Skip to main content

Giorno: 28 Aprile 2017

ARTE
Benvenuti nella ‘zona notturna dell’essere umano’
Viaggio nel mondo surreale e visionario del ferrarese Stefano Bonazzi

«Sostenetemi, stroncatemi o, semplicemente, ignoratemi. Altro non potete fare»: così si presenta Stefano Bonazzi sulla sua pagina Facebook. Noi abbiamo scelto di non ignorarlo e gli abbiamo chiesto un’intervista. Cercando notizie sulla sua arte, all’indirizzo www.stefanobonazzi.it , incontriamo subito una ‘O’ barrata – simbolo di ‘divieto di accesso’ – sulla lettera finale di Stefano, primo indizio di una creatività che fa parte del suo quotidiano, ma che senza dubbio travalica l’ordinario. «Writer, digital manipulation artist»: due talenti riconosciuti in Italia e all’estero, dove Stefano Bonazzi, nato e cresciuto a Ferrara, si è fatto conoscere sia come scrittore, sia come artista della manipolazione digitale delle fotografie. Un’arte che richiede abilità e immaginazione, la capacità di trasformare scatti creando illusioni. Le sue immagini, di forte impatto emotivo, sono state scelte per raffinate copertine di cd musicali e libri.

The voyager
Wind
The white sky
The cemetery of umbrellas

La galleria delle sue opere è sorprendente. Ha saputo dare vita a un universo parallelo, con uno stile riconoscibile e originalissimo. Un mondo surreale, visionario, popolato di sogni inquietanti. Una landa desolata che riporta inequivocabilmente alla realtà. Sospesa tra gravità e leggerezza, in quella ‘Terra di mezzo’ che ciascuno necessariamente attraversa. Un’esile ballerina dalla maschera alata avanza sull’orlo di un precipizio (Serie ‘The White Sky’, XIX); esseri solitari e soli, smarriti, indossano maschere antigas e stringono orsetti di peluche; mongolfiere capovolte galleggiano in cieli apocalittici (‘The Last Day On Earth’). In ‘Lovers’, nella serie ‘Silent Places’, due amanti si tengono le mani, sullo sfondo di un campo di grano infinito; i loro volti sono gomitoli avviluppati in un intreccio di lana, fili tesi percorsi da due minuscoli funamboli in esile equilibrio. In ‘Wind’ la ‘realtà’ è sublimata in un’immagine incantevole: un rettangolo che intrappola il vento, emblema del divenire, del cambiamento che permea ogni ‘cosa’ e che rappresenta – paradossalmente – una stabilità, una ‘certezza’.

L’artista ritrae creature che sono «icone, rappresentazioni simboliche di uno status mutante al quale in fondo apparteniamo un po’ tutti o forse desidereremmo appartenere, ma che il nostro posto nella società ci impone di rinnegare, emarginare e circoscrivere come entità estranee da cui prendere le distanze». Personaggi dei quali coglie trasformazioni dolci e naturali, come la rotondità di una donna che si appresta a rinascere come madre, oppure metamorfosi inusitate, come il corpo femminile che svanisce in una dissolvenza di fumo (serie ‘Smoke’). È un mondo di seduzioni, di rivelazioni, di epifanie da esplorare senza fretta, sostando in ogni quadro per riflettere e interrogarsi. Immagini ove si affastellano non solo citazioni letterarie e artistiche, da ‘Alice nel paese delle meraviglie’ alle bombette e alle nuvole di Magritte, ma soprattutto interrogativi, ineludibili domande. Georgette Pavanati ha descritto così una poetica che rievoca in modo del tutto personale l’arte di Dalì e di De Chirico: «La serie di Stefano Bonazzi s’intitola Nonsense eppure di senso ce n’è eccome. Ogni immagine ha una cura maniacale, simile alla precisione di un chirurgo in sala operatoria, meticoloso. Pulito. Il suo bisturi è la penna grafica ed i punti di sutura sono la sua fantasia. Chiamarle fotografie sarebbe comunque sbagliato, lui stesso le definisce composizioni digitali perché in effetti sono assemblement di elementi eterogenei, decontestualizzati e poi riuniti con un nuovo significato, dando vita ad un mondo parallelo e oscuro che strizza l’occhio alla pittura metafisica di De Chirico, con i suoi manichini e le atmosfere sospese.In altre composizioni invece la linea si fa più tortuosa e la figura umana viene deformata, si liquefa come gli Orologi di un certo Dalì o si trasforma diventando parte integrante di un mondo surreale, ora è una lampada, ora è un divano».

I protagonisti delle immagini di Bonazzi sono donne e uomini bendati o mascherati, archetipi senza volto: «I miei personaggi sono impregnati di paura. Il continuo rapportarsi con altri individui li ha stremati, hanno perso ogni forma di fiducia scegliendo di schermarsi dietro un confine che garantisca loro protezione, al sicuro nel loro micromondo ovattato – scrive l’autore -. I miei personaggi preferiscono i tenui grigi ai colori abbaglianti e vivaci dell’odierno nulla. Grigio è staticità. Grigio è tranquillità. Grigio è la pacatezza di un limbo materno che riscalda e ripara nella sua nebulosa placenta. Singolari autoritratti giocati sull’ambiguità di una cattiveria feroce travestita da tristezza velata ma inesorabile. Oppure maschere che coprono volti in modi assolutamente sfacciati, rivelando un erotismo insolente al limite di un esasperato feticismo. Ma non tutto quel che appare al primo sguardo, è verità. La maschera è solo un pretesto. Può esserci oppure no. È un feticcio fittizio, presente anche quando non appare o si mostra sotto forma di altre geometrie arcane, decorazioni tribali o sigilli. È la ricerca spasmodica di un’identità altra, forse impossibile da trovare». E aggiunge: «Con le mie immagini digitali cerco di fotografare ed impressionare la parte notturna dell’essere umano». Nelle sue immagini così come nei suoi libri, Bonazzi racconta la paura. Sentimento da guardare, da affrontare: paura di cui non avere paura.

Mi ha colpito molto sia la sua arte sia come la descrive, con parole di grande suggestione: cosa significa per lei essere artista? Il suo viaggio da dove parte e dove la sta portando?
Prima di ogni cosa, diamoci del tu, ti prego, sennò mi fai sentire vecchio e le prossime immagini saranno ancora più cupe. Scherzi a parte, questa è una domanda seria che presupporrebbe un ragionamento ancor più serio, mentre io odio prendermi sul serio. Superati i trent’anni mi guardo alle spalle e vedo solo un intercalarsi di situazioni incoerenti: ho studiato pasticceria e lavorato come barman, ho comprato una reflex a rullino e poi scatto solo in digitale, ascolto musica dieci ore al giorno ma non riesco a prendere in mano un flauto… mi piace sperimentare e provare di tutto. Dove mi sta portando questo viaggio? Al momento non te lo so proprio dire, così come non so se definirmi artista, scrittore o semplice curioso. In quest’epoca, dove per essere “webstar” basta inventarsi un insulto divertente, dove i riflettori durano il tempo di uno starnuto, dove pseudo-intellettuali si pavoneggiano per un paio di post impegnati, io ti posso solo dire che ho iniziato per gioco, anzi per sfogo. Le prime serie erano assurde e molto gotiche, ora i cieli si stanno rischiarando anche se nessuno dei miei personaggi ha ancora imparato a ridere e forse mai ci riuscirà

Passo volentieri al ‘tu’: c’è un’opera alla quale sei più affezionato? Perché?
Sono affezionato allo scafandro in smoking nel campo di fiori (‘The Voyager – Part VI’) perché è stato uno dei primi che mi ha aiutato a uscire dal guscio e propormi in rete, anche se esteticamente la mia immagine preferita è ‘The White Sky XIII’. Mi piacciono i colori freddi e il contrasto tra lo sfondo tenue, il copricapo di piume, e non ti dico quanto tempo ho impiegato a scontornare e assemblare tutte quelle sfere…

Chi o quali circostanze della vita hanno incoraggiato (oppure ostacolato) la tua arte?
Ostacoli pochi. A parte qualche genio che ha provato a spacciare le immagini per sue, applicandoci sopra qualche filtro di Instagram e la chiusura di certi ambienti artistici che vedono ancora la digitalart come un passatempo per nerd brufolosi, per il resto mi sono sempre divertito in quello che ho fatto. Come accennavo sopra, ho iniziato a passare le notti con Photoshop per sfogare la mia incapacità di comunicare e certi disagi adolescenziali su cui siamo passati tutti, poi però questa attività mi ha portato a conoscere molte persone che mi hanno sostenuto e incitato a continuare, ecco, loro, il loro affetto, i loro consigli, sicuramente sono stati il miglior incoraggiamento che si possa ricevere

Quali soddisfazioni hai raccolto?
Vedere una tua immagine sullo sfondo di un cellulare, sulla copertina di un libro o stampata su un cd è sempre un brivido. Poi ci sono stati anche un paio di riconoscimenti importanti, come il TOCA_ME di Monaco o l’esposizione in California, le mail e i commenti di chi li vede esposti o sul sito. Di recente mi hanno menzionato anche sulla pagina ufficiale di Photoshop… dopo dodici anni che uso il loro programma, finalmente se ne sono accorti!

E veniamo alla scrittura: hai pubblicato un thriller con Newton Compton, ‘A bocca chiusa’, (2014) e numerose antologie in collaborazione con nomi autorevoli. Puoi raccontarci il tuo percorso artistico? Quando ha cominciato a scrivere?
Ho iniziato a scrivere “seriamente” cinque anni fa, ma la mia passione per la letteratura mi accompagna da molto tempo prima. Ho esordito come lettore a sette anni, quando mi cadde tra le mani ‘Cujo’ di Stephen King, in pratica la storia di un San Bernardo idrofobo che massacra la gente… la lettura perfetta per un ragazzino con le idee confuse. Da lì in avanti non mi sono mai fermato: mi piace leggere di tutto, dai classici ai best seller. Quando provo a metterci del mio, preferisco imbastire situazioni forti, in bilico tra l’horror, il thriller e il noir. Mi diverto a spaventarmi e spaventare

Dove hai trovato l’ispirazione di A bocca chiusa?
Avevo questa sorta di diario in testa. Delle confessioni di un ragazzo cresciuto in una periferia ostile ne abbiamo già letto in ogni salsa, ma la storia che avevo in mente io non si fermava alla gioventù difficile del protagonista. In quel periodo ero affascinato dalle sperimentazioni visive di Lynch e volevo quindi che anche la mia storia evolvesse e assumesse i tratti di un incubo delirante, in cui far collidere atmosfere fiabesche e contesti urbani, una sorta di MirrorMask (il film di Dave McKean) più spinto. Spero di esserci riuscito, almeno in parte

Quali sono i tuoi autori preferiti?
Tra gli americani, sicuramente Cormac McCarthy, Roth, Carver e King sono i primi nomi che mi vengono in mente. In questi anni di frequentazioni letterarie però ho avuto modo di conoscere dal vivo anche molti scrittori italiani, ho letto molti contemporanei, tra questi sicuramente mi hanno colpito le penne di Aldo Nove, Simona Vinci, Gianluca Morozzi, Giuseppe Merico, Mauro Covacich, Simona Baldelli. Giusto per citarne alcuni

A cosa serve l’arte? Perché scrivere? Perché creare?
Shaw diceva che «Si usa uno specchio per guardare il proprio viso e l’arte per guardare la propria anima». Forse è quello che sto cercando di fare anch’io. Per me l’arte è stata inizialmente una forma di ricerca catartica: passare le ore ad assemblare immagini o frasi mi distraeva, ma al tempo stesso mi permetteva di sondare i miei limiti. Ho il Mac pieno di “paciughi”, racconti e bozzetti assurdi, incompleti e deliranti che non usciranno mai da questo schermo, ma che fanno comunque parte di me, della mia ricerca. Ricerca di cosa? Ancora non lo so. È un percorso. Adesso non voglio spararti qualche frase filosofica d’impatto solo per fare il figo, però all’inizio creare mi è stato d’aiuto. Ero una persona asociale, chiusa, paranoica… esporre ti costringe a esporti, inizialmente la cosa mi spaventava ma poi è diventato stimolante, divertente, formativo. Probabilmente oggi mi sto solo divertendo, magari un giorno cancellerò tutto e mi dedicherò al calcio… con Trump sul trampolino di lancio, in questi giorni non conviene prendersi troppo sul serio

Quali sono i progetti in cantiere? C’è un ‘sogno nel cassetto’?
Il sogno più grande è pubblicare un libro privo di refusi, perché da questo punto di vista sono un disastro. Ho una manciata di nuove storie in lavorazione, scrivo poco, ma quel poco che riesco a concludere vorrei che prendesse forma su carta nel modo migliore. Sto lavorando anche a una nuova serie di immagini. Questa volta le ambientazioni saranno bandite: si tratterà di una serie focalizzata su mezzi busti dai volti coperti con intagli di tessuti e scansioni. Immagini più pulite, patinate, minimali… chi ha adorato la mia versione più pop-surrealista (mi riferisco alla serie ‘Silent Places’) potrebbe storcere il naso, ma uno dei pochi pregi del non essere famosi e non lavorare su commissione è proprio la libertà di sperimentazione.

INSOLITE NOTE
Cinquant’anni di Dik Dik. E il sogno continua…

50 anni di canzoni sono un record che pochi artisti possono vantare, tra questi i Dik Dik, la band del primo beat italiano che si affacciò nel panorama italiano con “Sognando la California”, cover di “California Dreamin’” dei The Mamas & the Papas. Il testo della canzone, firmato da Mogol, non si discosta molto dalla versione originale, mantenendo il desiderio del caldo californiano in contrasto con il cielo grigio e l’incombere dell’autunno. La facciata B di quel 45 giri era “Dolce di giorno”, uno degli evergreen del gruppo milanese firmato da Lucio Battisti e dallo stesso Mogol. Sono numerose le cover di brani statunitensi ambientati in California, tra questi “Inno”, versione italiana di “Let’s go to San Francisco” dei The Flower Pot Men, incisa dai Dik Dik nel 1967.
Lallo, Pepe e Pietruccio, i Dik Dik di oggi, provengono da quella via Stendhal di Milano fulcro di uno straordinario movimento artistico spontaneo che ci ha regalato Cochi Ponzoni, Aldo Reggiani, Ricky Gianco, Moni Ovadia.
Le origini del gruppo sono ricordate nel libretto allegato al CD: “La storia iniziò quando un giovane produttore che gestiva una cantante reduce da un festival di Sanremo, Miriam del Mare, ci contattò per accompagnarla durante le sue esibizioni. Essendo la band incompleta ci vennero presentati due musicisti che si unirono al gruppo: Mario Totaro (tastiere) e Sergio Panno (batteria). Erano nati ‘Gli Squali‘. La cosa durò poco ma nel frattempo si era consolidata una buona intesa fra tutti noi. Il Beat imperversava anche in Italia così anche le nostre aspirazioni di realizzare un disco. Noi, alcune sere con il benestare del vice parroco della chiesa del Rosario avevamo a disposizione una sala in cui poter provare. Iniziammo così a presentarci alle varie case discografiche allora presenti in Italia. Finalmente una di queste, la Ricordi, ci dimostrò interesse proponendoci un accordo. Un piccolo aneddoto sulla scelta del nome Dik Dik riguarda il fatto che la nostra casa discografica non apprezzando quello precedente ci suggerì di cambiarlo e noi con un colpo di fortuna, sfogliando un vocabolario, ci imbattemmo in ‘Dik Dik’ che è quello di una piccola antilope africana e decidemmo di adottarlo. Uscirono così i nostri primi 45 giri che riscontrarono immediatamente grandi consensi e contribuirono a far aumentare la nostra popolarità tra addetti ai lavori e pubblico”.
Nel 1966 i Dik Dik incisero il primo 45 giri, si trattava della versione italiana di una canzone inglese dal titolo “1-2-3”, sul retro un brano composto da Lucio Battisti: “Se rimani con me”.

I Dik Dik nel 1975

“50 anni… il sogno continua” festeggia il mezzo secolo della band, non si tratta di una celebrazione o di una compilation di vecchi successi, ma di un’originale produzione di Mauro D’Angelo con due CD molto diversi l’uno dall’altro, il primo contiene le nuove registrazioni di otto classici a cui si aggiungono gli inediti “Punto Su di Te” e “Sulla nuvola”. Il secondo è un tributo con undici brani storici dei Dik Dik, liberamente eseguiti da altri artisti, tra i quali: Francesco Zampaglione, Lombroso, Ridillo, I video (pregevole la loro suite), Neomenia, The Gift, Johnson Righeira e Giorgio Li Calzi.
Il primo disco si apre con il ritmo cadenzato di “Punto su di te” che rivela la mano di Mario Lavezzi e, grazie all’organo Hammond, per qualche istante si ritorna all’epoca beat che li vide protagonisti. “Sulla nuvola”, di Danilo Amerio, Alfia Bevilaqua e Olga Kazelko, è il primo singolo estratto dall’album, una canzone più che mai attuale, ispirata a una frase del filosofo-poeta libanese Kahlil Gibran: “Se ti sedessi su una nuvola non vedresti la linea di confine tra una nazione e l’altra, né la linea di divisione tra una fattoria e l’altra. Peccato che tu non possa sedere su una nuvola”. Tra i classici “risuonati” non manca “L’isola di White”, che ha dato il nome anche alla trattoria che Pietruccio, Lallo e Pepe hanno a Buccinasco, nella campagna nei pressi di Milano. Gli altri hit sono: “Viaggio di un poeta”, “Senza luce”, “Io mi fermo qui” e quelli della ditta Battisti-Mogol.
L’album dei tributi contiene “Help me”, reinventato da Elio e le storie tese, con l’immancabile ironia che ha sempre contraddistinto questo gruppo, culminata nel grido d’aiuto dell’astronauta McKenzie e soprattutto nella telefonata finale. Da sempre le Custodie cautelari si sono cimentate nelle cover, i componenti di questo storico supergruppo, composto da elementi di altre band, ha ben eseguito “Il primo giorno di primavera”. Pregevole il contributo di Federica Camba, interprete di “Storie di periferia”, autrice di brani per Valerio Scanu, Alessandra Amoroso, Laura Pausini, Emma, Nek, Gianni Morandi, Umberto Tozzi e tanti altri artisti italiani. Ai Sulutumana è affidata “Viaggio di un poeta” che il gruppo valassinese re-interpreta in modo corale e acustico, donandole un inedito carattere popolare.
I Dik Dik sono tornati e, come dicono loro, pieni di voglia e pronti alla battaglia, spinti in questo dal motto di E. Levy: “Il passato è un ricordo, il futuro un mistero, il presente un dono”.

Dik Dik – Sulla nuvola (Video Ufficiale)

  • 1
  • 2