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Giorno: 12 Ottobre 2018

Dalla letteratura ai social l’onda lunga dell’odio

Basterebbe un’affermazione di Baudelaire per definire l’odio: “L’odio è un veleno prezioso più caro di quello dei Borgia; perché è fatto con il nostro sangue, la nostra salute, il nostro sonno e due terzi del nostro amore.” Perché l’odio è legato all’amore, separato da esso da un confine così labile da permettere a volte una sorta di scambio osmotico. Due sentimenti estremi, totalizzanti, dei quali l’uno può sfociare talvolta nell’altro con una deflagrazione altrettanto potente.

L’odio rappresenta il più elevato, definitivo impedimento allo sviluppo della compassione e della felicità, anche quando qualcuno si appella al ‘sano odio’ come tentativo di mediazione e disonesta giustificazione di questo sentimento di per sé nefasto. L’odio non patteggia attribuendosi aggettivi moderati perché, per definizione, è un sentimento eccessivo, morboso, catastrofico. Oggi, forse, non abbiamo il tempo di soffermarci sul valore delle relazioni umane, ma continuano a sopravvivere i sentimenti forti, intensi, struggenti, passionali che animano i gesti, i pensieri, le giornate. L’odio di oggi, sempre più spesso si mantiene in vita artificialmente sui social, alimentato e incrementato dal potere e dagli spazi che l’web garantisce, protetto dall’anonimato e dalla possibilità di esercitare la sua vigliacca funzione. Il popolo degli haters si nutre di risentimento estremo, calunnia, accusa, illazione, fakenews, attacchi gratuiti, nascosto sotto fantasiosi nickname avvelena le discussioni con discorsi e interferenze improntati all’odio violento, privo di fondamento, inquina iniziative, provoca ulteriore odio con il suo disprezzo. L’epidemia dell’odio sembra quasi rispondere a una necessità fisica, un istinto che trae soddisfazione e appagamento dall’attacco verbale, violento tanto quanto un’aggressione fisica, addentando la vittima di turno fino ad annientarla. Un odio travestito spesso da capacità dialettica, acutezza di argomentazioni e soprattutto dalla rivendicazione del diritto alla legittima libertà di espressione e manifestazione di pensiero.

In letteratura l’odio nasce spesso da profonde ferite che fomentano un atteggiamento di oscura incontrollabile avversione nei confronti di chi o cosa è responsabile della sofferenza. Questo sentimento viscerale devastante diventa epidemico perché l’odio non può che generare odio: diventa contagio, lievita, fermenta, si moltiplica come la peste bubbonica. Nel romanzo ‘Cecità’ del 1995 Jose Saramago lo descrive molto bene quando parla della diffusione generale della cecità che colpisce l’umanità, una condizione che rappresenta l’indifferenza che sfocia nell’odio tribale violento da parte di gruppi malvagi che esercitano prevaricazione e sopraffazione cruenta sui più deboli. “Secondo me non siamo diventati ciechi”, afferma la protagonista, unica indenne alla perdita della vista, “secondo me lo siamo, ciechi che, pur vedendo, non vedono”. La prima figura emblematica legata all’odio è Caino, personaggio biblico archetipo del fratricidio, diventato la quintessenza di tutti i mali oscuri.
Anche Dante, nel Canto VIII dell’Inferno ha riservato un posto particolare a coloro che in vita hanno coltivato e nutrito l’odio. Li troviamo immersi in una mefitica e densa palude, una bolgia chiassosa di disperati costretti a dilaniarsi fra loro. Tra loro c’è anche il fiorentino Filippo Argenti – così denominato perché soleva boriosamente ferrare il proprio cavallo con ferri d’argento – la cui famiglia pare avesse incamerato i beni di Alighieri, sottoposti a confisca. L’uomo, immerso nella brodaglia fangosa si morde e si lacera nella sua solitudine.
Pagine che trasudano odio sono quelle del romanzo ‘A sangue freddo’ (1966) di Truman Capote, l’atroce storia vera di due ragazzi che sterminano quattro membri della famiglia Clutter senza motivo evidente. Il primo romanzo-reportage nella storia della letteratura. Lo scrittore si trasferì a Holcomb, Kansas, la cittadina che era balzata agli onori di cronaca per quel fatto sanguinoso, e raccolse tracce e informazioni minuziose sull’accaduto: una famiglia di agricoltori benestanti che improvvisamente, senza precedenti e motivi, viene strappata dalla sua dorata e monotona realtà da due giovani in preda a un odio gratuito e devastante, Perry Edward Smith e Richard Eugene Hickock, che verranno arrestati proprio mentre Capote si trova a indagare sul luogo. ‘Passaggio in India’ (1924), di Edward Forster, racconta di un’India che deve fare i conti con la colonizzazione britannica. Siamo a di Chandrapore, dove gli indiani occupano la parte bassa della città e la Cittadella che domina è riservata agli Inglesi. Il giovane medico musulmano, dr. Aziz, si trova accusato ingiustamente di violenza nei confronti dell’inglese Miss Adela Quested, la quale sosteneva che il fatto fosse avvenuto in occasione di un’amichevole gita alle grotte di Marabar. Nel romanzo è costantemente presente il binomio Io-L’Altro in un’incessante contrapposizione e opposizione, una conflittualità palese che genera odio: Oriente/Occidente, Inghilterra/India, uomini/donne, cristiani/indù. La diversità sociale, culturale, politica e religiosa tra colonizzatori e colonizzati che vivono ciascuno nel proprio mondo chiuso, genera un clima di disprezzo che versa in un odio sordo, spesso sottaciuto ma molto vivo, ancora lontano dalla dottrina della non-violenza di Gandhi, che sarà successivamente il vero e autentico momento di riscatto per l’India e gli indiani.

Il grande scrittore russo Lev Tolsoj sosteneva che le uniche cose che legano gli uomini sono la lotta per l’esistenza e l’odio, quasi che fossero le uniche due grandi forze cosmiche capaci di tenere viva interiormente l’umanità. L’odio è la fucina della vendetta ma, come sosteneva tristemente e realisticamente Arthur Schnitzler, quando l’odio diventa vile, si mette in maschera, va in società e si fa chiamare giustizia.

I DIALOGHI DELLA VAGINA
A DUE PIAZZE – Le emozioni raccontate dai lettori: questioni irrisolvibili?

Perché capita il bisogno di controllare le emozioni o, peggio ancora, di controllare l’altro? Cosa cerchiamo che ci sfugge? I lettori hanno raccontato a Riccarda e a Nickname come si comportano e cedono di fronte all’inatteso.

Un disagio online

Cara Riccarda, caro Nickname,
sono preso dal controllo di lei. Guardo se è online e lei è sempre online. Ma con chi? Mi trattengo e cerco di non fare vedere questa mia debolezza che però mi mette di cattivo umore e crea mille pensieri negativi.
F.B.

Caro F.B.,
mi chiedo quale bisogno dobbiamo soddisfare, quale sia la mancanza di fondo, perché non la sappiamo individuare e così la trasferiamo direttamente sull’altro.
Dici di essere preso dal controllo di lei, ma è prima su di te che dovresti esercitare un po’ di pulizia. Ha senso mettersi a guardare se lei è online? È chiaro che nel momento in cui vai a vedere cerchi una conferma ai tuoi pensieri già incanalati verso il sospetto. E questo ti logora per tutta la giornata. Un bisogno inquieto che non ti porta da nessuna parte, solo sempre più giù. Prova con una terapia a scalare, come per disintossicarsi, fino ad arrivare al punto zero in cui il bisogno non esiste più.
Riccarda

Caro F. B.,
fino a che la vedi on line puoi stare tranquillo. È quando all’improvviso la troverai off line che dovrai preoccuparti.
Nickname

Sull’onda dell’emozione

Cara Riccarda, caro Nickname,
le emozioni si possono controllare, si possono accettare, subire, guidare, cavalcare come un’onda impetuosa che tutto guida. Ma in tutto questo saranno sempre vincenti loro. La nostra è illusione allo stato puro, anch’essa guidata da emozioni superiori. E’ la morale stessa della vita: cerchi di fare, fai, disfi, programmi, gestisci, costruisci, ragioni, distruggi ed alla fine, senza accorgertene, hai vissuto e non sai come è successo.
Alessandro

Caro Alessandro,
conoscevo una persona che mi diceva sempre “mentalizza”, e io ci provavo pure più di quanto già non facessi. Il risultato era una costruzione mentale, appunto, scardinata dagli eventi che intanto andavano avanti per conto loro. Quando mi trovo a ragionare troppo su una situazione che non capisco (e quindi non mi piace), mi assale quel “mentalizza” che mi ricorda quanto sia meglio per me sospendere il giudizio: i greci la chiamavano epokè, stare sopra alle cose, guardarle un attimo, potrebbero apparirci anche meno grandi.
Riccarda

Caro Alessandro,
credo tu abbia ragione. Le emozioni vincono sempre, anche quando hai l’impressione di dominarle.
Quando ti paralizzano poi non si limitano a vincere, trionfano.
Nickname

L’illusione del controllo

Cara Riccarda, caro Nickname,
il controllo…una rovina, sembra che non ne possiamo fare a meno. La sicurezza che pensiamo di avere nel volerlo raggiungere e ottenere è parimenti snervante alla certezza inconscia di non raggiungerlo mai. Ora non lo cerco più.
Nicola B.

Caro Nicola,
la sicurezza del controllo è tanta quanta l’insicurezza che ci muove nel cercarlo. Non so che meccanismo scatti quando si tenta di non fare scappare nulla al nostro occhio attento, forse succede perché diamo troppa importanza all’oggetto del nostro controllo. Attiviamo forme di vigilanza appesantendo il legame, viviamo male e guastiamo quel che c’è. Tanto le cose vengono sempre fuori, c’è sempre qualcosa di fuori controllo, di non coincidente, non preconizzato. Evitare il controllo credo sia il modo per renderci più morbidi e plastici nel ricevere ciò che arriva, senza farci troppo male se non ci piace.
Riccarda

Caro Nicola,
prendo per buona la tua perentoria affermazione finale, anche se il tono che la precede mi fa pensare che tu abbia qualche difficoltà a tenerle fede. Con simpatia.
Nickname

Potete scrivere a parliamone.rddv@gmail.com

Cose da matti

Scarse risorse, soluzione lontana. La rassegnata inerzia del presidente dell’Ausl, Claudio Vagnini, che traspare nelle dichiarazioni riportate da Estense.com in risposta a una denuncia dei sindacati, avrebbe certamente creato scandalo e magari fatto scattare una richiesta di sue immediate dimissioni se il riferimento fosse stato a una struttura sanitaria di servizio e accudimento destinato a cittadini “normali“.
Ma siccome è di San Bartolo che si tratta – residenza pubblica, ma destinata ai matti – ed è lì che, secondo l’esposto, circolano topi nei locali di cucina, bisce e scarafaggi in ogni anfratto, cimici e zanzare che non danno tregua ai degenti, ecco allora che tutto si smorza e s’attenua…
I matti e i cosiddetti sani sono ancora separati da un solido steccato di pregiudizi che relega i primi nel limbo della sostanziale indifferenza, nonostante decenni di battaglie per restituire la dignità di esseri umani a quelle donne e a quegli uomini che soffrono di disturbi psichici.
E poco conta che a San Bartolo, con i malati di mente, a patire gli effetti di una situazione da film dell’orrore ci siano anche medici, infermieri e personale di servizio: come si suol dire, chi sta con i matti tanto sano non è nemmeno lui. E dunque, pazienza.

Tutto questo proprio alla vigilia del ritorno nella civica pista ferrarese (ad opera del Centro teatro universitario) del prode Marco Cavallo, emblema in cartapesta della rivoluzione psichiatrica di Franco Basaglia che, esattamente quarant’anni fa, culminava con una legge – la 180 – che ha ribaltato la concezione di malattia mentale fino ad allora imperante e portato all’abbattimento dei muri fisici e culturali che cingevano i manicomi, e poi alla loro definitiva chiusura.

Oggi a Ferrara si compie un atto di vigliaccheria sociale. E paradossalmente avviene nella città che al dottor Antonio Slavich, stretto collaboratore di Basaglia, qualche anno fa conferì il premio Ippogrifo, a testimoniare la gratitudine della comunità verso “colui che seppe umanizzare i luoghi di cura e il rapporto con i malati e che in ogni circostanza, nella professione e nella vita, rifiutò le sbarre come soluzione ai problemi e si oppose ai ghetti come luoghi in cui rinchiudere il disagio e la sofferenza”.
Ma i tempi cambiano. E cambia il vento.

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