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Giorno: 6 Novembre 2017

Inno ai vinti con la Rassegna della canzone d’autore a Ferrara

A me piaceva Tricarico. Dopo un’adolescenza scandita dalla voce vissuta di Vasco Rossi e dal suo inno alla vita spericolata, attorno al 2008 ho scoperto uno che canta: “Io… voglio una vita tranquilla/ perché è da quando sono nato/ che sono spericolato/ Io… voglio una vita serena/ perché è da quando sono nato… che è/ disperata… spericolata…”. Dopo quel brano, ho iniziato ad ascoltare anche altre cose sue, come la rivalsa di “Io sono Francesco” con il racconto di lui davanti al suo quaderno di scuola elementare a dover scrivere un tema sul papà che ha perso a tre anni e di cui non ricorda nulla. Lì dentro c’è un’altra memoria di un autore delle nostre colonne sonore del cuore, il Francesco De Gregori che nel 1989 cantava “Bambini venite parvulos” e che Tricarico – vent’anni dopo e vent’anni in meno – rievoca cantando “brilla brilla la scintilla brilla in fondo al mare/ venite bambini venite bambine e non lasciatela annegare/ prendetele la mano e portatela via lontano/ e datele i baci e datele carezze e datele tutte le energie”.

Tricarico alla sala Estense di Ferrara, 4 novembre 2017 (foto Luca Pasqualini)

Tricarico poi è andato un po’ in ombra. È tornato in luce in questo mese di novembre 2017 grazie al cartellone della ‘Rassegna della storica e della nuova canzone d’autore’, manifestazione organizzata per il sesto anno dall’associazione Aspettando Godot. Due serate a Ferrara con cantautori che hanno scandito un’epoca e che a volte si sono appannati come i ricordi degli anni che passano. Per questo, sabato sera ero lì, in una Sala Estense affollata davanti alla piazza ferrarese del Municipio, intima come un salotto all’aperto sotto le sue luci soffuse.

Marco Iacampo a Ferrara, 4 novembre 2017 (foto Luca Pasqualini)

Prima dell’ironico e struggente Tricarico ha cantato il bravo Marco Iacampo e, dopo, Eugenio Bennato, che è il fratello dell’Edoardo che ha spopolato con ‘Sono solo canzonette’ e ‘Il gatto e la volpe’. Eugenio Bennato comunque nelle orecchie ce l’abbiamo bene: sua è la sigla della trasmissione ‘Linea Blu’ della Rai, quel ritmatissimo “Che il Mediterraneo sia” [clicca per ascoltarla] che ti trasporta al Sud con una miscela di ritmi dominati dalla taranta ma con incursioni di flamenco e melodie arabeggianti.

Sonia, Mohammed ed Eugenio Bennato, Ferrara, 4 novembre 2017 (foto Luca Pasqualini)

A Ferrara, Bennato, ha portato una band strepitosa che – anche senza esserci andati apposta – non può che travolgere con il suo recupero delle radici sonore che diventano un inno al sud del mondo, inno ai perdenti, alla vita che lotta, alla miseria che incombe, al disastro esistenziale riscattato solo dal calore di un’umanità multietnica e unita e da una sonorità fatta di contaminazioni contagiose.

Mohammed Ezzaime (foto Luca Pasqualini)

Ecco allora sul palco, oltre a un grandioso Eugenio Bennato, il sorprendente Mohammed Ezzaime El Alaoui (voce e viola) che viene da Casablanca in Marocco, la suadente e mediterranea Sonia Totaro (voce e danza pizzica e tarantina), Ezio Lambiase alle chitarre, il trentenne calabrese Stefano Mujura alla chitarra e al basso, la tonalità profonda e possente di una giovane anglo-napoletana Francesca Del Duca (voce e percussioni) che mettono insieme una strepitosa “musica di terza classe di chi parte contadino e arriverà terrone” [clicca per ascoltare “Grande Sud”].

Sonia Totaro in sala Estense a Ferrara (foto Luca Pasqualini)

Fuori sullo scalone del Municipio, dopo che il concerto è finito, un gruppo di ventenni con la chitarra intonava impeccabilmente De Andrè ed Eugenio Bennato, le canzoni dei vinti di ieri nelle mani e nelle voci dei ragazzi di oggi, probabilmente studenti universitari. Un trionfo toccante dello struggimento di un’umanità viaggiante, che attraversa il tempo, lo spazio e le anime nostre. E che iniziative come queste aiutano a tenere insieme.

Pubblico alla Rassegna della canzone d’autore (foto Luca Pasqualini)
Tricarico col chitarrista (foto Luca Pasqualini)
Mujura a Ferrara (foto Luca Pasqualini)
Francesca Del Duca (foto Luca Pasqualini)
Sonia, Mohammed e Bennato (foto Luca Pasqualini)
La band di Bennato (foto Luca Pasqualini)

[clicca sulle immagini del foto-reportage di Luca Pasqualini per ingrandirle]

Clicca qui per vedere video del concerto di Iacampo, Tricarico e band di Eugenio Bennato postato su Fb dall’associazione Aspettando Godot.

I concerti della “6a Rassegna della storica e nuova canzone d’autore” sono stati organizzati dall’associazione culturale ligure Aspettando Godot e hanno il patrocinio di Comune di Ferrara, Regione Emilia-Romagna e Ministero dei beni e delle attività culturali.

 

DIARIO IN PUBBLICO
Le parole, la scrittura, i fatti

Attendevo nell’ambulatorio del medico il mio turno. Entra una signora accompagnata dalla figlia e sento una conversazione in dialetto che mi riporta al tempo dell’infanzia: “Dutor, a iera andada a far i fatt e a i’ ho santì un dulor, ma un dulor a la schina ca son rimasta sanza fià”. Questa era la frase, che riporto nella mia improbabilissima trascrizione. Fare i fatti, ossia sbrigare le faccende. Ma un interrogativo complesso mi assale: cosa sono le faccende? Cose da farsi, quelle che in casa vanno sbrigate? E da lì una serie inquietante di derivazioni: ‘faccendiere’ dall’ormai consueto significato socio-politico, o il suo contrario ‘sfaccendato’. Sicuramente uno dei verbi principali della nostra lingua, ‘fare’, che si coniuga in una infinità di derivazioni lessicali e sintattiche, ma che nell’ormai antico ‘fare i fatti’ dimostra quanto siano mutati la società e i suoi bisogni. Ormai i fatti, quelli di casa, non li svolge quasi più nessuno sostituiti come sono dalle macchine, dalle badanti, dalle ‘donne di servizio’ che s’adeguano malvolentieri – e giustamente – a ‘fare i fatti’. Certamente, la nipote che accompagnava l’anziana (senti chi parla!) signora non si sarebbe espressa così. Fare i fatti rimane dunque un segno del passato.

Ma se dovessimo analizzare i fatti altrui quante belle novità ci attendono. Il duello tra i giganti (!) della politica – Di Maio contro Renzi – i commenti del governatore De Luca, non quello vero che, come sanno tutti, è quello che siede nel salotto di ‘Fratelli di Crozza’, ma quello finto che risiede in Campania. L’attività dei giudici che debbono vagliare la posizione di Berlusconi, o le reazioni del maschio Salvini che sbarca al Sud, decidendo con lo sguardo umido di rimpianto di eradicare dalla Lega la parola Nord. Tutto un rincorrersi di cene, cenette, pranzetti, mentre l’avvertito Matteo da Rignano sbarca in Usa a incontrare il suo amico Barack. Che fatti!!
Frattanto nello studio della soave Gruber, sempre attenta al look, si alternano come nell’episodio di ‘Alice nel paese delle meraviglie’ i sorrisi dello Stregatto che fioriscono e lentamente si dissolvono con impressionante lentezza sui volti di Vittorio Feltri, che tuttavia riserva una inquietante somiglianza con Za la Mort, e su quello incommensurabilmente ironico di Marco Travaglio, che sembra ammonirci che solo lui è e sarà sempre detentore delle verità nascoste.

Fatti dunque non parole come ci avvertiva la politica fino a ieri, per cui rivedere oggi ‘Palombella rossa’ di Nanni Moretti, che urla senza essere ascoltato che il rispetto delle parole significa un’altra vita, ci conferma che a forza di pensare ai fatti e di fare i fatti si perde il senso e l’uso della parola soprattutto quella scritta.
Ben lo sa un grande scrittore e critico, Hans Tuzzi, che si firma anche Adriano Bon che nella presentazione dei suoi due ultimi romanzi gialli pone questo interrogativo fondamentale: che differenza c’è tra la definizione di un colore/ tema con il senso e la consapevolezza del romanzo che è altro dalla Vita eppure che dalla vita trova la necessità di esistere come Arte? Tuzzi sostiene che il dire in forma di romanzo deriva dalla sacralità delle parole legate alla rivelazione degli dèi e che già in Omero tutto è stato detto. E per prima cosa spiega cos’è una ‘coincidenza’. Scrive e afferma: “E’ difficile trasporre nel romanzo il romanzesco della realtà senza ricorrere alla formula del romanzo-verità. Paradossalmente l’Arte non consente le comode coincidenze della Vita: queste non possono essere usate nel ‘verosimile’ letterario se non si vuole essere accusati di soluzioni ‘facili’” (Hans Tuzzi, ‘Come scrivere un romanzo giallo o di altro colore’, Bollati Boringhieri, 2017, p.31).
La Vita dunque propone soluzioni o coincidenze che l’Arte non può accettare salvo per farle diventare a sua volta struttura del romanzo. Nel suo bellissimo ‘Al vento dell’Oceano’ (Bollati Boringhieri , 2017) un apolide montenegrino, l’investigatore Neron Vurkcic, indaga su un triplice omicidio avvenuto su un grande transatlantico nel 1926 e per illustrare come la Vita possa diventare struttura di Romanzo, propone in una coincidenza ferrarese due esempi. Nella cassaforte del primo assassinato sono custoditi una favolosa collana di perle nere e due importanti volumi antichi. Non dimentichiamo che Tuzzi/ Bon è uno dei più importanti studiosi di bibliofilia nel mondo e che ha collaborato, chiamato da Umberto Eco a Bologna, a insegnare quella materia. Questa coincidenza tra verità del libro e indizio dell’assassinio si punta su un volume ‘realmente’ esistito: “Questo vale ancor meno”, spiegò Alice, “però ha l’impresa di Renata d’Angiò, figlia di re Luigi XII di Francia e duchessa di Ferrara: Di real sangue nata. In Christo sol Renata” (p.108).
La Vita al servizio dell’Arte.
O ancor più raffinata la citazione del pane di Ferrara per cui la nostra città tuttora va famosa. I satrapi della prima classe amano molto mangiare e la cucina del transatlantico è favolosamente fornita: “I camerieri entrarono spingendo pesanti carrelli sontuosi di formaggi e carni. Servirono pane di ogni forma e tipo, pane in cassetta, baguettes francesi e pane integrale tedesco, pane bianco londinese e bretzel, pane arabo e friabili giochi rococò che risultarono essere pane ferrarese” (p.131).
Le parole della Vita dunque possono e debbono essere usate per l’Arte cambiandone tuttavia senso e destino. Così il tempo e le ore trovano un finale straordinario che definitivamente trasportano tempo e situazioni dalla realtà esistenziale a quella divina da cui per Tuzzi e non solo per lui la parola deriva dagli dèi:
“E alto sopra le nuvole, altro vento doveva passare, il vento cui nulla appartiene e che non appartiene a nessuno, mentre per lui, gravida di promesse, un’alba nuova sorgeva, segreta e strana, a Occidente” (p.160).

In ‘La belva nel labirinto’ (Bollati Boringhieri, 2017) le indagini dell’ispettore Melis, che ha dato fama ai gialli di Hans Tuzzi, portano a mettere in luce quanto sia sempre presente il problema del male che l’uomo fa all’uomo. Un tema fondamentale nella narrativa di Tuzzi, ma ancor più presente si rileva l’elemento politico. In tal modo, la vita prestando coincidenze permette di ‘narrare’ i delitti seriali più famosi d’Italia e al di là di trame nere e servizi deviati, vengono a galla distorte connivenze morali che fanno del nostro il Paese che è.
Perciò può concludere lo scrittore: “insomma, un giallo sì, ma anche e forse ancor più un romanzo che nel libro di teoria sembra parlare più di lettura”.
In fondo come leggere per poi scrivere. Il destino del romanzo: usare i fatti per trasformarli in parole. Un libro che è romanzo quando, come spiega l’autore, non si vogliano scrivere ‘libroidi’ in cui i fatti rimangono tali, ma libri.

Che dio bassista

Mi avevano avvertito per anni e alla fine, a 31 anni, ho capito che è vero: mi sa che il basso è davvero lo strumento più bello del mondo.
Avevo già suonato uno di quei cosi quand’ero nel mio primo gruppo, circa dieci anni fa.
All’epoca io e il mio socio non avevamo un vero bassista e quindi ci dovevamo alternare noi in quel ruolo.
A volte mi divertivo anche, ma se ripenso a quel periodo capisco che non avevo capito davvero il basso.
Forse non era il momento giusto, di sicuro ero ancora troppo chitarrista – con tutti i lati negativi della cosa – o forse ero insieme alle persone sbagliate, boh.
L’anno scorso però, mi hanno sbolognato un basso e non so perché ma finalmente ho iniziato a capire.
Forse tutti quei miei ascolti ossessivi di McCartney si sono trasformati in una macumba, forse è stata colpa dell’ascesa al cielo di Lemmy ma dentro di me si è mosso qualcosa e da quel momento mi sono trasformato.
Da un po’ di tempo poi due miei amici mi avevano proposto di buttarmi in questa cosa semplice semplice: aggiungere il basso a qualche pezzo in sala prove.
Non tornavo all’interazione in tempo reale fra chitarra, basso e batteria (cit.) da un bel po’ di anni e alla fine, qualche settimana fa, ecco che arriva l’epifania.
Da quel momento ho iniziato a sentirmi dieci anni di meno e a contare i giorni che mancano al giorno delle prove.
Mi sento un po’ scemo ma va bene così.
In fondo, come disse un bassista celebre: una volta al basso ci mettevi l’amico scemo o cose del genere.
Direi che quel bassista celebre ha ragione da vendere per vari motivi.
In primis: mi sono sempre sentito molto a mio agio nei panni dell’amico scemo.
In secondis: è vero, lo stereotipo del basso come “chitarra con due corde in meno” persiste dal 1951.
Ma a me non interessa proprio, io so che con quel pezzo di legno in mano avrò sempre “qualità costante nel tempo” e soprattutto: una testa nuova, una testa diversa.
Mi sento stupido come sempre ma è tutta un’altra cosa perché adesso mi sembra di sentirmi stupido in un modo che sembra avere una propria vaga idea di nobiltà.
E coi tempi che corrono non è poco.
E’ proprio come mi diceva chi mi aveva avvertito, te ne stai lì, in piedi con le tue due corde in meno e fai bum bum bum con al collo quel trabiccolo, la tua postazione è completamente invasa da vibrazioni che ti fanno tremare i piedi e in sostanza è una delle esperienze più psichedeliche che ti possano capitare.
Sotto sotto poi sai che tu, l’amico scemo con due corde di meno, agirai sulle sottigliezze, su cose che magari non si notano immediatamente ma che a un ascolto più attento e/o approfondito, ti si conficcheranno nel cervello a un livello a volte anche solo subliminale.
E in un certo senso questa è una cosa che ho sempre saputo perché se penso alla musica che mi piace non mi viene in mente niente che abbia una trascuratezza o un’approssimazione su quello strumento.
In poche parole: se non mi piace il bassista non mi piace il gruppo.
Persino i Doors, il gruppo senza basso per eccellenza e blah blah blah, dedicavano un’attenzione puntigliosa e particolare a quelle frequenze, sia in studio che dal vivo.
E’ una cosa paradossale, il più celebre gruppo senza basso ha scritto alcune delle parti di basso più belle della storia.
Roba scritta da un intelligentone come Ray Manzarek, il tastierista, che dal vivo la suonava con una mano sola ma in studio, faceva suonare a bassisti intelligentoni quanto lui, tipo il bassista di Elvis.
Gente che su un pezzo come “Riders on the storm” cadeva dal pero perché quelle parti, suonate su una tastiera basso erano una cosa ma suonate su una “chitarra con due corde in meno” diventavano complicatissime.
Ma in fondo forse è davvero questa la bellezza di questo strumento apparentemente scemo suonato da amici scemi: quel coso ti obbliga a capire quando “è il momento” e quando “non è il momento” per certe cose.
Qualche strizzacervelli potrebbe forse dire che prendere in mano un basso, coi tempi che corrono, è un atto politico.
E forse, per una volta, potrei dar ragione a uno strizzacervelli perché è vero: scegliere di dedicare il proprio tempo alle sottigliezze, alle sfumature, al ponderare, allo stare al proprio posto, di questi tempi è davvero un atto politico.
Così, alla luce di questi dieci anni di meno che mi sento sul groppone, penso che forse, paradossalmente, ho solo imboccato la strada della saggezza dopo quella dell’eccesso, illudendomi di essere “younger than yesterday” quando in realtà forse, sono sempre più preda di quella vecchiaia precoce che mi accompagna da sempre ma con in più, finalmente, tanta saggezza e gusto senza latte e senza cacao.
E allora via con uno di quei tanti pezzi che fanno giustizia alla “chitarra con due corde in meno” preso proprio da “Younger than yesterday” e scritto, vedi te, da colui che nei Byrds fu “l’amico scemo” e per come la vedo io, uno dei musicisti più intelligenti nella storia del basso e non solo.

Thoughts and words (The Byrds, 1967)

L’arte… bellezza eterna e incomprensibile!

di Federica Mammina

Si dice, delle grandi opere d’arte, che siano eterne e che abbiano la capacità di comunicare il proprio messaggio senza tempo a tutti gli uomini. Ma in un periodo storico in cui siamo sempre più abituati a vedere il nostro patrimonio artistico svilito piuttosto che valorizzato, può persino capitare che il significato di una magnifica scultura venga scioccamene sminuito. La statua, che ritrae il bacio appassionato di Paolo e Francesca, è stata valutata, più di cent’anni dopo, troppo esplicita. E si può arrivare al paradosso per cui, in un mondo tempestato di messaggi dal contenuto sessuale più o meno manifesto, un colosso di nome Facebook si rifiuti di pubblicizzare una mostra dell’autore, Rodin, perché l’opera in questione, che campeggia sulla locandina, venga considerata “un’immagine che mostra eccessivamente il corpo o presenta contenuti allusivi”, suggerendo piuttosto di “utilizzare contenuti che si concentrano sul prodotto o servizio, evitando allusioni di natura sessuale”.
E così si resta basiti di fronte ad un nonsenso tanto evidente da non sapere se ridere o piangere.

“Ogni grande opera d’arte ha due facce, una per il proprio tempo e una per il futuro, per l’eternità”
Daniel Barenboim

Una quotidiana pillola di saggezza o una perla di ironia per iniziare bene la settimana…

Dalla Cambogia, la spazzatura fashion…

di Federica Mammina

Le luci, i colori, gli abiti da sogno e le modelle algide e perfette, una gara a colpi di stranezze per stupire o di eleganza estrema per incantare. È il mondo della moda. Ed è corretto definirlo come tale per la sua varietà e ricchezza di aspetti, settori e persone. È un mondo che, concentrato sull’esteriorità e l’apparenza, spesso fa parlare di sé per aspetti molto negativi che lo caratterizzano, come la magrezza delle modelle o la poca eticità con cui il lavoro viene svolto.
Ma in un mondo così vasto per fortuna c’è spazio per tutti, e nella moda c’è anche altro: la capacità di lavorare nel rispetto delle persone, l’attenzione allo sviluppo di nuove tecnologie e materiali, la salvaguardia dell’ambiente e tanta creatività. E quando questi ultimi due aspetti si coniugano possono nascere progetti davvero audaci. Come quello di alcuni studenti di un college in Cambogia che, con lo scopo di ridurre sprechi e inquinamento, realizzano abiti meravigliosi solo con la spazzatura. Bottiglie, tappi, cd e qualsiasi altro materiale possa essere riutilizzato è ciò che compone le loro creazioni. Un esempio è l’abito tipico nazionale che hanno realizzato per Miss Mondo Cambogia 2017.
Si potrebbe definire “trash fashion”: apparentemente un ossimoro, ma che hanno dimostrato come possa diventare realtà. E il loro messaggio è tanto semplice quanto dirompente: la moda può educare le persone.

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