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Giorno: 19 Marzo 2018

Cicloaperitivo Hera potabilizzazione

Da ufficio stampa Fiab Ferrara

Giornata Mondiale dell’Acqua
Visita alla centrale
di potabilizzazione di Hera

Sabato 24 marzo, visiteremo la centrale di potabilizzazione di Pontelagoscuro. La visita è realizzata in occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua, l’edizione di quest’anno rivolge l’attenzione sull’uso di soluzioni naturali per ridurre inondazioni, siccità, inquinamento delle acque.

Una tranquilla pedalata ci porterà alla Centrale di Hera in via Dolcetti 68 a Pontelagoscuro alla scoperta dell’impianto di potabilizzazione che fornisce acqua potabile a Ferrara e ai territori dell’Alto ferrarese.
Il percorso di visita parte dalla captazione delle acque dal fiume Po per proseguire poi nel cuore dell’impianto dove l’acqua viene trattata fino a eliminare le impurità residue.

Ritrovo ore 9.00:
Piazza Duomo
Partenza per Pontelagoscuro ore 9:15

Per info Massimo 348 8645028; ma48miglio@gmail.com

Informazioni e cose da sapere

Fiab è un’associazione ambientalista, non un’agenzia turistica: i capogita sono volontari non retribuiti che propongono escursioni in un territorio che li ha affascinati. Per la buona riuscita delle gite serve la collaborazione di tutti i partecipanti e la disponibilità a affrontare qualsiasi imprevisto con buonsenso e buonumore.

Ordine e Disordine nella Città Contemporanea

Da ufficio stampa EVENTI FERRARA

Mercoledì 21 marzo alle 17.30

Presso la storica sala dell’Oratorio San Crispino

Libreria Ibs+Libraccio di Ferrara

Per il ciclo ” Percorsi nella Città e nell’Architettura”

Fracesco Indovinapresenta il libro

“Ordine e Disordine nella Città Contemporanea”

Intervengono Romeo Farinella e Marco Cenacchi

Perché le città, nonostante l’impegno profuso per dare loro un ordine, anche se di volta in volta codificato in modo differente, finiscono sempre per essere “disordinate”?
Da questa semplice domanda un albero problematico si offre agli occhi del lettore. Innanzitutto ci si interroga su cosa sia ordine e disordine in generale, e più in dettaglio su cosa si intenda per ordine urbano. Non soddisfa il riferimento a un ordine fisico: le città certo sono fatte di pietre, cemento, ferro, ecc., ma esistono solo in relazione alla presenza di uomini e donne.
Quando si parla di ordine urbano in realtà si intende un insieme fisico, sociale, culturale ed economico. Ma, come se non bastasse, le città “cambiano”, cioè hanno un loro dinamismo. indovina.jpgA questo punto si potrebbe sostenere che sarebbe molto improbabile che questo insieme di uomini e donne, di desideri e progetti, di invenzioni e storia, di culture non omogenee, di attività economiche in continua trasformazione, di saperi che si arricchiscono o che si impoveriscono, riuscisse a mantenere un ordine. Il disordine, in realtà, risulta elemento vitale per la città.
Ma la città può essere abbandonata al disordine? Certo che no! Il disordine va combattuto, sapendo che esso si ripresenterà, e che nel combatterlo la città può migliorare, soprattutto se si sono riconosciuti gli interessi che si avvantaggiano dell’ordine e quelli che si avvantaggiano del disordine. Gli strumenti di cui si dispone sono quelli della pianificazione, dei suoi metodi, dei suoi strumenti e delle sue realizzazioni.
Questa esplorazione viene fatta prima (Il principio d’ordine) analizzando quanto hanno scritto e teorizzato pianificatori e studiosi del territorio intorno all’ordine urbano; nella seconda parte (Il disordine) si pone attenzione a quali sono i meccanismi concreti che determinano situazioni di disordine; nella terza parte (L’azione) si riflette, infine, su come contrastare il disordine e con quali esiti.

Francesco Indovina, già professore di Analisi del territorio presso l’Università IUAV di Venezia, insegna Pianificazione urbanistica e territoriale al Dipartimento di Architettura, Urbanistica e Design dell’Università di Sassari con sede ad Alghero. È stato direttore della rivista Archivio di studi urbani e regionali, edita da FrancoAngeli.

I prossimi incontri della rassegna

Mercoledì 28 marzo

Salvatore Settis, Architettura e Democrazia, Einaudi

Mercoledì 11 aprile

Antonio Borgogni e Andrea Farinella, Le Città Attive. Percorsi pubblici nel corpo urbano, Franco Angeli

Per informazioni Ibs+Libraccio

Ferrara, Piazza Trento e Trieste, Palazzo San Crispino

eventife@libraccio.it – Tel. 0532241604

Proiezione del 22 marzo, Ferrara Film Festival

Da organizzatori

IL PADRE DI MIA FIGLIA
Un film di CarloAlberto Biazzi
REMOR FILM
FERRARA FILM FESTIVAL 2018 – 22 MARZO, ORE 20
CINEPARK APOLLO

“Eravamo giovani, quanti anni sono passati?”

Una storia toccante quella del cortometraggio scritto da CarloAlberto Biazzi e Sergio Pierattini (“Piuma”, “Che strano chiamarsi Federico”, “I delitti del Barlume”) che proietta i tre protagonisti in una lunga notte senza tempo, dove passato e presente si mischiano per rovinare per sempre le loro esistenze. Ed è proprio questa la caratteristica del film di CarloAlberto Biazzi: raccontare una società malsana attraverso una storia forte, ma raccontata in maniera delicata.
Il protagonista assoluto, Giulio Scarpati (“Un medico in famiglia”, “Il giudice ragazzino”, “Mario, Maria e Mario”), veste i panni del fidanzato più grande di Alessia Mancarella (“Benvenuti a tavola”, “Amori elementari”). Una storia non capita dalla madre Antonella Attili (“Nuovo cinema paradiso”, “La cena di Natale”, “I peggiori”), che cerca di imporsi quando la figlia lo invita a cena per presentarglielo. Durante la cena, la donna troverà nell’uomo vecchie somiglianze per arrivare al colpo di scena finale, drammatico.
Il tutto fotografato da Luciano Tovoli (“Suspiria”, “Professione Reporter”, “La cena dei cretini”), uno dei più grandi direttori della fotografia nostrani, amato e considerato anche all’estero.

IL REGISTA: CarloAlberto Biazzi nasce a Cremona e si laurea in Lettere e Filosofia con la specializzazione in Scienze e Tecnologie delle Arti e dello Spettacolo, indirizzo regia, all’università di Brescia. Segue, poi, il corso “Write for the movies” a Londra sulla scrittura cinematografica e due master di sceneggiatura al Centro Sperimentale di Cinematografia. Nel 2010 gira il suo primo lungometraggio indipendente “Il viaggio di Simone”, che vince un premio speciale come miglior sceneggiatura. Nel 2012 è il momento del fantasy “Al di là del mondo”, un film metaforico sui giovani che hanno ancora voglia di sognare, e nello stesso anno gira il cortometraggio “L’attesa”.
Il 2013 è l’anno dell’horror “Il bosco dei sorrisi erranti”, un corto che vince il “Pistoia Film Festival” ed è in concorso a “CortoCinema”, mentre il 2014 è la volta de “Ricordi di un partigiano”, un cortometraggio d’epoca realizzato grazie al contributo della Film Commission Lombardia e di alcune personalità importanti del panorama cinematografico.
Nel 2016 scrive e dirige il cortometraggio “Il padre di mia figlia”, con Giulio Scarpati e fotografia di Luciano Tovoli che viene presentato al Festival di Cannes e ad altri festival internazionali.
A novembre 2014 esce in libreria il suo primo romanzo “L’ultima luna di febbraio”, edito da Edizioni del Rosone.
A giugno 2017 è disponibile in tutte le librerie il suo secondo libro, un giallo intitolato “La stella a quattro punte” di Novecento Editore, Milano.

Il film verrà proiettato giovedì 22 marzo, ore 20, presso il CINEPARK APOLLO, all’interno del FERRARA FILM FESTIVAL 2018.
Saranno presenti alla serata il regista CarloAlberto Biazzi e l’attrice Antonella Attili.

Ultimo Tè Letterario in biblioteca.

Da ufficio stampa Comune di Comacchio

Sta volgendo al termine la rassegna dei “Tè Letterari” in biblioteca, che quest’anno ha riservato grande attenzione agli autori locali. Il prossimo e penultimo appuntamento si terrà giovedì 22 marzo alle ore 17, nella sala della biblioteca civica “L.A. Muratori”, dove Cristiano Cavina, autore tra i più noti del panorama italiano, dialogherà con Gianluca Coppola, vicario dell’Istituto Comprensivo di Porto Garibaldi. Cavina presenterà il suo ultimo romanzo “Fratelli nella notte”, ambientato sull’Appennino Romagnolo, negli anni cruciali della Resistenza, durante i quali è cominciato il riscatto dell’Italia dall’occupazione nazi-fascista.

Emilia Romagna, 1944. Mario e Giovanni sono fratelli. Hanno quindici anni di differenza e quasi nulla in comune. A malapena si salutano, quando si incontrano nei campi. Giovanni ha sposato Cristina, fascista orgogliosa, hanno da poco avuto un bambino. Mario ha vissuto con i genitori fino a quando due uomini in divisa gli hanno consegnato una lettera. Il ragazzo ha diciotto anni e non vuole partire per la guerra. Si rifugia prima da alcuni parenti, che abitano lontano, ma l’arruolamento forzato non si dimentica di lui. Si unisce dunque a un gruppo di quelli che stanno sulle montagne e parlano di comunismo: Mario non capisce niente di quello che dicono, lui è abituato a parlare in dialetto o al massimo a grugnire, come gli animali dei quali ama prendersi cura. In più è basso, non sa imbracciare un’arma, tant’è che gli vengono affidati i medesimi compiti di fatica cui era abituato nella vita di prima. È così piccolo e agile che i compagni gli affibbiano il nome di battaglia di Tarzan. Un giorno, tuttavia, anche a Mario-Tarzan tocca fare la guerra: in poche ore molti dei suoi sono morti, e lui è gravemente ferito. È proprio in quelle ore tra la vita e la morte, nei brevi momenti di lucidità, implora che suo fratello maggiore lo venga a salvare…

Cristiano Cavina ci regala la storia di suo nonno Giovanni, detto Gianì, e di suo prozio Mario. Una storia che per molto tempo ha sentito negli aneddoti di famiglia, ma senza che gli sia stata mai raccontata in modo compiuto. Una storia che Cavina ha deciso di mettere insieme attraverso i suoi frammentati ricordi di bambino, i racconti ascoltati decine di volte, e l’immaginazione di uno scrittore, che rielabora a modo suo un periodo significativo della storia italiana. La guerra e la Resistenza da una parte, il mondo contadino della Romagna dall’altra.

Come sempre, l’appuntamento con il tè letterario è libero e gratuito. Durante l’incontro con l’autore sarà servito gratuitamente il tè, offerto dall’Amministrazione Comunale.

consumismo-educazione

Desideri infiniti in una realtà finita: il rebus per un futuro di felicità

di don Roberto Rondanina*

Può essere banale osservare che nel mondo ci sono sofferenze, ingiustizie, violenze e morte. La cosa non stupisce perché sempre è stato così. Potrebbe essere diversamente? Anche al di là del problema della morte e della sofferenza legata a malattie o cataclismi, potrebbe già esserci una coscienza di umanità e di felicità maggiore di quello attuale? (anche se ovviamente non si danno misurazioni della felicità).
Una umanità afflitta dai bisogni vitali concernenti la quotidiana lotta per la sopravvivenza, difficilmente, riesce a porsi il problema di come essere felici e di come dare senso alla propria esistenza. L’urgenza della quotidiana lotta per la vita tende a orientare, infatti, il desiderio verso la soddisfazione di quei bisogni (per esempio mangiare) da cui dipende la vita e i cui oggetti si impongono con forza a chi si trova in una condizione di bisogno. Chi ha fame cerca cibo, chi ha freddo cerca di riscaldarsi… Una volta soddisfatti i bisogni primari si affaccia alla coscienza umana, con maggiore urgenza, il problema del senso del proprio esistere presente in chi deve lottare quotidianamente per sopravvivere, in maniera, per lo più invece, meno consapevole ed evidente.

La civiltà europea è stata la prima civiltà che, a partire dall’ epoca moderna, grazie soprattutto alla rivoluzione industriale, ha permesso a sempre più larghi strati di popolazione di superare un livello e una qualità di vita legati alla semplice sopravvivenza. Di conseguenza, si è trovata per prima, probabilmente senza esserne sufficientemente preparata, a dovere dare come umanità europea e occidentale un senso al proprio esistere, anche al di là di quel significato che all’esistenza deriva spontaneamente e implicitamente dalla lotta quotidiana per la vita. E questo è avvenuto proprio nel momento in cui, con la Modernità, le istituzioni tradizionalmente deputate a fornire orizzonti di senso all’essere umano (religioni, chiese…) perdevano il monopolio della formazione delle coscienze. Il sorgere delle ideologie, dalla Rivoluzione Francese in poi, ha costituito, per larghi strati di popolazione, una nuova possibilità di dare significato comune e condiviso all’esistenza; significato, spesso, vissuto come alternativo rispetto alle tradizionali proposte di senso delle diverse Chiese Cristiane.
Il crollo delle ideologie e delle speranze a esse legate ha in epoca recente, per così dire, privatizzato la speranza in un contesto, quello del cosiddetto periodo post-moderno, caratterizzato dalla ricerca individuale o a piccoli gruppi di esperienze di benessere e di senso sostanzialmente scettiche riguardo alla possibilità di cambiare in meglio le condizioni generali dell’umanità. Ciò che, soprattutto a partire dagli anni Ottanta del Novecento, si sta verificando con la cosiddetta globalizzazione, nonostante alcune forme di reazione religiosa radicale e le ricorrenti crisi economiche, è l’imporsi di un unico modello di società consumistica che, per quanto deludente, è sempre nuovamente seducente con le sue continue proposte di prodotti di qualsiasi genere nell’ambito del mercato globale. Prodotti a getto continuo che sembrano costituire il surrogato più attraente di quel nuovo autentico che stenta a nascere e che costituisce, pur sempre l’inconfessato profondo desiderio dell’essere umano.

Un momento della storia culturale dell’Occidente particolarmente significativo per comprendere la crisi (krisis, scelta) attuale, mi sembra essere l’epoca romantica. Dal punto di vista del cammino della coscienza occidentale, il Romanticismo ha rappresentato, a mio avviso, l’espressione e la legittimazione, soprattutto in ambito artistico, del desiderio umano riconosciuto nella sua inesausta tensione infinita (Streben). La conquistata legittimazione del desiderio come tensione infinita alla pienezza umana e alla felicità ha però avuto come esito, soprattutto in ambito artistico (per esempio Holderlin, Schumann, Leopardi …), l’impossibilità di una conciliazione con una realtà percepita come troppo distante e, sostanzialmente, in opposizione al proprio desiderio. Da qui la crisi, più o meno consapevole, di un desiderio finalmente legittimato sul piano della coscienza, ma disperatamente contraddetto dalla realtà. Crisi che ha avuto anche non pochi esiti di squilibrio psichico in alcuni personaggi di spicco della cultura romantica e post-romantica. Le diverse forme di ideologie, nate più o meno, nello stesso periodo, ma giunte al massimo sviluppo nel corso del Novecento (nazionalismi di vario tipo, da una parte, e varie forme di socialismo e comunismo, dall’altra) hanno anche rappresentato la possibilità di offrire una soluzione nuova alla crisi nata con la conquistata piena legittimazione del desiderio avvenuta in epoca romantica. Soluzione capace di coinvolgere e galvanizzare intere generazioni, soprattutto di giovani, attorno alla speranza di costruire un futuro all’altezza del proprio desiderio. Un futuro immaginato, da sinistra, come la nascita di una società in cui, superato il travaglio della storia, regnasse finalmente una vera giustizia; da destra, nelle diverse forme di fascismi, immaginato come l’apparire di un mondo in cui, rinnegate alcune delle conquiste più importanti della modernità, avvenisse un ritorno a non ben precisate forme di società pre-moderne debitamente idealizzate. La sconfitta, con la seconda guerra mondiale, delle ideologie e dei totalitarismi radicali di destra, e successivamente, nella seconda metà del Novecento, il crollo del blocco comunista nell’Est Europa, ha favorito l’imporsi di un unico modello di società: quello capitalistico-consumistico.

Rispetto alla retorica delle ideologie di destra e di sinistra, l’ideologia dell’attuale capitalismo di impronta neo-liberista non sembra capace e, di fatto, non intende generare speranza di un futuro di felicità da conquistare attraverso un impegno storico-politico. Sembra, al contrario, presentare l’ideale di quello che Nietzsche in ‘Così parlò Zarathustra’ ha profeticamente chiamato l’ultimo uomo. Un uomo non più disponibile a lottare per nessun ideale che non sia il solo egoistico benessere individuale di stampo edonistico: “Una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte, salvo restando la salute”. Da questo punto di vista, il fenomeno della cosiddetta globalizzazione con la sua tendenza all’omologazione degli stili di vita e, nonostante le periodiche crisi economiche, con la sua forte caratterizzazione consumistica, non sembra costituire soltanto il prodotto di strategie di potere e di scelte di politica economica, ma appare anche come l’espressione dell’attuale coscienza dell’umanità occidentale ancora, inconsapevolmente, ferma nel luogo critico inaugurato, con la legittimazione della tensione infinita del desiderio, dalla cultura romantica. Una volta intuita ed espressa, soprattutto in ambito artistico, la dimensione infinita del desiderio di pienezza umana e di felicità, non solo non si è riusciti a realizzare, ma nemmeno a immaginare, un mondo che vi possa corrispondere. D’altra parte, l’urgenza di eliminare quelle forme di ingiustizia sociale che maggiormente contraddicono il desiderio umano di felicità se per un verso ha consentito di migliorare, in alcune zone del mondo, la qualità della vita umana, ha peraltro illuso di poter risolvere su di un piano strettamente politico il problema della convivenza e della felicità umana. In assenza di soluzioni alla crisi apertasi in epoca romantica con la intuizione e legittimazione della dimensione infinita del desiderio, l’attuale fenomeno del consumismo globalizzato, sembra rappresentare una forma di regressione, per certi aspetti inevitabile, a una forma sofisticata di vita animale in cui la tensione infinita del desiderio viene orientata, senza mai fine, verso sempre nuovi prodotti da consumare legati più ai bisogni e alle pulsioni elementari dell’essere umano che alle espressioni più alte della persona. In aggiunta a questo, i nuovi orizzonti aperti dall’informatica tendono a ricondurre l’esercizio e la comprensione del desiderio umano verso forme di soddisfazione immediata ( fare zapping con la vita ) che, ancora una volta, sembrano nascondere il rischio di una regressione verso forme di vita umana-animale.

Se, come a me sembra, è stato proprio il Romanticismo a inaugurare, sul piano culturale, quello smarrimento della coscienza occidentale di fronte alla rivelazione della dimensione infinita del desiderio e alla sua eccedenza rispetto alla realtà (consapevolezza resa possibile dal superamento, in ampi strati della popolazione, di una qualità di vita umana legata alla lotta per la semplice sopravvivenza ), sarà, forse, proprio il tentativo di collocarsi, con nuova consapevolezza, nel luogo da cui si è originata quella crisi della coscienza europea a consentirci di scoprire strade alternative rispetto a quelle percorse dalla storia occidentale di Ottocento e Novecento con le diverse, ma in fondo profondamente legate, ideologie e ai loro diversi ‘-ismi’ (fascismo, comunismo, neo – liberismo, consumismo… ). E’ mia convinzione che le risposte fallimentari o, parzialmente tali, che i vari ‘-ismi’ hanno dato e continuano a dare al problema centrale della cultura e della società moderna e post-moderna, quello della sproporzione tra infinità del desiderio e realtà, derivi, sostanzialmente, dal fraintendimento e dalla mancanza di comprensione della enorme portata di quel problema e delle sue ricadute in ogni ambito del vivere umano. Da una nuova comprensione di quella crisi occorre, dunque, ripartire per scoprire strade nuove e nuove risposte, personali e comunitarie, che consentano di cogliere in quella crisi una preziosa opportunità di crescita o, forse meglio, di salto nella coscienza dell’umanità.

*Sacerdote, filosofo e teologo. Responsabile dell’associazione I Ricostruttori nella Preghiera

La guerra sporca di Duterte

di Federica Mammina

Il mondo è disseminato di guerre e conflitti di ogni tipo: ci sono le guerre religiose, quelle contro certe etnie, per impossessarsi di materie prime preziose e le guerre fra poveri.
Anche nel lontano paese delle Filippine, dal 2016, se ne sta combattendo una: la “guerra contro la droga”. Un nome ingannatore che potrebbe far pensare ad una giusta lotta contro i signori della droga, con lo scopo di salvare le persone da questa terribile dipendenza e dallo sfruttamento di delinquenti senza scrupoli. L’obiettivo di sradicare il commercio e il consumo di droghe illegali è quello che ha proclamato il presidente Duterte nel maggio 2016 non appena eletto, ma che di fatto si è tradotto in una guerra indiscriminata contro spacciatori, consumatori di droga e persone innocenti. Una guerra condotta con mezzi illegali, senza processi e con esecuzioni sommarie. La stessa polizia, cui il presidente ha garantito piena immunità, ammette di aver ucciso migliaia di persone (alcune fonti parlano di almeno 7000 vittime), ed in molti casi è stato dimostrato che il ricorso all’uso della forza non fosse affatto necessario.
Il substrato di questa guerra è la profonda stortura del voler colpire, al pari dei narcotrafficanti, anche i tossicodipendenti, che Duterte ha paragonato, in uno dei suoi tanti deliranti discorsi, agli ebrei, esprimendo il desiderio di sterminarli tutti proprio come fece Hitler.
Ma se dal passato abbiamo veramente imparato qualcosa, quante migliaia di persone devono morire prima di intervenire e porre fine a questo sterminio? Dobbiamo sempre aspettare di guardarci indietro per indignarci di tali aberrazioni?

Una legge contro l’emarginazione

di Federica Mammina

Per persone che hanno fatto del bene e che si sono spese per gli altri, per il riconoscimento dei loro diritti, senza secondari egoistici fini, è forse meglio ricordare la data di nascita. E così, qualche giorno fa, l’11 marzo, ricorreva la nascita dello psichiatra Franco Basaglia. Famoso per le sue idee innovative e controcorrente sulla psichiatria e in particolare sul trattamento dei malati mentali, e per questo fortemente osteggiate, è passato alla storia nel nostro Paese per la legge 180 del 1978 che ha portato alla chiusura dei manicomi. Solo quarant’anni fa infatti le persone affette da malattie mentali venivano isolate dalla società e dagli affetti per essere trattate con metodi che oggi nessuno esiterebbe a considerare contrari ai più basilari diritti e lesivi della dignità umana. Una legge intoccabile nell’intento di chiudere un’istituzione vergognosa come quella del manicomio, ma che necessiterebbe di un adeguamento ai nuovi studi e approcci al tema.
Molto si è fatto in tanti anni, ma quanto ancora ci sarebbe da fare? In una società che ci vuole sempre più aderenti a irraggiungibili modelli dove la deviazione non trova spazio, sono anche queste le emarginazioni cui dovremmo continuare a rivolgere le nostre attenzioni inclusive.

“La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere, perché fa diventare razionale l’irrazionale.”
Franco Basaglia

Una quotidiana pillola di saggezza o una perla di ironia per iniziare bene la settimana…

Un fulmine a ciel sereno

Come un fulmine a ciel sereno, la notizia arrivò improvvisa, inaspettata.
«Non è giusto» fu l’unica cosa che riuscii a dire.
Andai alla finestra e guardai fuori: il sole era appena tramontato e in cielo dominava un bel rosso porpora. Le pozzanghere che la pioggia del pomeriggio aveva sparso sulla strada sembravano piene di sangue.
Nella mia testa la pioggia continuava a cadere e sotto la pioggia vedevo il viso di Chiara che mi sorrideva. «Dai vieni anche tu Carlo, questa è una serata da cinema. Sennò cosa vuoi fare con sto tempo?» mi diceva. Io però dovevo passare da Marco a fare la scaletta dei dischi per la serata di domenica, così al cinema ci andarono Chiara, Rita, Ale, Davide e Roberta.
Guardavo il cielo finalmente sereno, ma la pioggia non smetteva e mi bruciava gli occhi. Le lacrime erano gocce incandescenti che rigavano le guance di rosso, lo stesso rosso del cielo e di quelle pozzanghere, mentre rabbia e dolore mi scottavano la faccia. Era la prima volta che sentivo quel male addosso, non l’avevo mai provato prima. Ma ero giustificato, dopotutto avevo quindici anni.
Era stato Davide a dirmelo. Era passato nel tardo pomeriggio davanti a casa mia e si era fermato. Cinque secondi. Tre parole e il tempo di elaborarle.
«Chiara è morta!» aveva detto, la voce tremava e a stento tratteneva il pianto.
Non l’avevo mai visto così. Ma era la prima volta per tutti.
Fino ad allora non avevamo mai fatto i conti con la morte, con la perdita di una persona cara.
Eravamo solo dei ragazzini, i più vecchi di noi avevano appena sedici anni. La morte non l’avevamo ancora messa in conto.

Chiara si era sentita male la sera prima al cinema. Davide aveva detto che stava ridendo di gusto per una scenetta comica, che di punto in bianco s’era fatta seria, che poi aveva perso i sensi senza fare in tempo a dire una parola. All’inizio tutti avevano creduto a uno scherzo, poi capirono che non lo era e corsero fuori dalla sala a chiamare aiuto. Chiara respirava ma non reagiva a niente e quando arrivò l’ambulanza Davide e gli altri intuirono che la cosa era molto seria.
Chiara non si svegliò più e in tarda mattinata, dopo una notte trascorsa in rianimazione, ne venne dichiarata la morte cerebrale.
La rottura di un dannato aneurisma nella testa aveva provocato un’emorragia risultata poi fatale. Fu così che la sua vita si spense per sempre.

Chiara, occhi azzurri come cielo sereno del mattino, capelli biondi come campi di grano maturo, pelle chiara come latte alla fragola. Sempre Chiara, con le sue lentiggini e il suo eterno sorriso disarmante, non l’avrei mai più rivista.

«Non è giusto» ripetevo, mentre Davide si copriva il viso affranto.
E fu così che quella domenica d’autunno, per la prima volta, io e i miei amici ci scoprimmo mortali. Capimmo d’essere in balìa di qualcosa di incontrollabile e troppo più grande di noi, persino più grande della nostra voglia di vivere e di sfidare il mondo giorno dopo giorno. Per la prima volta comprendemmo il senso della perdita e che quell’idea d’invincibilità che ci aveva confortato fin dall’infanzia era soltanto un’ingenua illusione.
Fu una severa lezione che imparammo e che poi dimenticammo quasi subito.

E adesso, dopo tutti gli anni trascorsi, mi chiedo se tra noi si sia salvato qualcuno.
In verità nessuno. Perché ora siamo tutti diventati qualcos’altro, tutti resi irriconoscibili dallo scorrere della vita. Tutti eccetto Chiara, solo lei è rimasta la stessa. La sua morte prematura le ha risparmiato il lento e inesorabile declino della vita, lasciandola giovane per sempre.
Magra consolazione?

Mentre scrivo queste righe rivedo Chiara, sento la sua voce di eterna quattordicenne, amica di una volta… Ora e per sempre.

Summer Lightning (Camel, 1978)

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