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Giorno: 22 Dicembre 2016

A Natale gli italiani scelgono i prodotti tradizionali ma anche lo spreco è servito

Da: Cia Ferrara

Da Natale a Capodanno le famiglie spenderanno 3 miliardi di euro per la tavola, circa 300 euro in media a famiglia. Ma il 9% dei prodotti alimentari potrebbe finire nella spazzatura
FERRARA – «Per Natale scegliete prodotti della tradizione, che appartengono alla cultura agroalimentare del territorio, ma cercate di comprare solo quelli necessari, per evitare lo spreco alimentare.» E’ questa la raccomandazione di Stefano Calderoni, presidente provinciale di Cia – Agricoltori Italiani Ferrara a pochi giorni dalle festività natalizie, quando tutto è pronto per i preparativi di rito che riempiranno di cibo le tavole.
In base ai dati raccolti da Istat – Ismea ed elaborati dall’Ufficio studi di Cia Nazionale, infatti, gli italiani ambandiranno la tavola per le festività – spendendo in media una cifra intorno ai 300 euro, circa 3 miliardi di euro circa in totale – ma riempiranno troppo il carrello della spesa. Le stime parlano di un 9% in più di cibo acquistato che finirà nella spazzatura, per un valore complessivo di circa 230 milioni di euro.

«Sembra un consiglio banale – continua Calderoni – ma per evitare lo spreco la prima cosa da fare è scrivere una lista dettagliata di quello che davvero occorre per evitare di ritrovarsi le buste della spesa di cibi che non verranno consumati. Ogni famiglia nella settimana delle festività spenderà in media il 22% in più rispetto a una settimana normale e sprecherà anche il 9,5% in più. Perché, allora, non scegliere di comprare meno ma comprare meglio, scegliendo almeno un prodotto enogastronomico proveniente della aree terremotate dell’Appennino centrale per dare un’iniezione di fiducia alle aziende colpite dalla tragedia del sisma. Gli agricoltori ferraresi, insieme alle persone e alle aziende, hanno già donato una casa mobile a una famiglia marchigiana e un’altra verrà donata nei prossimi mesi. Ma acquistare per Natale e abitualmente i prodotti delle zone terremotate sarebbe un aiuto enorme e continuo per le aziende agricole di quei territori.»

Sempre secondo lo studio condotto da Cia Nazionale, sul podio degli acquisti “top” i dolci a partire da pandoro e panettone, carne e pesce per il 24 e tanto spumante per i brindisi. Bene anche leguminose, spinte dalla tradizione delle lenticchie per l’ultimo dell’anno.
Tornando, invece, ai macro numeri, in tutto il mese di dicembre gli italiani sborseranno per la spesa alimentare oltre 15,3 miliardi, di cui 1,3 miliardi di euro in cibi che non verranno consumati. Nonostante i miglioramenti registrati negli ultimi anni sul fronte degli sprechi e il varo di una legge ad hoc per contenerne gli effetti, la strada virtuosa “anti-spreco” è ancora lunga.

Incontri e laboratori teatrali presso istituti penitenziari di Atene

Da: Università di Ferrara

Incontri e laboratori teatrali presso istituti penitenziari di Atene a cura di Michalis Traitsis

Michalis Traitsis, direttore di Balamòs Teatro e responsabile dei laboratori teatrali del Centro Teatro Universitario di Ferrara, è stato invitato da associazioni governative greche a svolgere attività presso carceri della capitale.

Dopo precedenti esperienze due nuove intense giornate di lavoro così articolate:
martedì 3 gennaio 2017 dalle ore 11.00 alle ore 16.00, incontro e laboratorio teatrale con la comunità terapeutica dei detenuti tossicodipendenti alla Casa di Reclusione Maschile di Koridallòs (Atene);
giovedì 5 gennaio 2017 dalle ore 10.00 alle ore 14.00, incontro e laboratorio con il gruppo teatrale dell’ospedale psichiatrico giudiziario della Casa di Reclusione Maschile di Koridallòs (Atene).

Entrambe gli interventi fanno parte di altri analoghi inviti e di uno scambio di collaborazioni internazionali attivati dal 2015, a iniziare dalla giornata di lavoro Teatro in Carcere: dentro e oltre i confini – presso il Centro Teatro Universitario di Ferrara, partner scientifico – con la presenza di esponenti delle istituzioni governative greche.

Divieto di esplodere fuochi artificiali per le festività natalizie

Da: Comune di Copparo

Divieto di utilizzo di fuochi pirotecnici e botti liberi durante le feste di Natale sul territorio comunale. Lo stabilisce il Comune di Copparo con ordinanza del sindaco Nicola Rossi.
Il divieto si estende dalle ore 00.00 del 24 dicembre 2016 alle ore 24.00 del 6 gennaio 2017; per questo arco temporale sarà vietato lo scoppio di petardi, mortaretti, artifici e similari e di ogni tipo di fuoco pirotecnico in luogo pubblico o di uso pubblico, ma anche nei luoghi privati, attraverso i quali si possano raggiungere luoghi o aree ad uso pubblico.
Il provvedimento si rende necessario per salvaguardare l’incolumità pubblica, evitare lesioni alle persone e danni alle cose, tutelare gli animali da effetti traumatici derivati da rumori forti e improvvisi.
Per i trasgressori sono previste sanzioni a termini di legge.

DAL SETTIMANALE
Nero su bianco, affinità visive ferraresi

Pier Paolo Tralli e Claudio Strano (foto Giorgia Mazzotti)
Pier Paolo Tralli e Claudio Strano (foto Giorgia Mazzotti)

Alle scuole elementari erano vicini di banco. Poi studi diversi, impegni, famiglia, hanno allontanato quei banchi. Nell’impresa di mantenerli virtualmente vicini c’è riuscito il computer e la connessione Internet. Anziché i banchi, adesso ci sono due scrivanie davanti alle quali siedono da una parte Claudio Strano, giornalista e scrittore, e da qualche altra parte di Ferrara Pier Paolo Tralli, fotografo. In mezzo un dialogo di parole e immagini scattate sul territorio. Filari di pioppi con le radici che affondano dentro alla terra allagata, anziani che giocano a carte al tavolo di un bar, una linea scura orizzontale con sopra gli esili profili delle palafitte da pesca a dividere la distesa chiara dell’aria dal chiarore dell’acqua appena increspata sotto. Sono immagini e parole raccolte nel piccolo volume intitolato “Nero su bianco”, edito da Lulu.com con fotografie di Pier Paolo Tralli e testi di Claudio Strano.

Il mare di valle fotografato da Pier Paolo Tralli
Il mare di valle fotografato da Pier Paolo Tralli

“Ogni volta che vedo una delle foto di Pierpi su Facebook – racconta Claudio Strano – provo delle sensazioni particolari. Sono immagini che hanno un contenuto documentario, ma anche di più”. Ecco allora che il panorama con gli alberi in fila nella palude, il fotografo stesso lo intitola “Io non mi allineo”; e, a guardarci bene, effettivamente si nota quel pioppo eversivo, un po’ più basso ed esile, che piega il suo fusto ed esce fuori dall’infilata perfetta dei suoi simili. O le tre persone a riva con i piedi a mollo nel mare che guardano verso il largo, titolata “Exit”.

Le sensazioni che prova, Claudio si mette a scriverle in una forma poetica che rievoca un po’ la sensazione giocosa della filastrocca e un po’ la descrizione lirica. Claudio Strano ha sempre fatto convivere la scrittura del mestiere con quella evocativa. “Da ragazzo scrivevo poesie – racconta – poi ho iniziato a collaborare con l’Unità, il Resto del Carlino di Ferrara fino alla rivista Consumatori dove lavoro”. Nel frattempo ha pubblicato un libro di racconti, poesie su riviste e libri e una storia per l’infanzia maturata dall’esperienza della paternità.

"Io non mi allineo", la foto di Pier Paolo Tralli sulla copertina del libro
“Io non mi allineo”, la foto di Pier Paolo Tralli sulla copertina del libro

Vedere le fotografie sobrie ed evocative in rigoroso bianco e nero del suo vecchio compagno di scuola per lui diventa una finestra sulla quale tornare ad affacciarsi verso l’evocazione poetica. “A evidenziare dettagli ed emozioni – fa notare Claudio – ci sono già anche le brevi ma significative didascalie che Pier Paolo scrive”.

Tutte queste riflessioni, emozioni e sensazioni vengono affidate all’etere (e alla rete wi-fi). Finché non vien loro la voglia di dare a tutto ciò una sostanza e un supporto più concreto, che prende forma materiale e rimane. “Nero su bianco, appunto”, spiega Claudio sottolineando il significato di dare concretezza alle parole che ha questa frase, ma anche il riferimento alla scelta fotografica. “Il bianco e nero della fotografia – spiega Tralli – per me riescono a comunicare molto, senza offrire distrazioni all’occhio, ma concentrando l’attenzione sull’essenziale”. Ecco allora le sue visioni con luci sovraesposte che sbiancano lo sfondo e fanno apparire figure come incisioni o disegni scarni pieni di suggestioni. Chi le guarda viene condotto a pensieri e sentimenti sottili e avvolgenti come quelle linee. “Il bello è anche questo – commenta Tralli – di accorgersi di riuscire a trasmettere cose che io nemmeno avevo percepito né immaginato. Questa è la sorpresa che riescono a darmi i testi di Claudio”. Una photogallery poetica di Ferrara con testi a fronte.

“Nero su bianco” di Pier Paolo Tralli e Claudio Strano edito da Lulu.com è il libro in bianco e nero su carta crema, 80 pagine in formato quadrato di 20 centimetri. Può essere acquistato sullo stesso sito Lulu.com in formato cartaceo (10 euro) o elettronico per e-book (2 euro). In alternativa ci si può rivolgere direttamente ai due autori o su Amazon.

Calcutta nel cuore

Di Eleonora Rossi

Il nostro taxi sperona passanti e risciò e ci scarica in Sudder Street, quartier generale dei volontari. Appena ci si infila nelle strade infangate, la miseria e la sporcizia ti scivolano addosso: gente che vive sui marciapiedi e che, nel primo mattino, si lava e si insapona per strada.

Melma, odori nauseabondi, latrine, topi.

L’incenso che si infila nelle narici impastandosi all’odore pungente delle spezie, i clacson che ti pugnalano senza tregua. È un assalto ai sensi. Mi sento in trappola.

Ci infiliamo in un “hotel” all’apparenza confortevole, ma la stanza è nera e squallida e dal bagno fuoriesce odore di fogna. Chiudiamo con il mondo e dormiamo due ore, di sasso: il volo dall’Italia è durato tutta la notte. Una doccia e ci rituffiamo nell’afa e nel traffico di Calcutta.

Alcuni ragazzi ci indicano la via per la casa di madre Teresa, dove si registrano i volontari.

L’atmosfera qui è confortante, incredibilmente distesa: si apre un’oasi nel deserto delirante di Calcutta. Ci sono ragazzi e ragazze da tutto il mondo, ci dividono in gruppi a seconda della lingua. Scegliamo lo spagnolo e una ragazza ci racconta la sua esperienza: si può restare anche per pochi giorni, ma c’è chi ha davanti sei mesi o un anno di tempo. C’è addirittura chi ha lasciato il lavoro e non ha una data per il ritorno.

Io sono agitata: come reagirò alla sofferenza? Ci parlano di precauzioni igieniche, di mascherine per la tubercolosi, di shampoo per i pidocchi. Consigliano di fare la doccia più volte al giorno, di bere abbondantemente e di sforzarci di mangiare. Già, è necessario sforzarsi. Da quando siamo arrivati siamo riusciti solo a mandar giù una banana: il caldo, gli odori e le immagini impressionanti ci hanno tolto l’appetito.

Oggi è giovedì. Il giovedì i volontari non lavorano. Cominciamo bene…almeno proviamo ad ambientarci un po’. Andiamo al ristorantino “Blue Sky”, a pochi metri dal nostro hotel: qui si ritrovano i volontari a fare colazione. Incontriamo due ragazze italiane: Francesca, in città da due mesi e Lucia, ex giornalista innamorata dell’India che ha lasciato il suo posto in redazione per ritornare a Calcutta. Questo è il suo terzo soggiorno e le è stato chiesto di dedicarsi ad uno dei lavori più ingrati: individuare e soccorrere, nella stazione di Howrah, le persone che sembrano essere maggiormente sofferenti. Quelle in condizioni disperate. A lei e ad altri volontari tocca riconoscere chi si trova allo stremo delle forze per ricoverarlo a Kalighat, il “primo amore di madre Teresa”, la struttura di accoglienza dei “più poveri dei poveri”.

Lì è cominciato tutto. In quel luogo la piccola suora albanese ottenne di iniziare la sua missione. Era il 1952: Madre Teresa raccolse dalla strada una povera donna agonizzante, non voleva lasciarla morire sola su un marciapiede. Ottenne la vecchia casa per i pellegrini indù attigua al tempio della dea Kali e si trovò a fronteggiare, assieme alle sorelle della Carità, gli ortodossi induisti, che le consideravano intruse, accusate di voler convertire al Cristianesimo gli agonizzanti. Ma giorno dopo giorno si accorsero del servizio di quella donna  e il suo operato caritatevole le valse  la stima dell’India e del mondo intero.

A Kalighat andremo anche noi, per affiancarci ai volontari. Camminando per Sudder Street conosciamo Antonio, per tutti “Antò”, un ventenne di Vasto dalla simpatia irresistibile, e poi Isabelle, dal Belgio, una ragazza esile, ma sicuramente coraggiosa. È qui da sola, come del resto la maggior parte dei volontari e delle volontarie. Cristian, il sosia cileno di Teo Teocoli, con i suoi 50 anni è lo “zio” del gruppo: è partito da Santiago con sei mesi in tasca da spendere a Calcutta.

Sveglia alle 5.20. Attraversiamo a piedi una fetta della città: circa venti minuti di cammino ci separano infatti dalla “casa madre” delle sorelle della Carità.

Fuori dall’albergo, montagne di spazzatura: non ci sono bidoni per gettare i rifiuti, che si accumulano ovunque. Tra l’immondizia alcune cornacchie stanno smembrando le carogne dei topi: immagine nefasta per iniziare la giornata. La luce dell’alba ha già sorpreso chi dorme sui marciapiedi, sotto un telo di nylon: c’è un fervore ancora silenzioso tra quelle decine e decine di uomini che si lavano i denti e si insaponano intorno a un getto d’acqua. Hanno i capelli arruffati, sono magri e curvi come figure stilizzate, schizzi appena abbozzati nella foschia del mattino.

La messa, in inglese, è alle 6 e la partecipazione è libera: si entra scalzi, ci si siede o ci si inginocchia a terra, accanto a una schiera composta di suore con il sari bianco bordato di azzurro. Un rito raccolto e autentico per trarre forza dalla preghiera e dal canto, per entrare nella giornata con uno sguardo nuovo. Al termine si legge la “preghiera semplice” di San Francesco e si intona il canto “love thee  daily more and more”.

Con gli altri volontari ci si dirige poi a “Shishu Bavan”, la casa che accoglie i piccoli indiani orfani o abbandonati, per una colazione a base di pane, banane e tè al latte, secondo l’uso inglese. Quindi ci si divide nei diversi centri di Madre Teresa: si raggiungono in bus, nel traffico infernale della città.

Ancora un tratto a piedi ed eccoci a Kalighat.

L’odore di disinfettante mi sale fino al cervello e mi annebbia lo sguardo mentre salgo i brevi gradini che introducono nel ricovero.

Il mio corpo si è irrigidito per la tensione; l’odore sterile della formalina mi anestetizza i pensieri e come un automa seguo gli altri volontari.

Io ancora non so come potrò rendermi utile.

Decine di brandine sono allineate su gradoni, cinquanta per la sezione maschile e altrettante per quella femminile. Attraversiamo rapidamente la sezione maschile, infiliamo grembiule, guanti e mascherina ed entriamo nel settore femminile.

Le donne hanno i capelli rasati e sembrano deportate di guerra. Alcune sono pelle e ossa, teschi con gli occhi vivissimi. Un’anziana paziente è rannicchiata accanto alla branda, esile e spaurita: un uccellino caduto dal nido.

Le altre volontarie sanno come muoversi, io sono disorientata: le donne indi non parlano inglese, se non poche parole. Sono silenziose, raccolte in un atteggiamento grave. Ho il timore di disturbarle, di essere invadente. Aiuto Lo, una ragazza francese bella e dolce, a sollevare una donna e insieme andiamo in bagno a lavarla. Altre ragazze tengono la mano alle pazienti: c’è chi le aiuta a mangiare, chi le massaggia con olii profumati.

Molte delle volontarie hanno abbassato la mascherina; c’è il rischio tubercolosi, è vero, ma quando non ci si comprende a parole,  il sorriso diventa l’unico canale per comunicare.

È molto faticoso, soprattutto dal punto di vista psicologico, riuscire a “dare”. Ma a Kalighat c’è la possibilità  di essere utili anche in modo più immediato: lavando i panni degli ammalati. La “lavatrice” è una singolare catena umana di volontari disseminati in alcune vasche: nelle prime due i ragazzi, con i pantaloni arrotolati al ginocchio e i piedi nudi, calpestano i panni  vigorosamente per insaponarli e passarli al primo risciacquo. Sono abiti imbrattati e devono essere disinfettati con cura, l’acqua è quindi satura di formalina: le nostre mani, al primo contatto si irritano, poi ci si abitua e con gran lena si immergono e si strizzano i panni di vasca in vasca, poi si raccolgono in ceste e si stendono al piano di sopra, sulla terrazza.

Dalla terrazza si scorge il tempio della dea Kali, una cupola variopinta che si staglia sul cielo grigio di umidità. Da qui si riesce a sbirciare dall’alto la vita di Calcutta: il groviglio di uomini, mucche, taxi e risciò. Il brulicare colorato di una vita che sembra scorrere incontrollabile. Come in un affresco espressionista, a tinte forti. Un urlo prolungato, che rimbomba in milioni di vite.

La giornata a Kalighat prosegue con una breve pausa e uno spuntino per i volontari: pochi minuti in cui ci si conosce, si scherza,  in un ineguagliabile “effetto squadra” di parole e sorrisi. Soprattutto i medici e gli infermieri hanno bisogno di rilassarsi un po’ dopo aver lavorato ininterrottamente e affrontato infezioni e medicazioni indescrivibili, muovendosi con i pochi mezzi a disposizione tra le brande dei pazienti. Non tutti i volontari dediti alle medicazioni sono infermieri o medici, molti hanno appreso alcune tecniche rudimentali e aiutano i pochi operatori sanitari disponibili. Nel reparto femminile osservo una ragazza che con fare esperto legge le cartelle cliniche e distribuisce farmaci; mi avvicino per aiutarla. “Sei medico?”, le chiedo. “No – mi sorride –… avvocato!”.

Ci si prepara quindi all’ultimo servizio della mattinata: il pranzo per gli ammalati. Lo preparano le donne indiane insieme alle sorelle della Carità, ma alcune ragazze collaborano pelando patate (centinaia di piccole patate!).

Aiutare le anziane pazienti che non riescono a nutrirsi da sole è la mia prima esperienza di autentica condivisione: in quel momento, seduti al capezzale, reggendo la testa delle signore e imboccandole come fossero bambine, ho la sensazione di essere gradita. Il sorriso si distende allora sul viso di entrambe, boccone dopo boccone: il contatto si fa più umano, più vero. Tanto che al termine del pasto una paziente mi prende la mano e la accosta al suo viso, per chiedermi una carezza.

Io la accarezzo, e lei tende le braccia esili per cingermi in un abbraccio.

Ha gli occhi lucidi, ad un passo dalla commozione, proprio come i miei: mi specchio in quello sguardo buono.

Al pomeriggio, dopo una doccia, chi vuole può lavorare ancora: ci si riunisce in Sudder Street alle 14.30. Noi seguiamo Jordy, un ragazzo spagnolo straordinario per spirito e impegno – è a Calcutta da nove mesi, e instancabilmente, quasi ogni giorno, spiega ai nuovi volontari cosa fare e come muoversi – , e in metropolitana raggiungiamo  DAIA DAM, il centro per i bambini “speciali”.

Al piano terra, in un salone spazioso e colorato, decine di piccoli giocano, corrono, reclamano attenzione. Un piccolino – avrà forse due anni – sbatte ripetutamente la testa contro un banco. Lo prendo in braccio e lui mi stringe fortissimo.

Ci spiegano in questo settore sono ospitati i piccoli con disturbi lievi, che comunque vengono abbandonati dalle famiglie; sono diverse le patologie, ma non sempre è possibile intervenire in modo mirato sui singoli casi, eppure ogni bambino è seguito con affetto. Da alcuni anni un giovane  frate italiano opera a Daia Dan. Mi chiede di non scrivere di lui. “Non siamo eroi”, dice, “quello che facciamo è normale”. Ma non posso assecondarlo del tutto. Il sacerdote vive a Calcutta con questi bambini, e già questa scelta, almeno per me, costa sacrificio. Con i piccini – nonostante le difficoltà di comunicazione – è riuscito a realizzare uno spettacolo natalizio facendoli esprimere al meglio delle loro potenzialità. Tre mesi di lavoro che ancora danno i propri frutti: riguardando la videocassetta dello spettacolo, i bambini si riconoscono, battono le mani e cantano.

“Con questo spettacolo sono riusciti a trasmettere gioia”, osserva il frate francescano.

È innegabile: quello spettacolo un po’ impacciato nei movimenti o nel canto non suscita compassione, ma ineffabile felicità. I bambini ridono, si divertono, esprimono se stessi.

Piccoli mondi si intersecano in un’emozione condivisa: le diversità si annullano in quella tenerezza.

“Sono bambini”, sorride il sacerdote.

Al primo piano sono ospitati i casi più gravi. Qui vivono bambini e ragazzini, fino a 12-13 anni: non sono autosufficienti e devono essere imboccati, cambiati, trasportati. Interagire con loro sembra molto difficile. Ma è ancora una volta la naturalezza dei ragazzi volontari a guidarmi: la bellezza di gesti semplici ma coraggiosi suscita tutta la mia ammirazione.

I ragazzini richiedono un rapporto “uno a uno”, non hanno il controllo  e spesso, mentre li imbocchiamo, risputano il cibo. Impiego quasi un’ora per imboccare una piccola ospite e svuotare il piatto (carico di una montagna di riso e verdure cotte), poi Jordy mi affida un ragazzino colpito da malaria celebrale. È magrissimo, la testa sproporzionata sul corpo esile e inerte: non può parlare, non riesce a muovere gli arti, ma, mi spiega Jordy, comprende tutto e comunica con lo sguardo, con due immensi occhi neri. Mentre lo aiuto a mangiare un piatto di semolino gli parlo in inglese, gli racconto della mia vita, del mio lavoro a scuola con i bambini. Lui lentamente deglutisce e mi osserva, ci guardiamo continuamente negli occhi. E intanto mangia.

Una “sister” mi dice che negli ultimi giorni non ha mangiato quasi nulla e che è buon segno se riesce a finire il piatto. Io allora continuo a raccontare, a imboccarlo, e a intonare qualche canzone in inglese. Non canto bene (anzi!), ma mi sembra che gli faccia piacere ascoltarmi. Come del resto a me vederlo mangiare.

Ritorniamo in Sudder street appiccicosi e quasi esausti. La strada come sempre è affollata di persone che chiedono la carità, qualcuno è mutilato, qualcun altro ci insegue per vendere la sua merce. Ci sono interi gruppi familiari che si avvicinano agli stranieri per truffarli: chiedono latte per i loro piccoli, ti convincono a seguirli nei negozi per acquistarlo a prezzi esagerati, ma poi, in un secondo momento, ripassano dal negoziante restituendo il latte e ottenendo una percentuale di denaro.

Lungo la strada, verso sera, incontriamo gli altri volontari ed è una presenza rassicurante, che fa sentire a “casa”: si avvertono un rispetto ed un incoraggiamento reciproci davvero rari.

Nella nostra stanza modesta ci concediamo una doccia. Il ventilatore gira vorticosamente sul letto e insieme a lui i frammenti e i volti di ogni lunga giornata a Calcutta.

“Calcutta tiene algo” – mi ha confidato questa mattina Carmen, una volontaria spagnola – “Calcutta ha qualcosa”.

È come se possedesse un segreto: è il posto in cui si incontra Cristo che porta la croce, insieme ai suoi fratelli più piccoli.

Il miracolo di un luogo in cui riesci a pensare un po’ di più agli altri.

E a dimenticarti di te.

(Tutte le foto sono di Eleonora Rossi)

“Stubborn Will” il nuovo album di Enrico Cipollini

di Jacopo Aneghini

Enrico Cipollini è uno di quei musicisti che di certo non ha bisogno di presentazioni. Tra i migliori artisti della scena musicale ferrarese e italiana è già noto per i suoi precedenti lavori sia con il suo power trio Underground Railroad dove mischiava, con l’aiuto di altri due fenomenali musicisti, quel sound hard blues degli anni ‘70 con il southern e tutto ciò che ci ruota attorno, che con la band di Iarin Munari Free Jam, esibendosi, tra le numerose date, con entrambe le band al Pistoia Blues Festival. Se già un paio di anni fa aveva stupito con l’EP Songs From The Shelter, a metà del 2016 pubblica il suo primo disco solista: Stubborn Will. E proprio in questo suo nuovo progetto mi sono buttato a capofitto fin dagli inizi, seguendolo costantemente dal vivo ed in studio di registrazione, realizzando le fotografie che accompagnano il disco.

la copertina del disco
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L’album è a dir poco magistrale. Un disco maturo, ben realizzato in ogni aspetto. Ascoltandolo è come percorrere un viaggio tra la musica e la cultura musicale statunitense, ripercorrendo la sua storia e facendo tesoro di tutto il meglio che essa può offrire. Si parte dalle acque fangose del Mississippi di Do What You Can, uno dei brani più azzeccati dell’album, un blues suonato con la sua Dobro lap steel veramente impeccabile. Da lì poi si sale sul treno di Late Night Train (qui a dimostrazione della perfetta conoscenza della cultura di quella parte della black music che spesso si identifica come “race records”, dove la metafora del treno è molto ricorrente, basti pensare a “This Train Is Bound For Glory” della Tharpe e a “People Get Ready” degli Impressions) e si viaggi attraverso gli States, passando per il Nebraska di Springsteen e arrivando nella West Coast di Jackson Browne portandosi dietro, un po’ come il frutto di ciò che il viaggio ci ha lasciato, quelle ballate strumentali sempre al confine tra folk, country e blues songs e quella marcia in più che solo da Dylan si può imparare. Ecco, questo secondo me si può percepire dal disco, un concentrato di tutto quello che i grandi maestri possono insegnare con la loro musica e le loro parole. Il tutto impreziosito da alcuni dei migliori musicisti ferraresi e italiani, come Iarin Munari alla batteria, Roberto Catani (aka Fusco) al basso, Andrea Franchi al violoncello, Chiara Giacobbe al violino e ai cori. Il tutto sapientemente catturato da Angelo Paracchini e dallo staff dell’Over Studio di Cento (FE), che ancora una volta si conferma uno dei migliori studi di registrazione italiani. Tanti i brani degni di nota, You Think You Do è una di quelle ballate struggenti in cui volenti o nolenti ci si rispecchia, e dalle quali ci si lascia volentieri avvolgere dalla loro malinconia. La triade Nobody, Found ed Evelyne ti spinge ad ascoltarle tutte d’un fiato e a farle ricominciare daccapo in loop. Choirs, la traccia d’apertura, è uno di quei brani strumentali che passa tutto d’un fiato senza nemmeno accorgersene, e ti sembra un po’ come la parte seconda di Little Martha, come a completare quel capolavoro di Duane che spesso, e per fortuna, si riesce a sentire in Enrico. Where The Band Plays è uno di quei brani, invece, che ti sembra di conoscere da sempre, non per la sua banalità, ma per la sua semplicità. È un brano semplice, diretto, vero. Che non si nasconde dietro fronzoli, virtuosismi, suoni strani o chissà che altro. È tutto lì. E nemmeno ti chiedi che altro ti serve o ti manca, perché non ce n’è bisogno. Le sue dita poi si spostano sul pianoforte in A Dream And A Girl, per concludere il disco. Un brano che a parer mio è a metà tra gli Eagles e quell’Elton John degli esordi, dove si esibiva in trio ed era una bomba a mano. E il tutto sapevi che si andava a concludere con un brano così, lo sai, ma non perché te lo immagini, bensì perché ci speri. Di una empatia incredibile, brani che ti entrano dentro e non se vanno più, e ad oggi pochi artisti scrivono musica così ben fatta, così…bella! Stubborn Will è un tranello: ti avvolge con la sua semplicità e ti trattiene con la sua malinconia, da cui non riesci a liberarti, semplicemente perché non vuoi. E alla fine, quando il disco smette di girare, ti lascia addosso niente di meno che la sua bellezza.

Seguite Enrico nelle sue numerose serate, e a fine concerto acquistate il disco e scambiate due parole con lui, sicuramente tornerete a casa arricchiti di ciò che solo un grande musicista ma soprattutto una grande persona vi può trasmettere.

Natale in guerra

Parlare di guerra a Natale ha un senso, perché la consapevolezza dei conflitti attivi in questo momento e in questo mondo tormentato, nel periodo della Natività che è, per definizione, la festa del nuovo inizio, della speranza e della serenità, fa riflettere, sperare in una risoluzione e ripromettere di impegnarsi maggiormente affinchè tutta l’atrocità abbia fine. Non è ingenuità e nemmeno un modo sbrigativo per mettere a tacere le coscienze: è in qualche modo un atto dovuto a noi stessi, se vogliamo continuare a ritenerci onesti e soprattutto a quella povera gente che di guerra ne sa veramente qualcosa perché ne respira il veleno ogni istante e di quel veleno muore. Sono uomini, donne, vecchi e bambini che in un loro passato recente trascorrevano le loro esistenze come chiunque altrove ed ora sono costretti a rincorrere ogni istante la vita perché non si sa mai dove cadrà la prossima bomba e dove l’artiglieria colpisca, non si sa nemmeno se ci sarà latte per i più piccoli e il minimo di sostentamento quotidiano per tutti.

La guerra nel contesto urbano terrorizza più di qualsiasi altra operazione militare e le conseguenze fanno ancora più orrore per il pesante prezzo di civili che ne sono le vittime. Berlino, Bruxelles, Parigi, Aleppo, Kobane, Grozny, sono le testimonianze più recenti ma la storia passata ci ricorda anche Roma (88 a.C.), Tenochtitlàn (oggi Città del Messico, 1521) Parigi (1871), Stalingrado (Russia, 1942), Ortona (1943), Berlino (1945),  Hue (Vietnam, 1968), Fallujah (Iraq, 2004) e l’elenco sarebbe lunghissimo. Aggiungiamo anche Donetsk e Luhansk (Ucraina), dove si combatte ancora e su cui è calato impietosamente il silenzio.  Il combattimento casa per casa è il peggiore tra tutti, una subdola, martellante, incessante caccia al nemico che deve essere stanato come un topo ed eliminato ad ogni costo. La guerra nei centri abitati è un inferno tridimensionale dove il campo di battaglia non è solo il cielo sorvolato dai bombardieri,  le strade e le vie sgombre da macerie ma anche e soprattutto l’estensione verticale degli edifici dove il concetto di avanzata-ritirata è reso nullo, pericoli e imprevisti sono dietro ogni angolo e la conquista riguarda ogni singolo pezzo del caseggiato in modo del tutto diverso e fortuito. La guerra urbana possiede connotati e caratteristiche non ben definite e le sue tattiche non sono convenzionali perché si traducono in  imboscate, cecchinaggio, infiltrazioni, azioni atipiche che non permettono di collocarla nel novero delle battaglie classiche, paradossalmente rassicuranti, che conosciamo. La cronaca dei nostri giorni lo dimostra: gli attacchi a città come Parigi, Nizza, Dacca rappresentano la tattica usata dai jihadisti nella loro guerra all’Occidente, con tutte le particolarità di questa tipologia di scontro.

La guerra in città moltiplica gli ostacoli per i combattenti e i civili sono costretti ad assumere in fretta i comportamenti più disparati: la collaborazione, la resistenza, l’allontanamento. Anche l’assuefazione. Possono contare solo sull’istinto e lo spirito di sopravvivenza ed affrettarsi ad ascoltarlo e assecondarlo con ogni espediente, e ancora non basta, perché manca tutto: generi di prima necessità, la casa, i familiari rimasti sotto i colpi e nelle deflagrazioni, i riferimenti spazio-temporali certi.  Mancano gli ospedali finiti in macerie e mancano i medicinali. Manca qualsiasi aspetto legato alla normalità del vivere quotidiano.

In questo periodo il pensiero corre soprattutto ad Aleppo, dove la situazione umanitaria è disastrosa e gli aiuti arrivano a fatica. La città è un cumulo di macerie e fin dalle prime battute,  è stata teatro di violenti combattimenti con le forze antigovernative. Nel mese di settembre, l’esercito siriano, affiancato dalle forze sciite, dai reparti degli Hezbollah libanesi e dall’aeronautica russa, ha continuato l’avanzata dando un nuovo corso alla guerra, fino ad arrivare al recentissimo cessate il fuoco del 13 dicembre. Tutt’altro che definita e certa, la situazione: i combattimenti stanno già riprendendo e il massiccio piano di evacuazione della popolazione è stato bloccato. Una guerra tra tante che, come affermava Hannah Arendt “non restaura diritti, ridefinisce poteri…”.

Nicolai Lilin ha ricordato così il suo incontro con la guerra: “ In guerra mi facevano più impressione i vivi che i morti. I morti mi sembravano dei recipienti usati e poi buttati via da qualcuno, li guardavo come se fossero bottiglie rotte. I vivi, invece, avevano questo terribile vuoto negli occhi: erano esseri umani che avevano guardato oltre la pazzia e ora vivevano abbracciati alla morte.” Una impietosa, disincantata e brutalmente vera immagine della guerra. Che merita un pensiero anche a Natale.

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CALENDARIO DELL’AVVENTO
‘E’ una bella notte per venire fuori, agnellino mio’

[Pubblicato il 24 dicembre 2014]

Siamo arrivati all’ultima data di questo calendario dell’Avvento. Speriamo di avervi incuriosito, di avervi intrattenuto e divertito: spesso l’importante non è la mèta, ma l’esperienza del viaggio e con chi lo si condivide.
Quale miglior conclusione se non il ritorno al principio? Il ritorno al racconto di Miriam/Maria, ebrea di Galilea. Anche lei è giunta alla fine del viaggio da Nazaret a Betlemme, dove Iosef deve farsi registrare per il censimento ordinato dai dominatori romani. Per lei questa notte si compiono anche i giorni del parto: alla luce della stella cometa che ha accompagnato la sua gravidanza, in compagnia dell’asina che l’ha portata sulla groppa e di un bue che se ne sta tranquillo nella sua stalla, darà alla luce Ieshu, suo figlio.

«Sudavo. Appoggiata di schiena mi tenevo il pancione con due mani per aiutare le mosse del bambino. L’incoraggiavo a bassa voce, col respiro corto. Lo chiamavo. Le bestie alle spalle mi davano forza. Le gambe mi facevano male per la posizione. Mi inginocchiai per farle riposare. “Affacciati bimbo mio, vienimi incontro, mamma tua è pronta a prenderti al volo appena spunta la tua testolina.” I muscoli del ventre andavano dietro al respiro, una contrazione e un rilassamento, spinta, rincorsa, spinta. Quando lo strappo era più forte mi mordevo il labbro per non far scappare il grido. Iosef era di sicuro davanti alla porta, di guardia.
Lontano i pastori chiamavano qualche pecora persa. “È una bella notte per venire fuori, agnellino mio, notte limpida in alto e asciutta in terra. Il viaggio è finito e tu hai aspettato questo arrivo per nascere. Sei un bravo bambino, sai aspettare. Ora nasci, che tuo padre ti aspetta. Si chiama Iosef, quando entra gli diciamo: caro Iosef io sono Ieshu tuo figlio. Vedrai che sorpresa, che faccia farà.”
Parlavo e soffiavo, a un colpo più forte, una spallata di Ieshu, mi alzai di nuovo in piedi appoggiandomi alla mangiatoia. Le bestie ruminavano tranquille, c’era pace. Iosef aveva scelto un buon posto per noi. “Bel colpo Ieshu, un altro così e sei fuori, ecco ti aiuto, spingiamo insieme, le mani sono pronte ad accoglierti, via?” Via, è uscita la spalla, l’ho toccata, poi è rientrata, ma subito dopo di slancio Ieshu ha messo fuori la testa, l’ho avuta tra le mani, mi sono commossa, mi è scappato un singhiozzo e sul singhiozzo è venuto fuori tutto e l’ho afferrato al volo. L’ho alzato per i piedi per liberare i polmoni e fare spazio al primo vento che forza l’ingresso chiuso del respiro. Ieshu ha inghiottito aria senza piangere.
[…]
Fuori c’è il mondo, i padri, le leggi, gli eserciti, i registri in cui iscrivere il tuo nome, la circoncisione che ti darà l’appartenenza a un popolo. Fuori c’è odore di vino. Fuori c’è l’accampamento degli uomini. Qui dentro siamo solo noi, un calore di bestie ci avvolge e noi siamo al riparo dal mondo fino all’alba. Poi entreranno e tu non sarai più mio.
Ma finché dura la notte, finché la luce di una stella vagante è a picco su di noi, noi siamo i soli al mondo. Possiamo fare a meno di loro, anche di tuo padre Iosef, che è il migliore degli uomini. Pensa: noi usciamo di qui all’alba del giorno e fuori non esiste più nessuno, né città, né esseri umani. Pensa: noi siamo i soli al mondo. Che felicità sarebbe, nessun obbligo all’infuori di vivere. Finché dura la notte è così”.

Così Erri De Luca scrive del maggior prodigio della notte della natività: la perizia di una ragazza madre, la “sapienza di parto” di Miriam/Maria che si guadagna la ricompensa di poche ore di solitudine con suo figlio Ieshu, finché durerà la notte.

Canto di Miriam/Maria
Di chi è questo figlio perfetto,
chiederanno frugandolo in viso,
di chi è questo seme sospetto,
la paternità del tuo sorriso?
È solamente mio, è solamente mio,
di nessun’altra carne, è solamente mio.
È solamente mio, è solamente mio,
finché dura la notte è solamente mio
Chi è questo figlio cometa?
Chi è questo mio clandestino?
Spillato da fonte segreta,
venuto al travaso del vino?
È Solamente mio, è Solamente mio,
il suo nome stanotte è Solamente mio.
È Solamente mio, è Solamente mio,
domani avrà altro nome, adesso è Solamente
Mio.

Erri De Luca, “In nome della madre” (Feltrinelli 2006)

Caterina, o l’amore che resta

Finché morte non vi separi è una bugia. Il minimo sindacale. Un amore come il nostro arriva molto più in là. E il tuo lo sento anche da qui. (Giuseppe Sgarbi, Lei mi parla ancora).

Giuseppe Sgarbi e Susanna Tamaro durante la presentazione dei loro libri alla libreria Ibs+Libraccio
Giuseppe Sgarbi e Susanna Tamaro durante la presentazione dei loro libri alla libreria Ibs+Libraccio

La stanza con il caminetto acceso ora silenzioso, la poltrona tristemente vuota, i cappelletti della Katia. Dai lontani baci improvvisi, agli abbracci che non hanno bisogno di parole, oggi Giuseppe si ritrova solo, in compagnia di quei ricordi che fanno venire voglia solo di cullarsi nel passato per non pensare al presente o a un futuro che non si vuole nemmeno.
Lei non c’è più ma resta, ovunque.
Una lunga dichiarazione d’amore, come quelle di altri tempi, come quelle che non si leggono più e che ti lasciano solo la bellezza di quanto meraviglioso possa essere avere provato un sentimento che tutto guida, che tutto conduce, quella dell’ultimo libro di Giuseppe Sgarbi, Lei mi parla ancora, dedicato alla moglie Caterina, scomparsa recentemente. Sempre da troppo (“e tu, dimmi: perché sei andata via? Così presto, poi. Che fretta c’era?, dimmi….”). La meravigliosa ode alla “Rina spaccatutto”, come la chiamavano da giovane, che cambiava tono di voce quando parlava con la figlia Elisabetta, una dolcezza riservata solo a lei, una voce che diventava quella di un padre con Vittorio e quella di una donna con lui, Giuseppe, che aveva abboccato a un amo, felice di averlo fatto, quello gettato da una donna dalla testa lucida, vivida, fulminante. La luce di una vita che ci insegna presto a non fidarsi di lei.
Conosciutisi giovani (“la mattina che siamo saliti sulla corriera il mondo è cambiato. In meno di venti chilometri è cambiato”…), in bilico fra Ferrara e Stienta, Giuseppe e Rina si erano innamorati come in un romanzo di altri tempi, di quelli che si vorrebbero leggere ogni giorno. Lui sa, e romanticamente scrive, che chiunque si avvicinasse a lei avrebbe subito la sensazione che il mondo fosse piccolo. Che solo le loro braccia unite avrebbero formato il compasso che avrebbe disegnato il loro futuro e che tutto ciò che fosse stato compreso nel perimetro di quel cerchio sarebbe stato solo loro. E che, di cerchio in cerchio, avrebbero conquistato il mondo, per non separarsi più. E così sarebbe stato fino a poco tempo fa, sessantacinque anni dopo. Una vita intera. Un silenzio ora, una ghiaia muta nel cortile, una vite priva di foglie e un amaro odore di carburante. Tutto tace. Ora. Non c’è più tempo per abbracciarsi, per scambiarsi sguardi unicamente amorevoli, per dirsi quello che non ci si era detti. Se solo si avessero ancora le gambe forti e giovani per rincorrere e non lasciare andare…. L’ossigeno da solo non può nulla, serve acqua. E quell’acqua, per Giuseppe, era solo Caterina. Pagine tristi, ma avvolgenti e meravigliose, un mondo che entra in punta di piedi in quella storia d’amore tanto riparata quanto discreta. Dolcissimo immaginarsi che tra normali mura domestiche possa scorrere tanto calore. Quasi fiori tra e da pietre, travertino che fiorisce, con un solo piccolo e leggero tocco. Rina, una donna d’altri tempi, non nel senso normalmente dato a questa espressione, ma donna esploratrice del futuro, non certo una prigioniera del passato. E stare con lei non significava cercare un punto fermo intorno al quale mettere radici. Significava correrle dietro. Con la testa prima di tutto. “Quando ci penso”, continua Giuseppe, “mi viene in mente una cosa, letta chissà dove non si sa più quanti anni fa, che dice che chi si concede il lusso di amare una creatura selvatica finisce col guardare il cielo. Una vera forza della natura, questo si’. Impossibile addomesticarti. … se facevi una cosa era sempre le passione. Una passione come una mareggiata: non guardava in faccia nessuno e non si fermava davanti a niente”. Rina era libera nei pensieri, nelle parole, veloce, bella, brillante, infaticabile, retta, logica, ordinata, amante dei viaggi e della vita. Quasi un affresco. Da un incontro senza baci, dove a parlarsi erano state solo le mani intrecciate e gli occhi negli occhi, Giuseppe e Rina avevano iniziato uno di quei giochi che sarebbe stato per sempre. Fianco a fianco, fino alla fine. Una strada illuminata solo da due sorrisi complici e da un amore immenso che faceva girare la testa e poteva sfidare le stelle. E con esse camminare. Perché le cose accadono perché devono accadere.

img_6136Giuseppe Sgarbi, Lei mi parla ancora, Skira, 2016, 118 p.

Tornare a volare sotto una pioggia di dolore
Il commento fotografico del fondatore di Wunderkammer

La pioggia che cade e l’aereo che si intravede dietro alle gocce. E’ una foto bellissima e struggente quella scattata da Leonardo Delmonte in partenza martedì pomeriggio dall’aeroporto di Bologna per rientrare nella “sua” Berlino. Un’immagine che riesce a evocare il dolore per la tragedia che ha colpito il cuore della capitale tedesca, ma anche tutta la voglia di andare avanti, ripartire, non abbandonare mai.

Leonardo Delmonte a Wunderkammer prima di rientrare a Berlino (foto Anna Rosa Fava)
Leonardo Delmonte a Wunderkammer prima di rientrare a Berlino (foto Anna Rosa Fava)

Leonardo, trentenne, a Ferrara ha fondato l’associazione Basso Profilo e il consorzio che guarda caso si chiama proprio con il termine tedesco Wunderkammer, e si divide tra la sua città e Berlino. Sabato (17 dicembre 2016) era tornato a Ferrara per la conclusione del laboratorio di ‘Cultura in Movimento’ nella sede di Wunderkammer dentro a Palazzo Savonuzzi, in via Darsena. Da qui ha appreso la notizia dello schianto del Tir lanciato la sera di lunedì (19 dicembre) sulle persone che affollavano il mercatino di Natale nel centro della città, poco lontano dal famoso zoo di Berlino.

“I miei amici e colleghi per fortuna stanno tutti bene”, racconta mentre si appresta a ripartire. Per rassicurare tutte le persone che anche lui sta bene, Leonardo ha utilizzato la funzione attivata da Facebook che si chiama ‘Safety Check’ e serve proprio a comunicare ad amici e conoscenti che tutto è a posto quando ci si trova in posti che vengono colpiti da calamità e sciagure. Sono le stesse forze dell’ordine tedesche che hanno invitato gli abitanti a utilizzare il controllo di sicurezza messo a disposizione dal social network per evitare di creare allarmismi.

A Berlino, Leonardo ha scelto di abitare a Kreuzberg, il quartiere al confine con il muro che divideva dalla zona Est, da sempre punto di riferimento delle avanguardie culturali e ideologiche. Kreuzberg è ad alcuni chilometri di distanza da Breitscheidplatz, la piazza dove è avvenuta la tragedia, che si trova nella zona ovest, davanti alla Chiesa del Ricordo, quella con il campanile lasciato volutamente distrutto, in memoria dei bombardamenti della seconda guerra mondiale. “La zona dove abito – dice Leonardo – è uno dei quartieri più interessanti e meticci. Speriamo davvero che il clima non cambi... con le elezioni alle porte poi… proprio non ci voleva”. (g.m.)

Aspettando il Nuovo Anno

Mestamente faccio su gli stracci e m’organizzo per passare Capodanno nell’altra patria ingrata, Firenze; almeno per qualche giorno niente incendi, niente botti, niente Orlando, niente Bassani.
Si tira un sospiro di sollievo e si ricomincia perché guai mollare (scusate l’espressione vagamente in odor di tempi non sospetti).
Ma ancora una volta, alla notizia di una perdita, ritorna ancor più incattivito il segnale di cui Ferrara sembra essere maestra: la dimenticanza.
E’ morto Paolo Prodi. Il suo ruolo è stato significativo per la cultura, la società, la politica non solo emiliana ma nazionale e transnazionale, Così il suo profilo estratto da Wikipedia:
“Si è laureato in Scienze Politiche presso l’Università Cattolica di Milano, dopo aver vinto una borsa di studio presso il Collegio Augustinianum, per poi perfezionare gli studi presso l’Università di Bonn. Ha insegnato Storia moderna presso l’Università di Trento (di cui è stato rettore dal 1972 al 1977, nonché preside della Facoltà di Lettere dal 1985 al 1988), l’Università di Roma e l’Università di Bologna (della cui Facoltà di Magistero è stato preside dal 1969 al 1972). È Presidente della Giunta Storica Nazionale (già Giunta Centrale per gli Studi Storici), membro dell’Accademia Austriaca delle Scienze e dell’Accademia Nazionale dei Lincei.
È stato tra i fondatori dell’Associazione di cultura e politica “Il Mulino” (fondata nel 1965). Nel 1973 ha fondato, insieme a Hubert Jedin (di cui è stato allievo), l’Istituto storico italo-germanico di Trento, istituto che ha diretto per oltre un ventennio. Nel 2007 è stato insignito del Premio Alexander von Humboldt.
Era fratello del politico ed economista Romano Prodi, del professore e politico Vittorio Prodi, del fisico Franco Prodi, dell’oncologo Giorgio Prodi e del matematico Giovanni Prodi.
Basterebbero queste scarne notizie a rilevare la caratura straordinaria del personaggio; ma quello che avrebbe dovuto sollecitare il ricordo dei ferraresi è che Paolo Prodi è stato per anni Presidente e Direttore dell’Istituto di Studi Rinascimentali di Ferrara con il quale aveva instaurato un altissimo rapporto di collaborazione scientifica condivisa a questo punto con coloro che operarono all’interno dell’Istituto. Basterebbe citare studiosi eminentissimi quali Ezio Raimondi, Adriano Prosperi, Gian Paolo Brizzi, Gigliola Fragnito nel campo della storia e della storia moderna specie di quel momento fondamentale che fu il rapido diffondersi anche a Ferrara dei movimenti ereticali e di quella che Prodi chiamava non la Controriforma ma la Riforma cattolica. Un lavoro di altissima qualità scientifica affidata a molte pubblicazioni gloria e vanto dell’ISR.
Furono tempi fondamentali per la cultura a Ferrara e di Ferrara di cui non resta neanche il ricordo. Ho chiesto un segno pubblico di riconoscenza ma non è possibile nemmeno un ‘santino’ sul giornale !Per mancanza di fondi, dicono. Ecco allora che per ricordare l’amico e il compagno di tante ed esaltanti avventure mi permetto di scrivere queste poche righe.
Un ricordo vivissimo a casa di Ezio Raimondi mentre aspettavamo la conclusione dell’elezione del fratello di Paolo, Romano. Un gruppetto di amici tra cui Andrea Emiliani e alcuni giovani allievi di Prodi e di Raimondi instaurarono una fitta rete di rimandi che dimostrava, se ce ne fosse stato bisogno, la straordinaria capacità dello storico e dei suoi amici di trasmettere cultura e ancora di tener vivo e vitale il principio della Storia. Oggi sulle pagine de ‘La Repubblica’ dove si parlava dei funerali di Paolo, Adriano Prosperi commentava: “ed esorta a istituire seminari permanenti sui temi da lui studiati.” Non sarebbe stata l’occasione che qualcuno si ricordasse di coloro, tra i grandi studiosi, che resero indimenticabile un momento della nostra storia ferrarese?
Ma come si sa la nebbia è di casa dalle nostre parti.
Alla fine del lungo, quasi interminabile percorso del centenario ariostesco m’invitano a parlare dell’Orlando furioso alla scuola media de Pisis. Quattro terze e due seconde. Accetto volentieri in quanto so la qualità degli insegnanti e con quale amore quella scuola si è resa accogliente ai nuovi italiani. Ragazzine e ragazzini cinesi, arabi, nigeriani e di tante altre nazioni che la risacca dei migranti ha depositato qui nella nostra città e nella nostra provincia. Racconto la storia del grande poeta, cerco di far capire loro con la metafora del terzo occhio che i poeti e gli artisti in genere posseggono un occhio interno che trasforma la cronaca della loro vita in verità superiore e che questo è la realtà, il senso di essere umani. Poi alla fine tra gli inevitabili sghignazzi a vedere Lucrezia Borgia nelle vesti di Flora col seno nudo ma con un quasi evidente sospiro allorché faccio vedere la ciocca di capelli biondi conservati all’Ambrosiana pegno dell’amore tra la bella Lucrezia e il cardinal Bembo comincio un gioco. Ho portato l’edizione dell’Orlando del 1603 con le tavole che lo adornano e il commento del Ruscelli. Chiamo 10 ragazzi a sfogliare il libro con i guanti di filo bianco, come fanno gli studiosi, ma voglio che almeno metà siano i nuovi italiani che debbono prendere coscienza dei grandi personaggi della loro nuova patria. Sono emozionatissimi e orgogliosi di questo compito tra gli applausi dei compagni. Alla fine una ragazzina cinese mi chiede di poter anche lei indossare i guanti e sfogliare il libro. Ha un sorriso così luminoso che le permetto di toccare con un dito senza guanto la prima pagina. Naturalmente mi commuovo ma non lo dimostro.
Potere della poesia che ci rende simili agli dèi.

Il 2016 finisce, mentre gli italiani finalmente si ridestano

Il 2016 si chiude all’insegna dell’ottimismo. In fondo abbiamo gli stessi problemi che avevamo a fine 2015, ma questa volta ci sono chiari segnali che il 2017 sarà diverso.
La sentenza 275 della Corte Costituzionale in merito a una controversia tra Regione Abruzzo e Provincia di Pescara, relativamente al servizio di trasporto scolastico dei disabili, ha riconosciuto che è un diritto inviolabile e da tutelare, e a prescindere dall’art. 81 che prevede l’equilibrio di bilancio. Un po’ come dire che la vita reale, in questo caso il diritto allo studio di ragazzi disabili, ottiene un piccolo successo sui fogli di bilancio.
Poi il governo mette 20 miliardi per la difesa delle banche e quindi dei risparmiatori. Anche qui una piccola vittoria di chi ha sempre sostenuto che solo un intervento statale e solo delle garanzie statali possano tenere a galla le nostre banche già virtualmente tutte fallite. E anche, come dire, che le regole volute dall’Europa sull’Unione Bancaria sono un elemento di instabilità per i sistemi bancari e qui abbiamo fatto né più né meno di quello che normalmente fa la Germania con il suo 58% di banche pubbliche.

Abbiamo parlato più volte della grande novità rappresentata da Brexit e dall’elezione di Trump negli Stati Uniti. Ovvero della presa di coscienza da parte degli elettori, dei cittadini, che l’unico modo per cambiare qualcosa nel declino costante degli ultimi decenni della classe media e medio – bassa era quello di cambiare, appunto. E cambiare a costo anche dell’ignoto e di mettersi nelle mani di un personaggio particolare come Trump che è stato però ritenuto più valido di una Clinton, che invece rappresentava la strada della continuità. Insomma un desiderio così grande di cambiamento che neppure la campagna elettorale pro Clinton di televisioni e giornali di regime era bastata a frenare.
In Italia ha vinto poi il no al referendum sulle riforme costituzionali. La gente ha detto no perché si è accorta che non era vero che il sì avrebbe portato ad un cambiamento, che i suoi interessi non coincidevano più con quelli del governo. E ha detto no proprio a quel governo di Matteo Renzi e della Elena Boschi, fiduciosi nel fatto che avrebbero mantenuto la promessa di lasciare la politica in caso di sconfitta. E’ stato un voto contro le riforme costituzionali ma soprattutto contro di loro e di tutto il Pd.
Invece l’arroganza di questi geni della politica è andata oltre ogni aspettativa e Renzi si è tenuto stretto il posto di Segretario del Pd e inizia la sua rimonta dopo aver concordato con Mattarella il nuovo governo Gentiloni, mentre la Boschi viene promossa a Sottosegretario alla presidenza del consiglio. Abbiamo poi la parlamentare del Pd Fedeli, che aveva dichiarato si sarebbe dimessa da parlamentare ed è invece diventata Ministro dell’istruzione, sembra senza nemmeno un diploma verificabile. Franceschini aveva invece dichiarato “questo governo nasce per fare le riforme se non si fanno è giusto vada a casa”, anche lui rimane ben saldo alla sedia di ministro.

Ora è un fatto che per cinque anni, dal 2011 e precisamente dal governo Monti, si sono prese decisioni pesanti per i cittadini. Decisioni che hanno visto come conseguenza aziende chiudere, lavoro e tutele diminuire, interessi stranieri prendere il sopravvento, abbiamo persino ceduto alla Francia porzioni di mare dopo che è risultato chiaro il danno che ci ha apportato in Libia con l’inizio dei bombardamenti (a cui misteriosamente abbiamo poi anche partecipato!).
E tutto questo sempre per il nostro bene, ma alla fine dopo aver fatto tutti i sacrifici che ci sono stati richiesti, siamo tutti più poveri, si alza il numero di quelli che lo è già, sappiamo che avremo pensioni ridicole e dopo i 70 anni, che siamo costretti a tenerci i figli a casa sempre di più o a mandarli in Germania per 400 euro al mese.
Ma tutto questo, insieme alla sentenza delle Corte Costituzionale e dei 20 miliardi per le banche con cui abbiamo iniziato l’articolo, è molto positivo. Perché le persone che avevano cominciato a capire quanto i nostri politici fossero lontano dai nostri interessi adesso non possono più avere dubbi. Le menzogne sono troppe e i fatti sono quello che sono, basta volerli vedere e oramai, con le ultime scelte di riproporre un governo fotocopia che facesse le stesse cose di quello precedente, con gli stessi ministri più qualcuno promosso non può più essere non visto.

Ministri senza una laurea e adesso senza nemmeno un diploma, mentitori seriali che fino a ora abbiamo accettato convinti di non avere scelta ci pongono di fronte all’effetto Trump e alle prossime elezioni senza la paura del diverso, del cambiamento. Perché adesso conosciamo il vero volto di chi ci sta governando e di quanto siano disposti a mentire per rimanere ai loro posti di comando. Se solo avessimo una stampa decente questi aspetti verrebbero rimarcati continuamente, invece tra poco Renzi e company saranno chiamati nei Talk Show che tenderanno a far dimenticare il tutto.
In un mondo perfetto vorremmo vedere l’Annunziata o la Gruber richiamare la Boschi e Renzi e chieder loro per la durata della trasmissione perché hanno mentito agli italiani e come intendono riparare, ma allora non saremmo al 77° posto per libertà di stampa, quindi dobbiamo fare da noi.
Ma se servivano Renzi e la Boschi e il nuovo Ministro Fedeli e le dichiarazioni di Franceschini per rendere evidente le falsità di chi ci ha nutrito di solgan per anni anche per chi fino ad adesso non aveva ancora messo a fuoco, allora grazie Renzi, Boschi, Fedeli e Franceschini.

La globalizzazione non piace più

Per molto tempo si è pensato fosse la migliore soluzione per risolvere i mali del mondo, ma ora pare prevalere un preoccupante ripensamento. Si valutava fosse necessaria per creare una società globale in cui migliorare le condizioni di salute e il tenore di vita nel mondo. Si è sperato potesse cambiare il modo di pensare della gente e aiutare i poveri e gli emarginati del mondo, ma si è scoperto che spesso ha servito gli interessi dei paesi industrializzati. Certo il principio di base è che ci si debba concentrare sui temi per i quali un’azione collettiva possa essere desiderabile e dunque utile. L’ambiente andrebbe aiutato ponendo problemi a livello globale, invece pare che tutto ciò abbia portato instabilità. Tra i primi a segnalare qualche dubbio fu Stiglitz che nel suo libro “La globalizzazione e i suoi oppositori” (edizioni Einaudi) ha scritto come la globalizzazione abbia creato una società civile globale, ma ha comunque rilevato che per i poveri del mondo non funziona e pone problemi all’ambiente, creando instabilità a livello globale. Anche Bauman nella sua “Società individualizzata” (edizioni Mulino) ha sostenuto che la globalizzazione è il nuovo disordine (la svalutazione dell’ordine), perché la nuova gerarchia del potere vuole muoversi creando la flessibilità come scelta strategica. Ora il presidente degli Stati Uniti è Trump e queste parole mi sono tornate in mente. Cosa succederà?

Intanto Trump ha nominato Scott Pruitt alla guida dell’’EPA (Environmental Protection Agency). Pruitt è conosciuto come il negazionista del climate change e come procuratore dell’Oklahoma ha condotto battaglie contro l’aborto e contro i matrimoni tra omosessuali…

Pisapia a domanda risponde: Le fa paura Trump?Mi fa paura che non si impari niente dalla lezione americana, che è il trionfo di un messaggio reazionario e la vittoria della politica della rabbia. Dopo Brexit, dopo Trump, bisogna fare uno sforzo immenso perché chi crede nello stesso sistema di valori non si divida. Bisogna trovare la formula per costruire ponti. Mentre dappertutto – anche a casa nostra, anche all’interno della sinistra e del centrosinistra – si sono alzati i muri. Il mio è un appello quasi disperato: le forze della sinistra devono sentire il peso di una responsabilità storica come forse mai nei tempi recenti“.

Preoccupazioni che in questo giorni stanno crescendo. Le economie hanno avuto una crescita moderata e i tassi di inflazione sono stai contenuti in una apparente continuità. Ma è solo una attesa? O è un obiettivo raggiunto dalle banche centrali? Cosa succederà? La quotazione del petrolio intanto resta stabile e si prevede un rafforzamento del dollaro. Credo si debba immaginare per il futuro un grosso cambiamento del quadro economico mondiale. Non intendo certo propormi come un economista dilettante, ho però un grande terrore della instabilità politica generalizzata.

REF (la più importante società economica di ricerca) ha fatto il punto sulla congiuntura economica italiana dicendo: “L’Italia si appresta ad affrontare un nuovo delicato passaggio istituzionale. Nelle prossime settimane verrà definito il percorso che seguirà alla crisi di Governo apertasi dopo il referendum sulla riforma costituzionale. E’ importante una gestione ordinata della crisi, per prevenire da un lato tensioni sui mercati finanziari e dall’altro peggioramenti delle aspettative degli operatori, famiglie e imprese. L’economia italiana affronta questa nuova crisi politica al termine di un biennio di ripresa, anche se a ritmi di crescita relativamente moderati. E’ necessario che questa ripresa continui, senza incontrare nuovi ostacoli”.

La prima grande sconfitta la subirà l’ambiente. Esperti internazionali hanno rilevato che ci saranno 4,8 miliardi di posti di lavoro persi, e Trump vuole uscire dagli accordi di Parigi e vuole potenziare la Big Oil con la deregulation ambientale. La destra nazionalista della Casa Bianca (ma anche dell’Europa) vuole il protezionismo (che naturalmente creerà più povertà).

Buon anno a tutti noi.

INSOLITE NOTE
“Vorrei che morissi d’Arte”, l’ultimo album di Mico Argirò

S’intitola “Vorrei che morissi d’arte”, il nuovo album di Mico Argirò, una visione personale della contemporaneità tra sentimenti puri, scampoli di vita reale, scacchisti e potenti, attese struggenti e contaminazioni musicali.
Il disco è un viaggio nel cantautorato e nel folklore italiano, con sorprese e assoli pronti ad interrompere melodie e situazioni. Mico Argirò subisce l’influenza di De André, De Gregori, Capossela, senza nascondere lo sguardo verso Sting, Beatles, Yann Tiersen e Pink Floyd.
Il brano che dà il titolo all’album è un’apparente contraddizione di parole, un gioco a base di pop-rock, una provocazione espressiva un po’ sopra le righe, volutamente in contrasto con la gradevole voce di Mico e la verve dei suoi musicisti.

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Figura 1: la copertina del nuovo album di Mico Argirò

Da questo caos di riferimenti e armonie nasce “Figlio di nessuno”, un personaggio che suona la tromba vagando per le vie della città, senza chiedere nulla in cambio. Gli strumenti interagiscono con i rumori del quotidiano, tra un caffè al bar e il traffico della città. Nel finale la tromba accenna a qualche nota di “’O surdato ‘nnammurato”.
L’amore tra due ragazzi è il tema di “Saltare”, brano dolce e assoluto, come è giusto che sia questo sentimento. “Chissà se tornerà?”, una delle migliori melodie del disco, racconta un altro aspetto dell’amore, la storia di un anziano in attesa di chi non potrà venire più. Intorno a lui la vita continua, i rumori della strada e la fisarmonica chiudono malinconicamente la giornata.
“Il polacco” è un uomo senza catene e senza meta, probabilmente passato almeno una volta accanto ad ognuno di noi. Il sound miscela gli ottoni dell’est europeo a sonorità latine e percussioni a base di cajon.

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Figura 2: Foto di gruppo durante le riprese del videoclip “Il polacco” (Mico Argirò al centro in piedi con la chitarra in mano)

“Lo scacchista” calcola ogni passo della sua vita, ricollegandosi a “Vorrei che morissi d’arte”, il brano iniziale, rivelando chi sia il destinatario del minaccioso augurio.
“Money”, a tempo di reggae, abbina soldi e potenti alle tempeste metaforiche. L’omonimo brano dei Pink Floyd è un punto di riferimento importante del progetto, al punto da creare un conflitto stilistico.
Il disco di Mico Argirò è un laboratorio di caotica creatività, una sfida in cui esperimenti e sfumature si attirano e qualche volta si respingono. Stili e linguaggi ci regalano il ritratto di un autore a cui non mancano idee, coraggio e personalità. Le canzoni incuriosiscono e, come sirene, inevitabilmente catturano l’attenzione. Sopra a tutte: “Chissà se tornerà?” “Figlio di nessuno”, “Saltare”.

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Figura 3: Mico Argirò

Una domanda a Mico Argirò:
Come è nata l’idea di scrivere una tua “Money”?
“Money” è il pezzo centrale del disco, così come lo è l’economia nel nostro secolo. Il punto di vista è quello di un potente col “destino del mondo sul mignolo”, chiuso in una stanza con droga e amore mercenario, “mentre fuori infuria una tempesta”. Musicalmente la fusione con il brano dei Pink Floyd c’entra non soltanto tematicamente ma anche concettualmente. Inoltre, il gruppo inglese è stato tra i primi a inserire i suoni della vita reale nelle canzoni, elemento costantemente presente nei miei nuovi brani. La musica d’autore è spesso un genere chiuso su se stesso, a me piace aprirmi, sperimentare, mischiare.

Video Ufficiale: “Il polacco”

PUNTO DI VISTA
Natività: il Redentore fra gli uomini. Una riflessione di don Franco Patruno

[Pubblicato il 25 dicembre 2015]

ROUAULT IL MISERERE

LA NOTTE DELLA REDENZIONE

Meditazione sul Natale di don Franco Patruno attraverso un’opera d’arte di Rouault dal “Miserere”

La Madonna di Finisterre

E’ una relazione che sembra già avvertire i detti e gli eventi fondamentali del piano di salvezza: la Vergine e Gesù Bambino sono stagliati su un paesaggio disteso e palesemente dilatato oltre i limiti del supporto. Una luce densa e granulosa sale dalle colline della Palestina, fa da corona al soggetto santo: non è presagio ma lode all’accaduto, alla nascita del sale della terra e della luce del mondo, silenzioso ed organico canto alla redenzione.

Georges Rouault  (Parigi, 1871-1958) è considerato non a torto uno dei più originali espressionisti del Novecento. La sua formazione in un’officina di vetrate segnerà indelebilmente tutta la sua attività, in modo particolare le splendide 58 grandi incisioni con il tema del “Miserere”, nelle quali, in una lettura cristologia del Salmo 50, è inserita questa Madonna con il Bambino che ben esprime, anche se non con la tradizionale scenografia dei presepi, il senso dell’Incarnazione. Non è un’immagine consolatoria: le acqueforti sono state definite, secondo una biografia ragionata, nell’ambito di un decennio particolarmente intenso e per molti aspetti drammatico, cioè tra il 1917 e il 1927. Il primo conflitto mondiale stava per aver termine, ma diverse correnti di pensiero e manifestazioni d’arte avvertivano, come antenne particolarmente sensibili ai mutamenti epocali, che l’Europa stava percorrendo strade senza via d’uscita. Rouault affronta soggetti ai margini della vita, come nel caso dei diseredati di ogni ordine e grado e delle prostitute. Ed è in questa atmosfera che conosce le intelligenze cattoliche più sensibili di quel periodo non solo in Francia, in modo particolare i coniugi Maritain e tutta “l’officina” letteraria, filosofica e artistica che si ritrovava a casa loro.

Un duplice ancoraggio alle modalità dei contorni a vetrata e al testo biblico sono evidenti nella serie del “Miserere”. La sequenza, infatti, coniuga l’attualità sociale, spesso graffiante ed accusatoria, con quella che una simpatica e pedagogica pubblicazione francese degli anni Settanta ha definito “Giovinezza perenne dell’Antico Testamento”. Va anche detto che l’artista non segue verso per verso il salmo, ma lo concepisce come una mirabile sintesi che insieme lega il “De profundis” ai libri profetici. Tragicamente sublime è il sarcasmo nella rappresentazione dei “signori della guerra”, mentre l’eco dell’Espressionismo tedesco si fa palese nel soggetto “Il cieco a volte ha consolato chi vede”.

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La Vergine dell’Incarnazione, che corrisponde alla tavola 57, forma con il Figlio un blocco unitario, essenziale, senza accessori inutili alla resa plastica e luminosa. Rouault concepisce i corpi per sezioni duttili e tendenti alla curvilinea resa di massa evidenziata in accensione di bianco. In questo c’è un richiamo alla scultura e alla pittura romanica e gotica, soprattutto quella dei Crocifissi. Ma diversa, come panico cosmico che sembra attendere una liberazione, è la messa in scena dell’evento. Si percepisce, infatti, che l’intenzione e la resa formale intendono assumere la Storia. Pura fantasia attributiva di significati? Non credo, se si guarda la centralità del blocco compositivo, l’inclinazione del volto di Maria e le mani del Fanciullo che con una mano non regge un giocattolo ma l’universo. E’ evidente che l’artista ha inteso Maria come Madre di Dio redentore, che tutto raccoglie in una semplicità seriale che solo la fede può afferrare, anche se esclusivamente attraverso segni e non in chiara escatologica visione. In Rouault è esplicita l’Incarnazione, che per lui significa autentica assunzione di ogni frammento disperso. Non c’è niente che faccia pensare alla virtualità o ad una mera accettazione del solo spirito: ogni gnosticismo è confutato non con la dialettica delle parole teologiche, ma con la forza espressiva dell’arte. E’ ammirevole poi come il pittore ed incisore francese concepisca la luminosità: se la crescita del bianco sullo sfondo nasce dalla terra e s’espande con ineluttabile progressione, quello dei volti e dei corpi, ritagliato e contornato secondo moduli di vetrata, ha una sua autonomia; per cui lo scintillio oltre le colline è riverbero della gioia in natura coinvolta, mentre quello della composizione santa è scritto ed inciso nell’elevazione corposa della Madre e del Figlio. E’ teologia che è suggerita dall’intensità dell’ispirazione di tutto il Miserere, che fa confluire molteplici tasselli della storia verso un punto culminante. Si avverte anche, però, che non è solo una quantificazione matematica, ma una qualità della Grazia che nasce dallo Spirito e che raccoglie, inserendo alla carne del Bambino, la realtà del passato, del presente e già prelude, come redenzione non parziale ma cosmica, a cieli nuovi e nuova terra. All’interno del contesto di questa ammirevole serie di incisioni, la Madre dell’Incarnazione custodisce il Figlio del suo grembo, lo tiene tra le braccia ma quasi porgendolo in offertorio. Nell’attimo stesso nel quale il Bambino mostra alla Madre il mondo, la Vergine china leggermente il capo: è Madre e discepola insieme e crescerà nella fede che ha avuto inizio nel giorno dell’Annunciazione. Che la terra di Palestina sia alla base della composizione rettangolare non significa che non abbia rilevanza e che solo il cielo che getta luce crei stupore, perché la densità dell’incontro tra le due linee curve del morbido paesaggio hanno una concentrata presenza fisica. Non è, quindi, questione di dimensioni l’importanza di alcuni elementi, ma l’organicità e l’unitarietà dell’intera composizione.

D’innanzi a quest’opera di Rouault si sperimenta una pietas non convenzionale ma, come sopra descritto, profondamente teologica. Nell’ambito di quella che noi chiamiamo, per facilità di comprensione, “arte sacra”, l’incisione del Miserere si distingue per originalità e per sincerità di accenti. Certo, ci troviamo di fronte ad una forma che ci libera da proposte edulcorate e di incerta fascinosità. L’incertezza, comunque, non nasce da possibili bellezze, perché l’effimero dozzinale non può mai assurgere alla categoria del bello, indipendentemente dai diversi e filosofici punti di osservazione estetici. Liberati dall’affanno del piacevole a tutti i costi, l’opera di Rouault si inserisce nell’area teologica delle parole dell’attuale Pontefice in riferimento al Natale, perché ogni rumore funzionalistico e consumistico ha da gioire di fronte all’oleografia proposta anche televisivamente come arte religiosa.  Questa è consumabile come ogni prodotto destinato al successo rassicurante. Rouault ci rasserena nel profondo e non nella superficie nella quale anche il Presepio è acquistato accanto al panettone.

Franco Patruno (Dall’Osservatore Romano 25 Dicembre 2005)