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Giorno: 6 Ottobre 2018

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Marco Morosini: “Stiamo andando verso una Chernobyl diffusa senza rendercene conto”

Ecco di seguito le dieci tesi di Marco Morosini, scienziato ambientale italiano e docente del Politecnico federale di Zurigo/Eth, sul Pd.

1. Il digitale è struttura: è il core, l’ideologia unica del partito.
2. Il partito è elitario, perché possono votare solo gli users.
3. Il partito è tecnofatalista: sarà la tecnologia a rendere necessario e inevitabile che il popolo si governi da solo.
4. Si arriverà a una concentrazione di potere come mai è esistita nella storia.
5. Il potere non è nei soldati ma nei dati.
6. La rete rende possibile la manipolazione dei dati.
7. Il partito è autocratico.
8. Quello della rete non è un potere liberatorio ma un martello per martellare.
9. Il partito è maschio, come si era già capito da tutto quanto detto fin qui.
10. Il digitale è il nuovo atomico.

Ma cosa avevate capito? Il Pd cui si riferisce Morosini non è certo il partito democratico di Renzi&co., ma il partito digitale come si è venuto a strutturare nella realtà italiana: il Movimento 5 stelle. E lui ne sa qualcosa dato che, per sua stessa ammissione, può essere considerato l’alter ego politico di Beppe Grillo: per 26 anni “io ho tentato di insegnare a lui la serietà e la pesantezza, mentre lui cercava di insegnarmi la leggerezza”. Se il partito digitale, o meglio la sua versione italiana, “è un auto con il motore ecologista di sinistra e la carrozzeria e il volante di destra, populista”, Morosini si assume la paternità solo del motore, dell’occasione di “avviare per la prima volta in un paese del G7 una transizione ecologica e sociale”. Non certo “del cavallo di Troia per dare un colpo all’Europa dall’interno”. “Dove le devo inchiodare secondo voi le mie dieci tesi?”, scherza Morosini con il pubblico.

Lo scienziato e giornalista parla all’incontro di Internazionale ‘Il digitalismo politico’, che sabato pomeriggio nonostante la pioggia ha riempito più di un’aula del dipartimento di economia e management di Unife, tante erano le persone in fila in via Voltapaletto. Insieme a lui c’è un altro esperto del Movimento 5 stelle: il giornalista de La Stampa Jacopo Iacoboni, autore di ‘L’esperimento’ (Laterza), nel quale le origini del partito digitale italiano vengono rintracciate in un esperimento di ingegneria sociale iniziato da Casaleggio padre molti anni prima di diventare una realtà, pubblica, votabile, addirittura in lizza per il governo del Paese.

A detta di Morosini, Casaleggio e Grillo in realtà non hanno inventato nulla di nuovo: il digitalismo politico è nato nella Silicon Valley, “quando i valori libertari della cultura hippie californiana si sono intrecciati con gli yuppie dell’industria hi-tech, che avevano avuto successo ed erano usciti dai loro garage”.
Tornando alle sue tesi: il partito è elitario, perché possono votare solo gli users, considerando che “solo in Italia abbiamo il 47% di analfabetismo digitale, torniamo indietro di almeno cent’anni”; “il potere non è nei soldati ma nei dati, o meglio nei big data”; “il partito è autocratico, ci sono pochi colonelli e tutti sono informatici, nessuno è stato eletto”.
La sua profezia, non molto ottimista, è che “ci dobbiamo preoccupare di quello che ancora ci aspetta”: “Il digitale è il nuovo atomico stiamo andando verso una Chernobyl diffusa e nessuno se ne sta accorgendo”, “il digitale sta cambiando sì la specie, ma in peggio”.

Da sinistra Marco Morosini e Jacopo Iacoboni

Iacoponi, dal canto suo, è meno oracolare e più materiale, ma certo non meno pessimista, tanto da esordire con la notizia che “Tim Berners Lee, inventore del world wide web, sta mettendo in piedi una nuova start-up perché secondo lui bisogna rifare Internet da capo”.
Secondo lui la grande intuizione di Casaleggio è “aver applicato alla politica il detto che se qualcosa è gratis è perché la merce sei tu”. Dato che “il partito è gemmato direttamente dall’azienda Casaleggio e dalla piattaforma Rousseau”, ci sono infatti molte domande riguardo l’utilizzo dei dati e la profilazione e la targetizzazione degli utenti alle quali non è mai stata data risposta. E poi c’è un problema di conflitto di interessi 3.0: “a quale titolo per statuto tutti i parlamentari eletti devono versare 300 euro al mese alla piattaforma Rousseau, che è un’associazione privata? Come vengono usati questi fondi”. Insomma il Movimento sarebbe “un animale pericoloso perché è concepito come strumento neutro, come strumento di costruzione del consenso, che può essere indirizzato verso diversi obiettivi”, non a caso ultimamente ha virato molto a destra, perché “si regola con gli strumenti del web marketing, i sondaggi e i social media, e quindi va dove va il consenso”. Eppure, sottolinea Iacoponi, “non cadete nell’equivoco di considerarlo una cosa effimera e cialtrona”: ci sono le personalità di facciata “selezionati per recitare ruoli, dal belloccio Dibba al moderato di Maio, mentre Fico è quello più a sinistra”, ma dietro ci sono quelli che furono “i collaboratori di Casaleggio, molto intelligenti e competenti, se dovessi costruire un partito mi rivolgerei proprio a loro”.

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
Il valore sociale dell’arte

Dai futuristi, al Neorealismo di Vancini e Antonioni, fino ai fumetti di Gipi e Zero Calcare, lo sguardo degli artisti è sempre stato fondamentale per interpretare e raccontare la realtà attraverso uno sguardo che unisce etica ed estetica; in particolare a partire dal Secolo Breve, quando le masse e la cultura pop hanno fatto prepotentemente il loro ingresso nell’orizzonte di chi lavora nel campo dell’arte. In più con la rivoluzione digitale il lavoro dell’artista è radicalmente mutato e si è ampliata la gamma dei pubblici, dei linguaggi, dei soggetti, dei materiali con cui lavorare, tanto che si parla sempre più di creatività e mestieri creativi in senso lato.
La domanda però è sempre la stessa: può l’arte dare una mano per cambiare il mondo? L’artista come può essere agente di un cambiamento sociale attraverso il proprio lavoro? Come, in una società sopraffatta e anestetizzata dall’abbondanza delle immagini, si può trovare uno sguardo artistico efficace per risvegliare e, perché no, provocare il pubblico?

Come ritrovare il valore sociale dell’arte e trasmettere attraverso di essa i valori di legalità, giustizia sociale, solidarietà, raccontando e interpretando il mondo che ci circonda è stato il punto di partenza della call europea ‘Artists@Work’, progetto promosso da Fondazione Unipolis, Atelier Varan, Cinemovel Foundation, Libera Associazioni, nomi, numeri contro le mafie, Udruzenje Tuzlanska Amica e cofinanziato dal Programma Europa Creativa dell’Ue.
Una call europea con tre paesi partner – Italia, Francia e Bosnia ed Erzegovina – e tre linguaggi, cinema, fotografia e fumetto, per un progetto formativo a metà fra passato e presente: se da una parte l’obiettivo è stato la multidisciplinarietà e la crossmedialità, sempre più necessari nel contesto artistico contemporaneo, dall’altra il metodo di insegnamento “è stato l’imparare facendo tipico delle botteghe rinascimentali”, come ha spiegato Roberta Franceschinelli di Fondazione Unipolis.
Dalla corruzione alla violenza di genere, dal degrado urbano alle politiche di rigenerazione, criminalità organizzata, immigrazione, tratta degli esseri umani, politiche di integrazione e interculturalità, sono solo alcuni dei contenuti delle 64 opere realizzate da 85 giovani artisti con l’aiuto di sei maestri di bottega, due per ciascuna arte. Tre di loro, oltre ad alcuni dei loro allievi, erano presenti come ospiti all’ incontro ‘Arte di valore’ sabato mattina alla Sala Estense nell’ambito di Internazionale a Ferrara 2018.
Renaud Personnaz, direttore della fotografia e maestro di bottega insieme al regista Bruno Oliviero per venti giovani filmmakers, ha spiegato che il lavoro è stato sulla dinamica io/noi: “abbiamo dato loro la possibilità di esprimere il proprio sguardo singolare, ma al plurale perché i film sono stati realizzati da gruppi di due o tre ragazzi”. “Quello che ne è venuto fuori è uno sguardo molto acuto sul mondo di oggi” e “un vero atto politico” perché la creazione di un’opera d’arte collettiva “nel mondo che viviamo oggi in fondo è un atto necessario, ma anche ribelle”.
L’approccio collaborativo e partecipativo, il sentirsi coinvolti in un progetto comunitario, nel racconto di una storia comune, anche quando si parte da posizioni lontane od opposte, è anche quello del fotografo Patrick Willocq: quando lavora alla realizzazione di uno scatto o di una serie di immagini “ognuno si deve rispettato nella propria posizione in una piattaforma creativa neutra”, in questo modo anche chi guarda “si può ritrovare in un’opinione espressa nell’immagine”.
Per Pietro Scarnera, maestro di bottega per il mondo del fumetto e dell’illustrazione – che ha esordito nel 2009 con il graphic novel ‘Diario di un addio’, sulla sua esperienza personale di figlio di un genitore in stato vegetativo, e nel 2014 ha pubblicato ‘Una stella tranquilla – Ritratto sentimentale di Primo Levi’ – il bello dei fumetti è “la possibilità della delicatezza”. I fumettisti non raccontano la realtà aggredendo il lettore, piuttosto “circondandolo con tutta una serie di emozioni”; ma “affrontare temi così complicati con l’illustrazione è possibile solo essendo profondamente onesti con sé stessi, raccontando qualcosa che sta veramente a cuore usando un punto di vista personale”.

Le opere di ‘Artists@Work’ sono in esposizione in anteprima assoluta a ‘Just/Art’ fino a domenica 7 ottobre nei locali di Factory Grisù in viale Cavour.
Clicca sulle immagini per ingrandirle

Tutte le info su ‘Artists@Work’ sono disponibili al sito www.artists-work.eu

INTERNAZIONALE A FERRARA 2018
I briganti si uccidono, i mafiosi si usano

Sono parole molto dure quelle pronunciate da Enzo Ciconte, studioso, scrittore e docente, autore del monumentale volume ‘La grande mattanza: Storia della guerra al brigantaggio’, edito da Laterza. Intervistato da Giuseppe Rizzo sabato 6 ottobre alla Biblioteca Ariostea, lo storico controcorrente ha approfittato del Festival di Internazionale per porre le basi di una questione imponente che non si potrà ignorare ancora per molto.
Il fenomeno del brigantaggio sembra una semplice querelle storiografica, poco più di una curiosità intellettualistica, in ogni caso ormai superata. Ma nonostante il banditismo identificabile come brigantaggio risalga almeno al Rinascimento, e non sia solamente ascrivibile alle vicende risorgimentali, in realtà molti nodi che ha intrecciato nella sua lunga esistenza sono riscontrabili e ben visibili ancora oggi, se non addirittura fin troppo presenti e troppo potenti.
Il lavoro di Ciconte, a cavallo tra inchiesta giornalistica e storiografia, ricostruisce una sorta di controstoria, perché molto spesso di quegli anni si è parlato poco e a volte anche male. “Non erano comuni criminali, né militanti politici pronti a difendere il proprio governo e la propria patria: il brigantaggio vero, infatti, era un fenomeno sociale, legato alla terra occupata dagli invasori, chiunque essi fossero”. I francesi a inizio Ottocento, i Borbone dopo il Congresso di Vienna, la borghesia a metà secolo, i piemontesi durante il Risorgimento: il bisogno della povera gente è stato sempre quello di sfamarsi, tanto è vero che solo nell’entroterra e lungo i fiumi il fenomeno veniva registrato, mentre sulle coste, dove non c’erano problemi legati a possedimenti terrieri, mai nulla.

Ciò che si visse nel diciannovesimo secolo era “una vera e propria lotta di classe”, tra contadini da una parte e proprietari invasori dall’altra, con in mezzo la borghesia che reclamava un proprio posto nella società, possibilmente in alternativa alla vecchia aristocrazia, che invece le classi povere rispettavano, in quanto secolare e riconosciuta. Né tantomeno il brigantaggio fu una manifestazione soltanto italiana; la nostra peculiarità, rispetto al resto del continente, fu semmai “la tarda unificazione”, che di conseguenza fece slittare in avanti il problema e la sua soluzione. I libri di scuola ci indicano come termine il 1870, ma la questione è più complicata. Difatti, dopo innumerevoli tentativi di risolvere la difficoltà con il terrore e le armi, fu “solamente con la legge di riforma agraria del 1950” che si riuscì infine a eliminare il gravoso problema. La sconfitta fu efficace perché avvenne sul piano politico: in pratica, venne data finalmente la terra ai contadini. Fino ad allora, tuttavia, quanta violenza fu utilizzata per contrastare il brigantaggio. E non si trattava di settentrionali contro meridionali, poiché la borghesia del regno siciliano era complice. “L’esercito scendeva in campo solo contro i briganti, però. L’altra faccia della medaglia, le organizzazioni criminali quali la mafia, la camorra e la ‘ndrangheta, venivano lasciate tranquille, dato che proteggevano le proprietà terriere e venivano usate dal potere in caso di bisogno. Ne paghiamo ancora oggi le conseguenze”.
Non erano eroi romantici o criminali feroci, ma uomini derubati in cerca di lavoro per non patire la fame. Furono vittime di contesti sociali difficili e precari. Da noi non può che scaturire rispetto e desiderio di verità per un passato ancora presente.

Cirfood al festival di Internazionale: cento milioni di pasti l’anno e un riguardo per la fame di cultura

Giuliano Gallini, anche quest’anno avete organizzato come CIRFOOD un momento di ricerca e dibattito al festival della rivista Internazionale. Al di là del tema e dello specifico dell’iniziativa, la vostra partecipazione rappresenta un profondo legame di CIRFOOD con Ferrara?
Sì. CIRFOOD ha una costola fondante ferrarese. Oggi è una azienda internazionale con più di 13.000 dipendenti, ma trentacinque anni fa era una piccola cooperativa di poche decine di cuochi e addetti mensa che si chiamava COFERI e che ha contribuito, con le cooperative gemelle di Modena e Reggio Emilia a fondare nel 1991 CIRFOOD.

Con un legame forte, in senso generale, alla cultura, e in particolare alla cultura ferrarese.
Oggi nella carta dei valori di CIRFOOD si legge che cibo è cultura. Ricordo una nostra iniziativa di, appunto, più di trenta anni fa, che consisteva nell’invitare i nostri clienti a una visita in orari esclusivi e guidata a una mostra al Palazzo dei diamanti. Dovetti vincere qualche resistenza: a chi vuoi che interessi dei nostri clienti una visita a una mostra d’arte! Invece vennero tutti gli invitati, e si dimostrarono entusiasti della esperienza. Qualcuno non era mai stato a una mostra.

Ma che cosa c’entra con il cibo con il vostro lavoro?
Quella mostra apparentemente proprio nulla. Ma offrivo ai miei clienti una esperienza nuova e legata al mondo ferrarese, alla grande intuizione di Franco Farina, alla bellezza di una città d’arte.

Apparentemente?
Apparentemente perché il discorso sul cibo ha tali implicazioni psicologiche, storiche, sociali, identitarie che è impossibile vendere bene cibo se non le si conosce. Naturalmente bisogna saper far bene da mangiare, ma questo è il minimo sindacale.

E CIRFOOD fa bene da mangiare?
Sì. Soprattutto se si tiene conto del fatto che i 100 milioni di pasti all’anno prodotti e serviti da CIRFOOD, tra cui i 3 milioni che serviamo in provincia di Ferrara, sono mediamente venduti a poco più di 5 euro. Primo secondo contorno pane. E’ il nostro un pasto d’inclusione.

Pasto d’inclusione reddito di inclusione. Cibo di cittadinanza, che era il tema del vostro intervento a Internazionale Ferrara dell’anno scorso. Prefigurate i tempi.
Le imprese devono avvertire i cambiamenti sociali. Non per accodarsi al politico vincente: ma per accordarsi ai bisogni, per essere insieme alla Storia. Oggi c’è una crisi culturale della globalizzazione. Nel 1989 cadde il muro di Berlino, ci fu il Washington Consensus e, come ti ho detto, le piccole cooperative emiliane di ristorazione, compresa la ferrarese COFERI, (i cui gruppi dirigenti avevano gli strumenti culturali per capire il cambio di passo della Storia perché venivano dalla grande tradizione di pensiero sociale del dopoguerra italiano) ne trassero le conseguenze, si unificarono e diedero vita a una politica di sviluppo globale e non più locale. Globale allora per noi voleva dire Italia: ma non solo. Dopo cinque anni eravamo già all’estero, con una fiorente attività in Bulgaria; e nel 2000 io ero per conto dell’azienda in Cina, a progettare un ristorante nella centrale via Dong Dang. Oggi il ciclo della globalizzazione dell’89 si è concluso e per non rischiare un nuovo Ballo Excelsior anche le imprese devono essere capaci di interpretare ciò che sta succedendo cambiando le proprie politiche imprenditoriali, il rapporto con la forza lavoro, il modo di produrre e di comunicare.

Il Ballo Excelsior fu uno spettacolo teatrale che dalla fine dell’ottocento fino all’inizio della prima guerra mondiale celebrava i trionfi della scienza e del progresso. L’elettricità e la lampadina, il battello a vapore, il canale di Suez, il traforo del Moncenisio, l’automobile. Pensiamo che i cambiamenti che abbiamo vissuto noi, in questi ultimi vent’anni, siano travolgenti ma forse tra il 1890 e il 1910 furono ancora più radicali di quelli di oggi. In quegli anni ci fu una fase di globalizzazione molto forte, e il Ballo Excelsior celebrava non solo le scoperte scientifiche e il progresso, ma l’aspettativa di un futuro di pace e prosperità. Poi abbiamo avuto due guerre mondiali. Pensi che possa succedere anche oggi?
Speriamo che non ci siano guerre in Europa! Ma tutti sanno che le guerre nel mondo non mancano. Direi che oggi le elite non sembrano in grado di gestire le contraddizioni della globalizzazione, la disuguaglianza e l’ingiustizia sociale soprattutto: proprio come cent’anni fa.

Torniamo alla CIRFOOD FERRARA, ex COFERI?
In provincia di Ferrara lavorano per CIRFOOD ex COFERI 312 persone, di cui 236 soci. Siamo infatti una cooperativa di produzione e lavoro e il 75% di soci testimonia l’antico insediamento lavorativo e sociale della ristorazione organizzata a Ferrara. Gestiamo 37 cucine e serviamo comuni, case di riposo, mense universitarie, mense aziendali. I nostri maggiori clienti oltre al Comune di Ferrara sono Conserve Italia, Cidas, Manifattura Berluti, Comune di Argenta, Salus, Quisisana, Consorzio RES, ASP, ASP del Delta e tanti altri, ne dimentico molti mi dispiace ma la memoria è quello che è. Gestiamo anche Bar e ristoranti pubblici esercizi come il Bar all’ospedale di Cona, e i self service Oasi, Diamante e Galleria.

E adesso riportiamoci a Internazionale.
Non ci piace sponsorizzare e lo facciamo molto raramente. Anche nel caso di Internazionale non siamo semplicemente degli sponsor ma facciamo ricerca e produzione culturale.

In che modo?
Per ogni tema che sottoponiamo all’attenzione della rivista elaboriamo un percorso di ricerca, organizzando tavoli di lavoro con esperti della materia i cui risultati vengono discussi nella sessione pubblica con i quattro giornalisti italiani e internazionali. Così è stato per tutte le nostre partecipazioni, la prima dedicata al tema del lavoro “L’azienda che vorrei”, la seconda al tema della cultura, “Il costo dell’ignoranza”, la terza al tema del cibo del futuro “Il cibo di cittadinanza”, la quarta al tema delle povertà alimentari e culturali, “Lo spreco”. C’è un evidente filo rosso che accumuna i momenti che abbiamo organizzato: il ruolo dell’ innovazione sociale. Per innovazione sociale intendo le pratiche che aumentano il capitale sociale, ovvero quel corpus di norme, valori e comportamenti che consentono ai gruppi sociali di cooperare tra loro e e alle persone di collaborare all’interno dei gruppi allo scopo di trovare soluzione ai bisogni delle persone; e di raggiungere – tutti insieme – gli obiettivi dell’agenda ONU 2030 per uno sviluppo sostenibile, mettendo quindi in discussione l’attuale modello di sviluppo della globalizzazione liberista.

Nella vostra carta dei valori al primo punto c’è scritto: CIRFOOD è una cooperativa fondata su democrazia, rispetto e sincerità. Sono parole importanti. Ma siete coerenti?
Naturalmente in una azienda così grande ci sono contraddizioni. Ti faccio un esempio: gestiamo oltre mille cucine. In ogni cucina c’è un gruppo di lavoro, un direttore o una direttrice. Non sono ovviamente sicuro che tutti i direttori o le direttrici siano democratici, rispettosi e sinceri. La cooperativa ha naturalmente sistemi di controllo e di indirizzo, per esempio assistenti che si recano ogni settimana in tutte le cucine, e così via. Ma possono esserci limiti. Però ciò che è decisivo, secondo me, è che sia dichiarato, voluto, agito che il nostro fine è quello di essere una azienda democratica, rispettosa di clienti, soci e dipendenti, sincera e trasparente nelle proprie decisioni.

La democrazia è ancora popolare?
Da noi spero proprio di sì.