domanda si fa in aprile, il corso si avvia a novembre se ci sono i finanziamenti, per esempio) con personale scarsamente preparato anche se molto volenteroso, in orari serali a colpi di un’ora e mezza.

Per discutere della efficacia del nostro sistema pubblico in materia non occorrono troppi questionari, basta un’occhiata e si capisce subito che non è una cosa seria e che quel poco di buono che si riesce a fare è frutto della ostinazione, capacità e impegno di una minoranza di operatori che non si rassegnano all’andazzo e che soffrono a veder buttare dalla finestra denaro e valori. Sicchè arrivano, come sempre e da decenni, le truppe cammellate del volontariato, a volte solo col bagaglio delle più diverse motivazioni (tra chi vuole andare in paradiso con qualche ticket in più fino a chi pensa al potenziale rivoluzionario del nuovo proletariato extracomunitario), a volte anche con qualche pretesa di professionalità, quasi sempre senza soldi, con l’eccezione delle cooperative sociali che sono purtuttavia un importante bastone delle istituzioni zoppicanti, anche se di recente ridotti, purtroppo, a soggetti dei quali si discute malvolentieri.

Fine colpevole, la nostra, perché non siamo stati in grado di garantire la continuità di una esperienza e di una attività che era ormai parte integrante della comunità centese. Fine non del tutto inutile perché serve a riflettere sul tema della educazione degli adulti (di cui l’integrazione degli immigrati è un aspetto) e del salto di qualità che deve fare nella nostra testa, prima ancora che nelle istituzioni, a partire da quella regionale che aveva azzerato perfino i pochi stanziamenti dei bilanci precedenti e che mi auguro abbia rivisto questa posizione. Di piattaforme serie sia come Auser che come Spi e Cgil, che come Università popolari, ne abbiamo a bizzeffe, ma la forza per portarle avanti non è ancora sufficiente e non riusciamo a riprodurre neppure le belle ma rare esperienze di programmazione integrata realizzate in alcuni distretti emiliano-romagnoli.

Ora l’emigrante e`il sottoscritto che si trova alle prese col problema dell’integrazione linguistica, acuito dall’età avanzata che, diciamolo, non è mai stato un vantaggio per nessuno. Sceso dall’aereo un giovedì sera, si reca il venerdì mattina successivo presso la Volkshochschule di Treptow (VHS, una delle 12 operanti a Berlin), gli viene sottoposto un test di ingresso, viene assegnato ad un certo livello e gli si dice di presentarsi il lunedì mattina. Il vecchietto trasecola e si dà un pizzicotto per vedere se è ancora a letto. Il lunedì si presenta non in un sottoscala, in una sala rimediata in una parrocchia o in un ufficio sindacale trasformato in aula, bensì in un edificio enorme di 4 piani, sobrio ed essenziale, quasi spartano, ma pulito ed organizzato con tutto il necessario, dove gli viene consegnato il programma di educazione degli adulti della VHS (centinaia e centinaia di corsi e di attività di ogni tipo e per tutte le classi sociali) e lo si ospita in una vera aula scolastica assieme ad altre 14 persone, molto più giovani, di diversissime nazionalità.

Due insegnanti retribuite come da contratto e che fanno solo questo (non a completamento di orario), professionalizzate specificamente, ci seguiranno per 100 ore (5 ore al giorno per 4 giorni la settimana). Il vecchietto sgancia 1,2 euro l’ora perché se lo può permettere, come altri corsisti, mentre chi è assistito dal Job center o è profugo o ha altri problemi non paga niente. Il giro completo per chi inizia da zero è di 600 ore (lo scrivo per esteso perché potrebbe non sembrare vero: seicento). Ogni 100 ore ti valutano e ti rilasciano un certificato. Se superi l’esame finale hai un titolo che è fondamentale per andare a lavorare oltre che per vivere meglio in terra straniera. Siccome se non superi i tests ti fanno ripetere il corso che hai frequentato, quando presenti un foglio di carta con scritto cosa vali, il popolo tedesco e le sue istituzioni hanno la tendenza a credere che sia vero. E vorrei vedere! Il corsista che fa assenze deve presentare il certificato medico o motivazioni molto credibili e possibilmente documentate, altrimenti non va avanti.

Il corsista che fa il furbo e arriva all’orario della firma della presenza, lo fa una volta sola perché la seconda viene educatamernte ma fermamente mortificato davanti a tutti (da noi invece quando non ci sono presenze sufficienti per rendicontare e avere i quattrini relativi c’è la caccia alla firma di presenza su corsi scarsamente frequentati, sovente utili solo a chi li fa, come sappiamo tutti).
L’anziano emigrante, non ancora avvezzo alle coniugazioni e alle declinazioni e, finora, abile solo nelle emergenze, ovvero a chiedere indicazioni sulle numerose, sobrie e pulite toilettes, viene folgorato da una scoperta: finalmente sa dove vanno a finire i soldi del FEI (fondo europeo per l’integrazione), per lo meno quelli assegnati alla Germania.
Ma allora, se l’ha compreso a prima vista il nonnetto, forse non c’è bisogno di corpose commissioni europee di monitoraggio sull’uso dei fondi, di esperti in contabilità nazionale ed internazionale, di castelli burocratici pieni di chiacchiere. Forse ci vorrebbe, alla base, una semplice visita superficiale di tre persone prese dalla strada (magari di tre continenti diversi) alle due realtà che ho descritto, e spiegargli in venti minuti come funzionano ufficialmente e formalmente (anche senza far riferimento ai trucchi e alla monnezza sotto i tappeti) e relazionare ai parlamentari e commissari vari europei. Il vecchio non si stupirebbe dell’esito, perché i profughi e gli immigrati, che tra loro si parlano (non sembra vero!) non vogliono affatto rimanere in Italia mentre fanno di tutto per riuscire ad andare dai cattivi nord europei dove la prima cosa che apprendono è la serietà e la correttezza e non l’aum-aum.
Tornando verso la sua casa sull’isoletta, sul bus nuovo e puntuale che lo ha raccolto per strada, il ringalluzzito emigrante si chiede perchè gli sia venuto alla mente il Gattopardo, ovvero il principe di Salina che, negandosi all’importante ruolo politico che gli viene offerto, spiega allo zelante funzionario piemontese le ragioni per cui ci sarebbero voluti due secoli per integrare il Regno delle due Sicilie alla nascente Italia.

Il nonnetto comprende che si e`imbarcato in una cosa seria e frequenta le 500 ore che gli toccano, oltre le 60 chiamate ‘OrientierungKurs’ che altro non e`se non la educazione civica dei nuovi arrivati in Germania.Si sara`interrogati con un quiz e tutti staremo in ansia, come veri e propri scolaretti, perche`sappiamo fin dall`inizio che, come tutto il resto, si tratta di una cosa seria. Poi faremo l´esame finale che ci dara´diritto alla certificazione del livello B1, che e`il minimo per andare a lavorare. Mezza giornata di esame (parlato, scritto, ascolto); poi attesa di due mesi perche`il controllo lo fanno a Francoforte e infine l`agognato esito con punteggio e Certificato.

Ma non finisce qui perche`chi supera gli esami ha diritto al rimborso delle spese sostenute nella misura del 50%. Occorre fare una pratica burocratica (la burocrazia e`molto piu`complessa in Germania che in Italia ma e`molto piu`efficiente) e attendere. Non molto in verita` e un bel giorno vi arriva una lettera nella quale vi si comunica che l´accredito sul c/c e´stato effettuato. Il rapporto con la scuola e`terminato, se non avete intenzione di apprendere ancora o non avete i soldi per pagare i livelli superiori.

Vi resta, oltre l´apprendimento della lingua, la coscienza che “Bildung” in Germania non se´ una parola come le altre, ma un principio fondativo del carattere di una nazione, che la parola integrazione ha un significato molto piu`impegnativo per il governo tedesco, la sensazione concreta di aver ricevuto rispetto oltre che istruzione e di essere stati indotti naturalmente a rispettare tutta la istituzione che vi ha accompagnato in questo percorso, a partire dagli insegnanti.

Una bella esperienza, che vale la pena di raccontare e dalla quale c`e´molto da imparare.
Ma, come si sa, noi siamo dei e non crediamo di dover cambiare perche´riteniamo di essere perfetti cosi`come siamo.

Natale, fenomenologia di un regalo.
Tra buone intenzioni, ansie da prestazione e quel piccolo problemino… gli uomini

“Già Natale!” e segue un sospiro tra il meravigliato e lo sconsolato mentre subito qualcuno replica “Vero! Però non ci sono più i Natali di una volta!” e qualcun altro “Come passa il tempo, già passato un anno!”. I più fantasiosi e romantici esclamano di solito “Che bello! Sento già aria natalizia!” e si scontrano con il leggero cinismo di quelli che sostengono “Mah, festa per i bambini…“. Poi, solitamente, il discorso prende una piega più specifica e si addentra nel dettaglio: ”Quest’anno niente regali, basta stare insieme…”. “I bambini hanno già tutto, non hanno bisogno di niente…”. “Solo cose utili ed economiche…”. “Quello che conta è il segno, perciò regalo solo cosine fatte da me…”. “Non possiamo fare regaloni, sai, la crisi…”. “Noi? Solo un buon pranzo…”.

Ci siamo riappropriati di saggezza e buonsenso? No. Arriva il Black Friday, già il nome tutto un programma, quasi il titolo di un film horror, e poi è il turno del nordico St. Klaus o della pacata Santa Lucia a seconda delle regioni e delle latitudini italiane, seguiti da una più tranquillizzante Immacolata che mette al riparo da ogni rigurgito di ripensamento. Ed ecco la colorata e vociante movida, una folla indaffarata, che evoca l’immagine di un movimentatissimo e attivo formicaio, che si riversa in ogni angolo possibile dove si possa frugare, provare, tastare con mano, osservare, compararne i prezzi, scegliere e decidere di acquistare. Alla faccia dei buoni propositi e delle pie intenzioni. Escono stracarichi di borse e confezioni da sfiziose botteghe storiche, spaesanti centri commerciali new generation, accattivanti rivendite del centro e delle periferie, esercizi commerciali scintillanti pronti a inglobare, più che accogliere. Si lasciano rapire dalle vetrine strepitose dei negozi di gastronomia perché, come recita qualche elaborato cartello tra la mostarda e il salmone norvegese, “anche il palato ha bisogno di coccole” o “le nostre prelibatezze fanno sognare” e “acquistate arte pura”.

Ma non avevamo detto che… Ah, sì, l’avevamo quasi pensato ma poi Natale arriva una volta l’anno e Natale è Natale. Magari a Pasqua faremo una cosa più spartana. Genitori e nonni si trasformano in stacanovisti patentati alla ricerca dei giocattoli e dei giochi più avveniristici e tecnologici ma anche più tradizionali, in preda all’ansia da prestazione, perché le nuove generazioni sono sempre più esigenti ed intenditrici ed anche perché la tredicesima è arrivata ma occorre fare bene i calcoli. La media delle statistiche dice 300 euro a famiglia, quest’anno, cifra che regge gli standard dello scorso. Ormai tutto fa statistica e noi, se non rientriamo in una fascia di indagine, sicuramente facciamo parte di un’altra. Le donne giocano d’anticipo e generalmente il 22 dicembre pacchi e pacchetti sono già diligentemente stipati in qualche armadio o collocati direttamente sotto l’albero.

Il vero problema semmai sono gli uomini, meno tempisti e più svogliati per quanto riguarda questa attività frenetica. E allora capita di vederli aggirarsi simili a sconsolate falene nella notte del 24 dicembre, con fare furtivo e schivo, rannicchiati nei loro cappottoni o piumini, quasi ci fosse da nascondersi, fermarsi nei pressi di qualche negozio, in genere gioiellerie o profumerie, per recuperare all’ultimo, in zona cesarini, un gioiellino o un profumo alla moglie o alla fidanzata, con il nobile scopo di salvaguardare l’armonia familiare e schivare il rischio di rinfacci durante tutto l’anno a seguire. Escono dalla gioielleria con aria ancora più triste e dalla profumeria con addosso una scia esagerata di profumi, prova certa delle loro buone intenzioni, perché “con l’oro non si sbaglia mai” e “con un buon profumo fai sempre bella figura.”

Molti acquistano il regalo solidale e si può affermare che ce ne sono davvero di interessanti; moltissimi acquistano tutto online per comodità e convenienza, visto che, aggiornatissimo dato attuale ci dice che gli acquisti online sono saliti del 30% rispetto il 2015.
E poi arriva per davvero il 25 dicembre, che è quella data che dovrebbe significare qualcosa di emotivamente importante e menomale, gli auguri (che magari avevi già fatto la settimana prima per ogni evenienza o in preda all’entusiasmo…), la toccante liturgia della festività e i buoni propositi che anticipano di un po’ quelli che faremo a Capodanno.

Buon Natale! Anzi, adesso che ci penso, tanto per stare sul pezzo, domani mattina mi metterò a cercare quella cosina vista tempo fa, che avevo intenzione di regalare…

Ipocrisia e politically correct

di Vincenzo Masini

Il tema del politicamente corretto è la questione in cui più sottilmente si manifesta l’ipocrisia della politica.
L’espressione “politicamente corretto”, nata negli anni ’70, si incentrava sul tipo di linguaggio da utilizzare per garantire il rispetto verso persone appartenenti a minoranze, a differenti culture, con situazioni di disabilità, di esclusione sociale o di maggiore debolezza nel potere contrattuale e nell’immagine.
Il linguaggio voleva rappresentare un atteggiamento di accettazione e di inclusione da parte dei politicamente corretti per sancire una alleanza politica con le diverse minoranze. La teoria di inclusione sociale sottintesa era che l’insieme delle minoranze poteva diventare una maggioranza politica anche se a partecipare alle diverse minoranze fosse lo stesso individuo. Egli infatti poteva essere contemporaneamente ambientalista, vegetariano, omosessuale, malato, disabile, appartenente ad una minoranza etnica, ad una religione non ufficiale, ecc.

Il percorso di accettazione delle minoranze raggiunge però solo traguardi formali e linguistici poiché non riesce a produrre sostanza relazionale limitandosi al terreno dei diritti civili, delle carte dei diritti e delle leggi. La minoranza si attende però un altro livello di accettazione relazionale poiché vorrebbe che la maggioranza si “facesse simile” ovvero conformasse lo stile di vita al messaggio, anche di sofferenza, di cui la minoranza è portatrice. L’attesa ingenua della minoranza è quella di poter essere maggioranza per ottenere un’identità collettiva che sazi il bisogno di riconoscimento. Invece si trova di fronte solo al cambiamento del linguaggio.

Il linguaggio ha così determinato nella minoranza un’attesa di attenzione e di cura che è di gran lunga superiore alle possibilità relazionali, sociali ed economiche del sistema globalizzato e dei suoi stili di vita. Le aspettative deluse nella vita quotidiana possono dunque trasformarsi in rivendicazioni sociali anche molto forti.Serge Moscovici elabora la fondamentale teoria che l’influenza della minoranza differisce da quella della maggioranza perché la prima può aver luogo solo in condizioni di antagonismo mentre la seconda può realizzarsi anche in un contesto collaborativo. La maggioranza normativa può essere influenzata solo mediante l’enunciazione di posizioni politiche chiare capaci di attirare interesse dall’esterno.

Il problema vero è che l’interesse suscitato all’esterno del collettivo della minoranza è un interesse ipocrita, giacché esprime una posizione a livello linguistico ma un’altra a livello relazionale. In pratica un costante doppio legame, nel senso proposto da Gregory Bateson e di cui discuteremo più avanti.
Il latore del doppio legame è anch’egli prigioniero del medesimo doppio legame strutturato nel suo egocentrismo e non riesce nemmeno a rendersi conto del proprio atteggiamento ipocrita.
Egli bada costantemente a usare un linguaggio che non faccia sentire nessuno escluso, sminuito o svalutato, evita di riferire argomentazioni che si riferiscano ad un gruppo demografico (o a qualunque minoranza), modifica per compiacenza o per ideologia espressioni verbali che possono farlo apparire insensibile ai diritti della minoranza (dirà ministra per rispetto al movimento femminile nato come minoranza), non userà espressioni come “handicappato” o “ritardato” sostituendole con disabile, non si esprimerà con affermazioni religiose o simboli che possono offendere altre religioni, adopererà termini neutri per non perdere la faccia sbagliando interpretazioni di gender (“esci con qualcuno?” al posto di “hai la ragazza?”), non userà espressioni ritenute squalificanti per alcune professioni (becchino diventa operatore cimiteriale, spazzino diventa operatore ecologico, bidello diventa operatore scolastico…), si sforzerà di non apparire scorretto con barzellette che riguardano razza, classe, sessualità, età, genere, o abilità fisica e, ovviamente, cercherà sempre di parlare bene di tutte le minoranze.

Se questi atteggiamenti fossero solo indice di buona educazione non avremmo i giganteschi problemi psicologici e relazionali che il loro uso ha prodotto.
In primo luogo limitando implicitamente la libertà di pensiero, ovvero la riflessione personale (la Ragione) su temi come immigrazione, sicurezza, differenze di civiltà, di origine geografica e razziale, omosessualità, gender mainstreaming, domande esistenziali e fedi religiose inducendo la sensazione che si stiano affrontando dei tabù per il ciclo attuale della globalizzazione che deve rendere tutto indifferenziato.

La dittatura del relativismo che sta alle spalle del politicamente corretto mira a un progetto di riscrittura della mentalità e della società in chiave ipocrita e burocratica per neutralizzare sia i riferimenti ideali sia la relazionalità autentica.
In secondo luogo illudendo le minoranze di una loro piena accettazione attraverso l’opposizione ad una impalpabile maggioranza che le emarginerebbe perché razzista, omofoba, rozza, fascista, oscurantista e oppressiva. Quando il processo di opposizione è avviato esso non ha più fine perché ciascuna minoranza dovrà fare proselitismo per essere accettata dalla maggioranza e diventare essa stessa maggioranza. Il processo è dunque doppiamente ipocrita: i sostenitori dei diritti delle minoranze istigano al linguaggio politicamente corretto ma non modificano nulla del loro stile di vita e di relazione con le minoranze.

Attribuiscono poi a chiunque ponga resistenze al linguaggio politicamente corretto la responsabilità della non accettazione delle minoranze e, contemporaneamente, lottano per l’affermazione formale dei diritti delle minoranze. Pur sapendo che tali diritti saranno negati fattivamente dal potere burocratico insensibile alle relazioni e incapace di individuare soluzione pratiche e concrete. I critici del politicamente corretto sono costretti a diventare minoranza nel relativismo universale e, ipocritamente, affermare essi stessi il diritto ad essere accettati anche e solo come forme folkloristiche appartenenti al passato di cui hanno nostalgia.

Parliamo di acqua, ne abbiamo ancora bisogno.

Discutere dei temi dell’acqua non è mai abbastanza. Si è appena conclusa la fiera internazionale dell’acqua e molti importanti relatori hanno ampiamente discusso e affrontato questioni strategiche e fondamentali per il sistema idrico integrato. La situazione continuo a non essere rosea. Le priorità: necessità di rafforzare le difese del territorio; necessari ingenti investimenti; risposte al problema della qualità dei corpi recettori, incentivare la riduzione degli sprechi, migliorare la manutenzione delle reti di adduzione e di distribuzione, ridurre le perdite, favorire il riciclo dell’acqua e il riutilizzo delle acque reflue depurate; sistema di controlli e di sanzioni. In particolare:

Ambiti Territoriali Ottimali. L’art. 147 del decreto legislativo n. 152/06 prevede, al comma 1, che gli ATO siano definiti dalle Regioni. Vi sono, infatti, alcune Regioni che, dopo aver consolidato una organizzazione con più ATO, sono passate alla aggregazione su scala regionale (come l’Emilia Romagna); altre che avevano adottato tale soluzione fin dall’inizio e l’hanno confermata; altre ancora hanno mantenuto l’organizzazione con più ATO all’interno del proprio territorio

Affidamento in gestione Ancora grande frammentazione e debolezza del sistema di offerta. Ci sono circa 1800 gestioni del servizio idrico di cui l’80% in economia. Il decreto “Sblocca Italia”, intervenendo sull’art. 172 del decreto legislativo n. 152/06, ha disciplinato la procedura da seguire. Cessazione ex lege delle gestioni diverse dall’affidatario del servizio idrico integrato per l’ambito, con la sola eccezione delle c.d. “gestioni salvaguardate”, la proverbiale frammentazione del settore idrico arrivando a contare un massimo di 60-70 operatori (72 gli Ato risultanti dal riassetto della governance).

Infrazioni UE A distanza di oltre venti anni delle Direttive dei primi anni ‘90 il Paese non ha ancora recepito le prescrizioni che chiedevano agli Stati membri di dotarsi di sistemi di raccolta delle acque reflue urbane e di garantire opportuni trattamenti per rimuovere gli inquinanti dagli scarichi. Le carenze infrastrutturali nel servizio idrico sono già state oggetto di sentenze di condanna da parte della Corte di Giustizia Europea per mancata attuazione della Direttiva 91/271/CEE.

Il deficit impiantisco è così caratterizzato: il 4% della popolazione è ancora priva di adeguati impianti acquedottistici ed il 7% di un collegamento alla rete fognaria. Sul versante della depurazione della acque emerge poi un ritardo drammatico con il 15% della popolazione sprovvista di impianti di trattamento (il 21% del carico inquinante): in grave ritardo il Mezzogiorno. In Italia il 24% delle condotte di acquedotto ha un’età superiore ai 50 anni, così come il 27% delle reti fognarie, a fronte di vite utili regolatorie di 40 anni; il 92% degli interventi sulle reti idriche non è programmato, avviene cioè per riparare guasti alle condotte.

Investimenti Dopo scenario decennale inerziale (30 euro/abitante/anno) qualche miglioramento con segnale di ripresa consuntivo 2013 (42 euro/abitante), previsioni per il quadriennio 2014-2017 (in media 47 euro/abitante/anno):qualcosa si muove ma molto lontani dal fabbisogno di 80 euro/abitante/anno Serve un scenario ripresa investimenti: da 3,2 Mld€/anno (oltre 50 €/ab/anno) a 4,8 Mld€/anno (circa 80 €/ab/anno). Invece il centro studi REF così si esprime ” Considerando poi che il tasso di realizzazione degli investimenti si attesta all’80% nel 2015, si può dedurre che difficilmente assisteremo a un salto di qualità degli investimenti nel prossimo quadriennio. Complessivamente, per i 65 gestori osservati, nell’ambito delle predisposizioni tariffarie approvate dagli Enti d’Ambito sono stati programmati investimenti per 8,5 miliardi di euro nel periodo 20162019, cui vanno aggiunti i contributi a fondo perduto disponibili che portano la cifra a oltre 10 miliardi (in media 49 euro/abitante/anno contro i circa 40 del quadriennio 20142017, spaziando da un minimo di 10 euro/abitante/anno a un massimo di oltre150).

Metodo normalizzato L’Autorità ha scelto di non affrontare il tema nel periodo transitorio (2012-2013) e solo con il Metodo tariffario idrico 2014-2015 ha previsto una limitata possibilità, con dei vincoli prefissati, di modificare la struttura dei corrispettivi applicati agli utenti finali. Incrementi tariffari al 3% per il 2012, al 3,6% per il 2013, al 5,8% per il 2014 e al 5,6% per il 2015. Il Laboratorio nota che l’aumento medio delle tariffe tra il 2015 e il 2019 sarà del 13% (su un massimo possibile del 32%), con punte al Sud (27%) per recuperare il ritardo infrastrutturale. Parte della tariffa resta gravata dai conguagli (che nel periodo 20162019 valgono circa 1,3 miliardi di euro), in molti casi rimandati volentieri dalla politica locale a periodi successivi.

Regolazione Non vi è dubbio che le scelte del regolatore siano state dettate dalla volontà di perseguire obiettivi di efficienza e di efficacia nell’erogazione del servizio idrico, promuovendo la ricerca di dimensioni industriali e finanziarie delle gestioni adeguate, al fine di garantire un servizio di qualità. Il tema dell’efficienza è stato nuovamente rispolverato nell’ambito dei lavori sul MTI-2: in questo caso la dimensione del limite all’incremento tariffario ammissibile, in assenza di istruttoria AEEGSI, dipende dal superamento o meno di una soglia di costo operativo. Nel nuovo periodo regolatorio 2016-19 AEEGSI ha optato per l’introduzione di un meccanismo di efficientamento che lega l’incremento massimo della tariffa (il cosiddetto theta) al livello dei costi operativi pro capite (o oltre che al rapporto tra investimenti programmatie RAB).

In sintesi è crescente l’esigenza di un coordinamento con i recenti sviluppi della normativa in materia di regolazione e governance del servizio idrico. La natura peculiare del bene acqua come risorsa primaria indispensabile alla vita, deve trovare una integrazione funzionale con i distretti idrografici e la loro dimensione ottimale; la corretta pianificazione è diventata una esigenza inderogabile.

Il compito di favorire la partecipazione attiva dei cittadini agli atti fondamentali di pianificazione, programmazione e gestione del servizio è l’altro elemento da valorizzare.